PINNA, Franco
PINNA, Franco. – Nacque il 29 luglio 1925 a La Maddalena (Sassari), da Pietro e da Maria Pais.
Nel 1935 si trasferì con la famiglia a Roma. Interrotti gli studi per geometri, nel 1943 lasciò la casa dei genitori e militò nelle file della Resistenza romana. L’anno seguente entrò a far parte della Polizia dell’Africa Italiana (PAI) e terminata la guerra venne assunto presso il Distretto militare di Roma, per lavorare alla bonifica dei campi minati in Friuli fino al 1948. Rientrato nella capitale, cercò lavoro nel mondo dello spettacolo, come dimostrano l’iscrizione alla Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) in qualità di aiuto elettricista e l’affiliazione alla Federazione italiana lavoratori spettacolo (FILS), costretto nel frattempo a fare il rappresentante di macchine da scrivere per aiutare la famiglia in difficoltà (Pinna, 1996, p. 9).
L’occasione di un’esperienza in ambito cinematografico si presentò nel 1951, quando Pinna fu chiamato a dirigere la fotografia in Canto d’estate, documentario di Stefano Ubezio e Pier Luigi Martinori presentato quello stesso anno alla Mostra del cinema di Venezia.
I primissimi anni Cinquanta furono caratterizzati dall’intensa attività organizzativa e militante di Pinna all’interno del Partito comunista italiano (PCI). Nel gennaio del 1951 fu protagonista di un blitz propagandistico ai danni del generale Eisenhower in visita in Italia, mentre nel marzo dell’anno successivo venne incarcerato (e subito rilasciato) per un volantinaggio politico non autorizzato. Fu in questo periodo che Pinna cominciò a cimentarsi nell’attività fotogiornalistica. Nel 1952, insieme con Plinio De Martiis, Caio Mario Garrubba, Nicola Sansone e Pablo Volta – anch’essi fotoreporter alle prime armi e nucleo originario di quella che fu poi chiamata la ‘scuola romana’ di fotogiornalismo –, fondò la cooperativa Fotografi associati (FA).
Ispirati ai modelli dell’agenzia Magnum e della rivista americana Life e accomunati da uno stesso credo politico, i membri della FA lavorarono soprattutto per quotidiani e settimanali vicini al PCI (L’Unità, Paese sera, Vie nuove, Noi donne, Il lavoro). Ma nello stesso 1952 fu l’amicizia con l’antropologo Franco Cagnetta a determinare una svolta nella carriera fotografica di Pinna. Tra i fondatori del Centro etnologico italiano, Cagnetta stava sperimentando l’utilizzo della documentazione fotografica nella sua nota Inchiesta su Orgosolo, avvalendosi del reporter americano Sheldon Machlin, di Pablo Volta e Plinio de Martiis. Proprio grazie all’intercessione di Cagnetta, Pinna venne coinvolto in qualità di cineoperatore e fotografo nella celebre e pionieristica spedizione multidisciplinare in Lucania (ottobre 1952) guidata da Ernesto de Martino, insieme a Diego Carpitella (musicologo), Marcello Venturoli (critico d’arte) e Vittoria De Palma (antropologa).
Nell’occasione Pinna realizzò 150 immagini (tra cui si distingue la sequenza dedicata alle lamentatrici funebri di Pisticci) e un documentario in 16 mm, Dalla culla alla bara, andato perduto insieme a buona parte del materiale fotografico.
Il rigoroso approccio scientifico di De Martino aiutò senz’altro Pinna «a contenere qualsiasi smagliatura del patetico e dell’ideologico» (Carpitella, 1980, p. 8), a liberarsi degli schemi della retorica neorealista del tempo per fornire la rappresentazione oggettiva di una realtà lucana totalmente altra rispetto alla civiltà moderna. Ma al di fuori delle esigenze e del carattere impersonale della ricerca etnografica demartiniana, grazie anche all’autonomia di cui Pinna poté godere in seno all’équipe, molte delle fotografie realizzate riportarono le storie di individui concreti, pensate come fototesti da pubblicare nei settimanali illustrati. È ciò che emerge dall’analisi dei materiali conservati presso l’archivio del fotografo (Pinna, 1996 e 2002), in particolare delle didascalie con cui accompagnò i suoi scatti. La complessa questione del ruolo della fotografia nelle ricerche di De Martino e dei suoi rapporti con Pinna, che proseguirono per circa un decennio, si configurò dunque all’interno di «una situazione composita», oscillante tra il «territorio della riflessione scientifica» e quello della «divulgazione giornalistica» (Mazzacane, 1996, p. 133).
