MATACOTTA, Franco
– Nacque a Fermo l’11 ott. 1916 da Cesare e Maria Maggiori, in una famiglia di modeste condizioni economiche.
Fin dall’adolescenza manifestò una spiccata predilezione per la poesia, in particolare per i classici greci, soprattutto Saffo e Pindaro, che lesse e tradusse. Già dal 1932 iniziò a collaborare al periodico L’Araldo, in cui pubblicò l’articolo Cultura fascista e la poesia Per i fatti di Traù, ma la giovanile adesione al fascismo fu di breve durata.
Nel 1935 conseguì la maturità a Macerata e, dopo un viaggio a Parigi, nel novembre dello stesso anno si trasferì a Roma, dove si iscrisse alla facoltà di lettere e filosofia, frequentandone i corsi tenuti, tra gli altri, da G. Gentile, P. Toesca e N. Sapegno. Nel 1936 conobbe Rina Faccio (Sibilla Aleramo), scrittrice già celebre, con la quale era in contatto epistolare avendole inviato alcune sue poesie, e con la quale iniziò un rapporto che, a fasi alterne, proseguì almeno fino al 1946, e che la scrittrice nel suo Diario definì un «amore insolito», dal momento che la Aleramo aveva sessant’anni e il M. non ancora venti.
Questo incontro determinò una svolta significativa nella formazione del M., in quanto il forte legame affettivo e intellettuale con quella che egli avrebbe denominato «Alma Mater» lo indirizzò a nuove letture (D.H. Lawrence, Colette, P. Valéry, O. Khayyam, George Sand) e gli permise, in particolare, di studiare gli inediti di Dino Campana, custoditi dalla Aleramo dopo l’intensa e drammatica relazione con il poeta, che il M. avrebbe pubblicato dapprima in Prospettive, poi in volume (D. Campana, Taccuino, Fermo 1949). Il rapporto si svolse prevalentemente a Roma, con frequenti viaggi in Grecia, ma soprattutto a Capri. Attraverso la scrittrice, il M. entrò in contatto con l’ambiente letterario e artistico romano, frequentando tra gli altri, E. Cecchi, M. Bontempelli, C. Alvaro, A. Moravia, C. Malaparte, C. Zavattini, R. Guttuso, P. Fazzini e O. Tamburi.
Il 14 luglio 1939 si laureò discutendo una tesi su Ungaretti, Campana e Aleramo. È del 1941 il primo volume pubblicato dal M., Poemetti 1936-1940 (Roma).
Dedicata alla Aleramo, la raccolta privilegia una tonalità decisamente aulica, con reminiscenze dalla linea classica della lirica italiana, da U. Foscolo a G. Leopardi, fino al G. D’Annunzio delle Laudi, ma dove affiora anche un vissuto che fa trapelare il dramma di un’adolescenza in crisi di identità per un rapporto complesso con i genitori – sviluppato successivamente nel romanzo La lepre bianca, la cui laboriosa stesura abbraccia proprio l’arco cronologico dei Poemetti –, e dove si manifestano inquietanti presenze provenienti dal mondo animale e vegetale del microcosmo contadino della campagna marchigiana, e compare la perturbante immagine della luna, nella quale viene a condensarsi una distante e algida figura materna.
Dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, il M., nel 1941, fu chiamato alle armi e destinato, nel luglio, a Macomer, in Sardegna, come allievo ufficiale di artiglieria; l’impatto con la vita militare ebbe un effetto devastante per la sua sensibilità.
Attraverso le conoscenze dell’Aleramo poté ottenere visite mediche e una serie di permessi che trascorse a Roma, Fermo e Capri e, infine, all’ospedale militare di Ancona, dove fu ricoverato dal novembre 1941 al marzo 1942, per essere poi costretto a ripartire per la Sardegna. Nuovamente a Roma in aprile, dopo nuovi andirivieni con l’isola, fu infine destinato come scrivano e dattilografo presso il ministero della Guerra nella capitale.
Il giorno successivo all’8 sett. 1943, insieme con V. Pratolini ed E. Vedova, prese contatto con C. Lizzani, che militava nel Partito comunista italiano (PCI), dichiarandosi disponibile a partecipare ad azioni armate contro i Tedeschi. Costretto poi a rifugiarsi nella soffitta dell’Aleramo in via Margutta per sfuggire alle retate, in seguito riparò avventurosamente a Fermo e di qui a Monte San Giusto vicino a Macerata, presso una famiglia di amici. La sua partecipazione alla Resistenza si limitò all’aiuto fornito ai prigionieri inglesi evasi dal campo di concentramento di Fermo. Questa esperienza fu alla base della raccolta di versi Fisarmonica rossa (Roma-Milano 1945), uno fra i primi volumi di poesia neorealista dedicati all’epopea resistenziale.
