Bacon, Francis
Figlio di sir Nicholas Bacon, lord guardasigilli della regina Elisabetta I, B. nacque a Londra nel 1561. Sua madre era Anne Cooke, cognata di sir William Cecil, lord Burghley, lord tesoriere della regina. Nel 1573 entrò al Trinity College di Cambridge e nel 1576 al Gray’s Inn di Londra, dove studiò diritto. Tra il 1576 e il 1579 – anno della morte del padre – fece lunghi soggiorni in Francia, Italia e Spagna. Nel 1581 ottenne un seggio in Parlamento che fu riconfermato tre volte: in questo stesso anno iniziò ad avvicinarsi al puritanesimo.
Nel 1586, grazie all’aiuto dello zio, lord Burghley, cominciò a ricoprire incarichi pubblici presso università e tribunali e, a partire dal 1596, per la Corona (prima con Elisabetta, poi con Giacomo I, che lo nominò vice procuratore generale). Nel 1605 B. scrisse i primi saggi filosofici, tra cui The two books of the proficience and advancement of learning divine and human. Nel 1613 fu nominato attorney general e nel 1618 lord cancelliere: nello stesso anno gli venne concesso dal re Giacomo I il titolo nobiliare di lord Verulamio. Nel 1620 pubblicò un’opera fondamentale per il pensiero moderno, il Novum organum. Per B. la filosofia non era più indagine sulle cose e sugli eventi – questo era il compito della ricerca scientifica – ma sulle modalità con le quali la mente umana elaborava le proprie conoscenze: la filosofia diventava così epistemologia, cioè teoria della conoscenza, il cui scopo consisteva nell’indagare sulle condizioni di possibilità e sulla validità delle indagini scientifiche.
Per B. il metodo scientifico più adatto per conoscere i fenomeni naturali era l’induzione, che consisteva nel procedimento di generalizzazione dei dati empirici in leggi universali. Un tale modello di scienza costituiva un sapere pubblico accessibile e verificabile, utile per migliorare le condizioni di vita dell’uomo e dunque garanzia del progresso dell’umanità, reso possibile anche dalla rivalutazione delle arti meccaniche. Nel 1621, a causa di un processo per corruzione nel quale venne condannato, terminò la sua carriera politica: la condanna gli impedì infatti di sedere in Parlamento o di ricoprire incarichi pubblici.
Dedicò i suoi ultimi anni allo studio e scrisse altri testi importanti, tra cui De dignitate et augmentis scientiarum (1623: si tratta della versione latina, profondamente ampliata e rivista, dell’Advancement del 1605) e New Atlantis (1626, incompiuta). Morì a Highgate, vicino Londra, nel 1626.
B. è uno dei più attenti lettori di M. in Inghilterra tra 16° e 17° secolo. L’influenza dell’insegnamento di M. è infatti percepibile in numerose opere di B. dedicate alle questioni morali e politiche: la presenza di M. non è però lineare perché in B. si susseguono, intersecandosi, continue operazioni di appropriazione e di differenziazione rispetto all’insegnamento machiavelliano intorno all’etica e alla storia, alla religione civile e alla critica del papato, all’arte politica e all’antropologia. Già negli Essays or counsels, civil and moral (1597) sono evidenti le tracce machiavelliane a proposito della ricerca storica, il regno della conoscenza del particolare: qui B. segue l’esempio di M., la cui arte politica deduce le proprie regole generali dall’analisi empirica delle singole azioni che si realizzano concretamente nella storia. L’impostazione metodologica di una «scienza concreta» applicata a tutti gli aspetti della vita umana caratterizza l’intera carriera filosofica di B. tanto che, con diretto riferimento a M., viene ribadita anche nel De augmentis scientiarum (1623; trad. it. in Opere filosofiche, a cura di E. De Mas, 1965, pp. 114-20, 323-24) per sottolineare che la conoscenza della «realtà effettuale» può essere conseguita solo attraverso il metodo induttivo disegnato nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in cui l’esempio è assunto come base, e non come supporto o illustrazione, del sapere morale e politico:
La maniera di scrivere che conviene di più [...] sarebbe quella che molto opportunamente ha scelto Machiavelli per trattare di politica, cioè il metodo delle osservazioni o dei Discorsi (come egli li ha chiamati) sulla storia e sugli esempi. Perché la scienza che si ricava dai fatti particolari [...] è quella che conosce meglio di ogni altra la via da seguire per riprodurre quei fatti; ed è un metodo sicuramente più utile alla pratica quello di disporre tutto il discorso e la discussione sotto un esempio [...]. Infatti, se si prende l’esempio come base del discorso, lo si propone ordinatamente con tutto l’apparato delle circostanze che lo hanno accompagnato, le quali possono talvolta correggere, talvolta supplire il discorso; e si presenta così un modello da imitare e da seguire nella pratica [...]. Ma è degna di osservazione questa differenza che, come la storia dei tempi offre un’ottima materia per discorsi sulla politica (come quelli di Machiavelli), così le storie delle vite forniscono i migliori insegnamenti per gli affari, perché abbracciano tutta la varietà delle occasioni e dei fatti, sia grandi che piccoli (pp. 441-42).