L’esperienza al fianco del grande antropologo napoletano, in ogni caso, costituì un momento decisivo per la maturazione di Pinna, che nel 1953 ripartì alla volta del Sud per realizzare due ampi servizi dedicati alla difficile condizione femminile in alcune sperdute località della Calabria, parzialmente pubblicati in Noi Donne.
Nel 1954 la FA venne sciolta per difficoltà economiche e l’anno successivo Pinna trovò lavoro come fotografo ufficiale del settimanale RAI Radiocorriere. Il 1956 fu un anno cruciale per Pinna, coinvolto nella grande inchiesta socio-antropologica condotta da Cagnetta sulle borgate romane e nella seconda spedizione in Lucania di De Martino.
Nelle borgate Pinna trovò un’umanità disperata, composta in gran parte da meridionali emigrati nella capitale in cerca di fortuna, sradicati dalla propria terra di origine e da quel mondo di valori arcaici che il fotografo aveva indagato nel 1952. Tale esperienza accentuò le contraddizioni di quella visione «costantemente insidiata dal desiderio illuministico e moralistico del progresso e della non meno motivata aspirazione di conservare le proprie radici, la propria identità nativistica» (Carpitella, 1980, p. 9) che caratterizzò l’atteggiamento di Pinna soprattutto nei confronti del Sud Italia, oscillante tra l’impegno civile contro condizioni di vita non tollerabili e l’ammirazione per un mondo incontaminato che la modernità stava inesorabilmente disgregando. Un’ambivalenza che emerse ad esempio in alcuni notevoli servizi pubblicati da Noi Donne tra il 1957 e il 1958 (Calabria senza legge, È nato il figlio dell’uomo e Palermo: il futuro va in bicicletta).
Tra le immagini realizzate per Cagnetta a Roma, spicca la celebre sequenza delle prostitute della borgata del Mandrione, dove lo svolgersi della scena inquadrata viene analiticamente rappresentato attraverso una serie di scatti consecutivi, analogamente a quanto avviene coi fotogrammi di una pellicola cinematografica. Tale tecnica, ben più congeniale alle esigenze documentarie dell’inchiesta scientifica e cui corrispose anche il graduale passaggio dal medio al più maneggevole piccolo formato, costituì un importante sviluppo rispetto all’istantaneismo di matrice bressoniana con cui Pinna aveva ritratto la Lucania nel 1952, condensandone l’essenza in istanti tanto emblematici quanto arbitrariamente scelti.
Fu durante le spedizioni di De Martino del 1956 (in Basilicata) e poi del 1959 (in Calabria, Basilicata e Puglia) che Pinna raggiunse i risultati più maturi della sua produzione in ambito etnografico. Nella straordinaria sequenza dedicata al funerale di Castelsaraceno – così come in quelle che ritraggono i riti in onore della Madonna di Pierno o della Pentecoste a Serra San Bruno, il «gioco della falce» a San Giorgio Lucano o il ciclo coreutico della tarantata Maria di Nardò in Salento – «l’articolazione nello spazio e nel tempo dell’evento rappresentato raggiunge esiti mai prima toccati», grazie all’uso «variato» delle inquadrature (dall’alto, dal basso, frontale, laterale, posteriore) e agli «spostamenti continui di un fotografo davvero infaticabile, capace di farsi trovare in un batter d’occhio prima del corteo funebre, dentro di esso, dietro, sopra, tra i suoi spettatori» (Pinna, 2002, p. 21).
Nelle sue tre pubblicazioni dedicate al Sud, De Martino fece un uso estremamente scarno del vasto materiale prodotto da Pinna: tre fotografie comparvero in Morte e pianto rituale nel mondo antico (1958), undici in Sud e magia (1959), mentre in La terra del rimorso (1961) Pinna non fu nemmeno citato tra i crediti (per tale motivo fece causa a De Martino e all’editore). Maggiori soddisfazioni arrivarono attraverso le iniziative organizzate da De Martino per promuovere le sue ricerche: grande successo ebbero le 35 fotografie di Pinna esposte dapprima alla galleria «Ferro di cavallo» di Roma, quindi a Viareggio, Torino, Bologna, Milano, Napoli, Bari e Palermo, mentre tre ampi fototesti uscirono nel 1960 su L’Espresso mese.