La catastrofe del conflitto mondiale, gli orrori e le devastazioni della guerra sul territorio italiano, l’occupazione tedesca e le rappresaglie contro i partigiani e la popolazione civile, con lo strascico doloroso di lutti e di sangue, fanno da sfondo a un racconto poetico che privilegia il ritmo popolare della ballata e un linguaggio teso e fortemente improntato a un crudo espressionismo, elementi in base ai quali la critica ha potuto indicare Fisarmonica rossa come uno dei migliori esiti di poesia resistenziale, accanto alle raccolte Poésie et verité di P. Éluard e a Foglio di via e altri versi di F. Fortini (1946). Poesia in presa diretta, scritta sotto l’incalzare di tragici eventi, come stanno a indicare spesso le date in calce ai componimenti, ma anche intrisa del pathos storico di un incipiente radicale cambiamento nella storia del mondo – come indicano, simmetricamente, l’Ode all’America del 1943 e l’Ode alla Russia del settembre 1944 – ormai destinato a essere dominato da queste due potenze, mentre la vecchia Europa, disseminata di macerie, di crateri e di tombe sembra in procinto di affondare (L’Europa è una luna). In questa alba di un mondo nuovo, la scelta di campo del M., come suggerisce la presenza del colore rosso dominante nella raccolta fin dal titolo, è per il rinnovamento e la palingenesi della società italiana e di quella mondiale proposta dal comunismo.
Nell’ottobre 1945 il M. si iscrisse al PCI, decisione condivisa poco più tardi (3 genn. 1946) anche dalla Aleramo. Da segnalare inoltre, tra il 1944 e il 1945, la collaborazione alla rivista Mercurio, diretta da Alba De Céspedes, in cui pubblicò, oltre ad alcuni dei testi di Fisarmonica rossa, anche la traduzione di Gli Sciti di A. Blok, in collaborazione con Olga Resnevic Signorelli, con la quale tradusse poi anche le Poesie di S. Esenin (Modena 1946). Nella primavera del 1946 uscì anche il romanzo La lepre bianca (Roma).
Ideato, con Sibilla, già nel 1936 e terminato nel 1942, poi parzialmente riscritto e revisionato nel 1944, il romanzo – che prende il titolo dal più antico testo sullo shintoismo giapponese pervenutoci, il Kojiki di Yasumaro (o Ko-gi-Ki. Memorie degli eventi antichi del 712 d.C.) – è una rivisitazione in chiave mitica dell’infanzia dell’autore, attraverso la rievocazione di episodi emblematici, delle figure dei genitori e del complesso e tormentato rapporto con esse. Costruito a blocchi, intorno a eventi e personaggi, il romanzo, a buon diritto ascrivibile al sottogenere del «romanzo di formazione», rappresenta efficacemente prima l’infanzia infelice e poi i tormenti e i turbamenti di un’adolescenza inquieta, superati solo attraverso la scoperta della propria vocazione di scrittore e di poeta e l’evento tragico, ma liberatorio, della malattia e della morte della madre. Come ha scritto efficacemente G. Manacorda, la «pagina matacottiana svolge con sapienza una linea difficile, contorta, piena di contraddizioni, di speranze e disperazioni, di invettive e di rimorsi, di sottigliezze e di asprezze». Tuttavia, considerato dai suoi primi lettori, A. Bocelli ed E. Cecchi, farraginoso e ridondante, rifiutato da Mondadori e da Tumminelli, La lepre bianca, uscito in pieno clima neorealista, non ebbe i riconoscimenti e il successo che il M. e la Aleramo si aspettavano.
Nel 1946 il rapporto tra i due scrittori si andava, intanto, esaurendo; il M. iniziò la carriera di insegnante presso una scuola media di Civitavecchia e, successivamente in istituti scolastici di altre città, tra le quali Ostia, Subiaco, Tivoli e Fermo. Nel settembre 1947 sposò la giovane collega Rosa Buono. Proseguì, comunque, l’attività politica, assumendo, nel pieno della campagna elettorale per le elezioni del 1946, la carica di segretario della sezione del PCI di Fermo. Presumibilmente in questo anno, con lo pseudonimo di Francesco Monterosso, pubblicò la plaquette La terra occupata. Coro parlato di contadini (Roma) che, insieme con Fisarmonica rossa e I sette dolori del partigiano, entrò successivamente a far parte del Canzoniere di libertà (ibid. 1953).