Le opere e il metodo di M. aiutano B. a emanciparsi dall’astrattismo normativo della tradizione aristotelica e a indirizzarsi verso una percezione realistica dell’agire individuale e sociale. Naturalmente ciò non determina un appiattimento della ricerca baconiana sui principi morali e politici di M.: basta infatti ricordare una delle questioni chiave del suo pensiero – la possibilità del progresso civile che, a partire dall’incremento della conoscenza scientifica, caratterizza l’homo faber in grado di costruire civiltà e benessere – per verificare la distanza che separa la concezione storico-sociale del cancelliere londinese da quella del Segretario fiorentino. In ogni caso B. concorda sulla acquisizione centrale dell’antropologia machiavelliana (pp. 431-33), sul fatto cioè che le passioni e le azioni degli uomini devono essere analizzate nella loro concreta realtà, e non alla luce di astratti pregiudizi o fantasiose teorie. Su questo punto è nota l’apologia baconiana di M.:
Noi dobbiamo ringraziare Machiavelli e gli scrittori come lui, che apertamente e senza infingimenti dicono quello che gli uomini di solito fanno, non quello che debbono fare. Non sarebbe, infatti, possibile riunire in una sola persona la prudenza del serpente e l’innocenza della colomba, se questa persona non conoscesse a fondo la natura stessa del male. Senza questa conoscenza la virtù non avrà né difesa né salvaguardia sufficiente. Anzi, in nessun modo potrà il buono correggere ed emendare il cattivo, se non avrà appreso in precedenza tutti i recessi e le profondità della malizia umana (pp. 391-92).
La conoscenza del male aiuta a difendere e a promuovere la virtù, proprio perché per B. – come già sostenuto da M., e più in generale dall’Umanesimo fiorentino – la scienza deve servire all’azione, non alla contemplazione: ciò che è vero è anche utile, e viceversa. Su questa linea B. segue M. anche quando, discutendo il tema della fortuna (p. 444), ritiene che l’uomo debba diventare «fabbro» della propria storia, apprendendo i modi e i saperi per «progredire nella vita» e per «procacciarsi la fortuna». Anche in questo caso, però, accanto al doveroso omaggio al realismo e alla concretezza del Segretario fiorentino, B. sottolinea la propria diversa interpretazione del rapporto tra interesse privato e interesse collettivo. La storia non è mossa infatti solo dalle machiavelliane passioni della violenza e dell’astuzia (pp. 405, 462, 466-67; Opere filosofiche, cit., 1965, p. 536; Scritti politici, giuridici e storici, a cura di E. De Mas, 1971, pp. 432, 490), ma anche da quelle della virtù e della giustizia, che non hanno natura utopistica perché entrano ugualmente nella «realtà effettuale» attraverso la concezione ‘utilitaristica’ dell’egoismo e la composizione tra interesse privato e interesse collettivo (favorita dall’irruzione nello spazio sociale della conoscenza scientifica intesa come potere concreto e strumento di trasformazione della società): la legge fondamentale della natura è infatti che
ogni cosa della natura, per quanto abbia il suo privato e particolare sentimento o appetito, che essa segue e persegue in quei momenti in cui è lasciata libera dalle relazioni più generali e comuni, quando però viene il momento o caso di appoggiarsi al più generale, rinuncia a conseguire la sua propria particolarità e proprietà, e tende e cospira a sostenere quella pubblica (Scritti politici, giuridici e storici, cit., p. 570).