Il 1959 segnò la fine dell’esperienza insieme a De Martino e l’inizio di un più autonomo percorso di ricerca con la pubblicazione del fotolibro La Sila, commissionato dall’Automobile club d’Italia (ACI) per la collana Italia nostra, dove Pinna ebbe finalmente il pieno controllo sulle fasi di produzione e selezione delle immagini, caratterizzate da una maggiore accuratezza formale. La tendenza verso una fotografia più attenta ai valori simbolici e compositivi si fece ancora più marcata nel secondo fotolibro, Sardegna. Una civiltà di pietra, uscito nel 1961 per la stessa collana e corredato dalle didascalie dell’antropologo Antonio Pigliaru.
Profondamente influenzato dalle ricerche di Cagnetta sul banditismo a Orgosolo, così come dall’intimo desiderio di ritrovare le proprie radici e rinsaldare i legami con una terra natale lasciata da bambino (Quintavalle, 1983), Pinna restituì l’immagine mitica di una Sardegna arcaica e fieramente ancorata alle proprie tradizioni, fatta di antichi costumi e rituali, pastori e contadini, paesaggi incontaminati e resti di civiltà millenarie. È evidente dunque il tentativo di «rimuovere la dimensione urbana e proto-industriale dell’isola» (Pinna, 2004, p. 55), proprio mentre – in pieno boom economico – si stavano rapidamente trasformando gli assetti socioeconomici della Regione.
Gli anni Sessanta furono caratterizzati soprattutto dai numerosi servizi di attualità, cultura, moda e cinema realizzati per L’Espresso e Panorama, mentre dal 1963 Pinna avviò una serie di collaborazioni con diverse riviste internazionali come il Sunday Times, Life, Paris Match e Vogue. Il viaggio in Siria del 1966 fu il primo di una lunga serie di reportage all’estero (tra cui quelli in Israele, Unione Sovietica, Cina, Australia, Siberia) che proseguirono fino al 1977. Ma a spiccare, nella produzione di questo periodo, sono soprattutto le fotografie di scena realizzate da freelance per i film di Federico Fellini Giulietta degli spiriti (1964), Toby Dammit (1967), Block-notes di un regista e Satyricon (1968), I clowns (1970), Roma (1971), Amarcord (1973) e Casanova (1975), senza dimenticare i lavori del 1957 sui set di Le notti di Cabiria e Le notti bianche di Luchino Visconti. Un’attività che consentì a Pinna di ridurre in parte l’impegno fotogiornalistico, grazie agli importanti proventi derivati dalla vendita delle immagini a numerose riviste italiane ed estere o a case editrici per la realizzazione di fotolibri come I clowns (1970), Casanova (1976) e Fellini’s Filme... (1977).
Nel 1974 partecipò come segretario all’organizzazione delle attività dell’Associazione italiana reporters fotografi (AIRF), mentre è dell’anno successivo l’importante mostra personale Lungo viaggio nelle terre del silenzio, allestita a Bologna.
L’ultima grande opera di rilevamento fu commissionata a Pinna dalla Regione Emilia-Romagna nel 1975: una vasta inchiesta fotografica sulle genti di Emilia e di Romagna, denominata Itinerari emiliani, alla quale lavorò fino al marzo 1976, senza portarla a termine.
Morì improvvisamente a Roma, in seguito a un ictus cerebrale, il 2 aprile 1978.
Fonti e Bibl.: D. Carpitella, F. P. e la fotografia etnografica in Italia, in Id., Viaggio nelle terre del silenzio, Milano 1980, pp. 4-11; F. P. Sardigna, a cura di A.C. Quintavalle, Nuoro 1983; I set di Fellini fotografati da F. P. (catal., Ravenna), a cura della Cineteca del Comune di Bologna, Ravenna 1988; F. P. Fotografie 1944-1977, a cura di G. Pinna et al., Milano 1996; L. Mazzacane, P. e De Martino: una vicenda complessa, in F. P. Fotografie 1944-1977, Milano 1996, pp. 125-135; G. Pinna, Con gli occhi della memoria. La Lucania nelle fotografie di F. P. 1952-1959. Catalogo generale dei provini, Trieste 2002; Id., F. P. L’isola del rimorso. Fotografie in Sardegna 1953-1967, Nuoro 2004.