Dando voce ai contadini, protagonisti del movimento di occupazione delle terre incolte del latifondo, il M. propone un modello di poesia corale e popolare caro al neorealismo, imperniato sul sogno rivoluzionario di una palingenesi sociale basata su una nuova giustizia, purtuttavia recuperando archetipi formali della letteratura italiana antica, come, per esempio, il modello delle ballate rimate di Iacopone da Todi, particolarmente evidente nel Pianto della madre sul figlio ucciso.
È del 1948 la breve raccolta Naialuna (Fermo, con un ritratto dell’autore di G. Capogrossi), con cui vinse il premio San Pellegrino.
In essa il M. sviluppa gli appunti poetici presi durante il soggiorno in Sardegna, nel corso del tormentato periodo di servizio militare, quando era maturata la sua crisi esistenziale in una situazione di solitudine che aveva trovato corrispondenza nella natura selvaggia, pietrosa e solitaria dell’isola. I frequenti richiami mitologici e le reminiscenze leopardiane collegano questi versi ai Poemetti, di cui sembrano costituire una propaggine, piuttosto che a quelli legati all’impegno sociale e politico.
Il 28 luglio 1948 il M. ebbe il primo figlio, Massimo (nel 1956 nacque il secondo Francesco Cino) e, l’anno successivo, pubblicò la raccolta Ubbidiamo alla terra (Rieti-Roma 1949, con un’incisione di P. Fazzini).
In quest’ultima appare evidente il ripiegamento della poetica del M. nel privato, nel ritrovamento di un equilibrio e di un rapporto armonico con il mondo, dovuto al matrimonio e alla nascita del figlio, che suggerisce una visione idillica del rapporto tra uomo e natura nel quale emergono componenti già in origine presenti nella sua poesia: il panismo dannunziano, un sottofondo virgiliano e petrarchesco, riscontrabile anche nel linguaggio poetico oltre che nella più generale tematica del testo.
Nel 1953 il M. ripropose, sotto lo pseudonimo partigiano di Francesco Monterosso, con il Canzoniere di libertà (Roma), i testi più politicizzati della sua poesia, senza peraltro riscuotere i consensi della critica che notò anzi il carattere retorico di gran parte delle liriche aggiunte con l’occasione; a essa seguì, nel 1956, con il medesimo nom de plume, la raccolta poetica I mesi (Milano, prefaz. di F. Flora e con un’incisione di P. Fazzini), in cui riprende, nella prima parte, la pacificata tematica di Ubbidiamo alla terra, mentre, nella seconda, sviluppa ancora tematiche civili, questa volta collegando, sul filo della memoria privata e di quella storica, gli eventi drammatici degli anni della lotta antifascista. In quello stesso 1956, dopo gli eventi legati alla repressione sovietica in Ungheria, il M. maturò la crisi che lo indusse a lasciare il PCI e a pubblicare, nel 1957, i Versi copernicani (Firenze).
«Quelle piccole cose d’Ungheria / piccole come piccola la morte / dentro i giovani occhi» rappresentano invece, per il M., una vera rivoluzione copernicana destinata a sconvolgere un comunismo dogmatico, monolitico e ancora tolemaico.
Crisi ideologica, quella del M., riscontrabile appieno nel successivo volume di poesie Gli orti marchigiani (Padova 1959) che raccoglie testi scritti tra il 1954 e il 1958.
In esso predomina, accanto al senso profondo di radicamento nella sua terra e nei valori trasmessi per generazioni dalla sua gente, una meditazione profonda sulla morte e sulla vita come percorso faticoso nel dolore. Se Foscolo e Leopardi costituiscono i punti di riferimento obbligati del M. sul piano sia tematico sia della scelta di una scrittura poetica tesa al sublime, occorre anche osservare che con il riaffiorare delle memorie familiari e infantili il tono dei componimenti tende a virare decisamente verso l’elegiaco e si evidenziano vistose sedimentazioni di ascendenza pascoliana.