Rispetto a quella di M., la concezione baconiana dell’egoismo – «quell’amore del prossimo che inizia con noi stessi» – può essere dunque definita «illuministica» avant la lettre. La lezione machiavelliana non è però esclusa, anzi rientra pienamente in gioco, perché in B. la coincidenza tra interesse privato e collettivo è garantita solo in un quadro di ethos condiviso, cioè in presenza di una religione civile in grado di dare sostanza all’unità e all’identità di una comunità: si tratta di un tema che attraversa l’intero percorso intellettuale di B. e che è presente anche nel suo ultimo testo, New Atlantis (1626). Il presupposto della concezione baconiana di religione civile risiede nella critica del potere politico ed economico della Chiesa cattolica fondato sulla pericolosa e illegittima confusione tra potere spirituale e potere temporale (e anche in questo caso il richiamo a M. è esplicito a più riprese: De augmentis scientiarum, in Opere filosofiche, cit., pp. 28-29, 163-64; Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, 1975, pp. 145-46). L’essenza della religione civile baconiana si ritrova nella capacità di «tenere insieme» la società politica, sia attraverso la creazione di meccanismi di legittimazione popolare delle istituzioni sia attraverso lo sviluppo di virtù civiche in grado di fungere da modello e da «esempio»: in entrambi i casi il riferimento di B. è il M. dei Discorsi.
Bibliografia: Essays or counsels, civil and moral, London 1597; Of goodness and goodness of nature (1607), poi in The essays, ed. J. Pitcher, London 1985 (trad. it. Della bontà e della bontà naturale, in Scritti politici, giuridici, storici, a cura di E. De Mas, 1° vol., Torino 1971, pp. 340-44); De augmentis scientiarum, in Opera Francisci Baconis, London 1623 (trad. it. Della dignità e del progresso delle scienze, in Opere filosofiche, a cura di E. De Mas, 2° vol., Bari 1965, pp. 3-519); New Atlantis (1626), poi in The moral and historical works of Lord Bacon, London 1901 (trad. it. Nuova Atlantide, in Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, Torino 1975, pp. 821-65).
Per gli studi critici si vedano: J. Béchot, Francis Bacon et Machiavelli, «Nouvelle revue critique», 1934, 1, pp. 1-20; N. Orsini, Bacone e Machiavelli, Genova 1936; V. Luciani, Bacon and Machiavelli, «Italica», 1947, 24, 1, pp. 26-40; J.A. Mazzeo, Renaissance and revolution. The remaking of European thought, New York 1965; H.B. White, Peace among the willows. The political philosophy of Francis Bacon, The Hague 1968; R.K. Faulkner, The empire of progress. Bacon’s improvement upon Machiavelli, «Interpretation», 1992, 20, 1, pp. 37-62; U. Pagallo, Homo homini deus. Per un’introduzione al pensiero giuridico di Francis Bacon, Padova 1995; G. Sacerdoti, Bacone, Machiavelli e l’imitazione di Cristo, «Giornale critico della filosofia italiana», 2007, 86, pp. 284-97; S. Minkov, The human good and the problem of Bacon’s intention, «Interpretation», 2008, 35, 3, pp. 265-82; D. Coli, Hobbes, Roma e Machiavelli nell’Inghilterra degli Stuart, Firenze 2009; M.G. Moretti, Machiavelli e Francesco Bacone, Roma 2011; G. Giglioni, Philosophy according to Tacitus. Francis Bacon and the inquiry into the limits of human self-delusion, «Perspectives on science», 2012, 20, pp. 159-82.