Nell’autunno 1959, il M., che aveva fino ad allora insegnato presso l’istituto tecnico industriale di Fermo, improvvisamente decise di abbandonare la moglie e i figli e di trasferirsi a Milano. Una decisione legata, oltre che al tentativo di evadere dalla sonnolenta provincia marchigiana, anche al desiderio di esplorare le opportunità che poteva offrire il capoluogo lombardo, centro propulsivo dell’industria editoriale. Tra il 1959 e il 1961 insegnò dapprima presso l’istituto tecnico industriale di Rho, poi a Milano. Ma, proprio in questi anni, una serie di eventi luttuosi sconvolse la sua vita: il 15 genn. 1960 scompariva a Roma Sibilla Aleramo mentre l’8 luglio dello stesso anno morì, in circostanze mai chiarite, il primogenito Massimo, ospite dei nonni materni ad Ancona; il M., al momento irreperibile, arrivò ad Ancona solo una settimana dopo i funerali del figlio, accompagnato da Pratolini. Questa morte segnò irreversibilmente l’esistenza del M. che, ricongiuntosi alla famiglia e rinunciando definitivamente all’avventura milanese, insegnò a Osimo, quindi a Genova e infine a Levanto. Nel 1963, dopo una lunga malattia, si spense a Genova anche la moglie Rosa. Nel 1964 conobbe la collega Emma Marini, che sposò lo stesso anno, ma in quello successivo, dopo la morte del padre, decise di rientrare a Fermo, per tornare nell’ottobre 1968 definitivamente in Liguria, a Nervi, dove insegnò nella scuola media Vivaldi. Solo nel 1975 uscì La peste di Milano e altri poemetti (Ancona) con un’introduzione di F. Fortini.
Il libro, articolato in tre parti, si apre con I Milanesi, due poemetti composti tra il 1959 e il 1961, Dinanzi alla tomba di un fascista e La peste di Milano, da cui prende il titolo la raccolta. Articolati in quartine, sembrano riprendere, anche nella struttura, il monologo pasoliniano delle Ceneri di Gramsci, indirizzati a quella Milano che aveva visto sorgere il fascismo, responsabile delle catastrofi che ne sarebbero seguite. La città lombarda, nella quale il M. era arrivato pieno di aspettative, viene rappresentata nei suoi aspetti più sordidi e deteriori, metropoli inospitale di un’umanità dedita solo al profitto e al guadagno, luogo di esilio e «capitale usuraia». La seconda sezione comprende otto Inni, scritti tra il 1961 e il 1965, periodo di lutti familiari, tutti dedicati al tema della morte e alla ricerca di un senso in una vita che sembra dipanarsi solo sotto il segno del dolore e della sofferenza. In questi componimenti, per citare Manacorda, il M. fa l’estremo tentativo di «trovare una forma al suo dolore»: dolore che pervade anche l’ultima sezione, di trentanove componimenti scritti tra il 1959 e il 1967, intitolata, significativamente, I corvi di Poe.
Colpito da un male progressivo e inesorabile che ne offuscò le facoltà mentali, il M. pubblicò ancora, con un saggio introduttivo di G. Manacorda e quattro illustrazioni di Fazzini, il Canzoniere d’amore (Ancona 1977), ottantacinque poesie, composte tra il 1959 e il 1970, nelle quali è questa volta l’amore per la sua donna, rapporto spirituale ma anche passione accesamente carnale, che tenta di assumersi il compito di fornire una via d’uscita alla disperazione e al male di vivere.
Il M. morì a Genova il 27 apr. 1978.
Nell’archivio del M., attualmente custodito dal figlio Cino, oltre alla corrispondenza con Sibilla Aleramo e a un prezioso nucleo di carte di Dino Campana, si conservano lettere, tra gli altri, di Pratolini, G. Ungaretti, G. Caproni, E. Falqui, C. Pavese e dei numerosi editori e direttori di giornali e riviste con i quali il M. fu in contatto. Tra gli inediti, si segnala soprattutto il romanzo Confessione di un figlio della vecchia Europa, impietoso ritratto della società letteraria italiana a cavaliere della seconda guerra mondiale.
Fonti e Bibl.: S. Quasimodo, in La poesia italiana del dopoguerra, Milano 1958, ad ind.; G. Barberi Squarotti, La cultura e la poesia italiana del dopoguerra, Bologna 1968, ad ind.; C. Antognini, Scrittori marchigiani del Novecento, Ancona 1971, ad ind.; M. Petrucciani, Segnali e archetipi della poesia, Milano 1974, ad ind.; A. Luzi - R. Ventola, Marche: poeti oggi, Urbania 1979, ad ind.; W. Siti, Il neorealismo nella poesia italiana 1941-1956, Torino 1980, ad ind.; L. Martellini, M., Firenze 1981 (con bibl.); F. M. Atti del Convegno di studi…, a cura di G. Morelli, Bergamo 1987; G. Manacorda, Storia della letteratura italiana contemporanea 1940-1996, Roma 1996, ad ind.; Il rosso segnale della poesia. L’opera di F. M., a cura di L. Mancino, Grottammare 2000; L. Martellini, Un oscuro presagio di sangue, Lanciano 2007.