Francesco Vettori
Nacque a Firenze l’8 novembre del 1474 da Piero e da Caterina Rucellai. Da parte sia di padre sia di madre, dunque, apparteneva al ceto ottimatizio fiorentino e a tale ascendenza familiare restò fedele, esprimendo nei suoi scritti un’ideologia aristocratica profondamente avversa al popolo, ritenuto impreparato, incapace e pericoloso. Risulta, quindi, estraneo al tradizionale repubblicanesimo fiorentino e al suo concetto di florentina libertas, consistente non solo nell’indipendenza della città e nell’uguaglianza di fronte alla legge, ma anche nella partecipazione popolare alle decisioni pubbliche. Fu altresì poco sensibile al classicismo umanistico così come al paradigma romano, imperante, invece, con la notevole esclusione di Guicciardini, nei ragionamenti politici dei suoi concittadini. Palesò, e tale inclinazione psicologica si aggravò nel corso degli anni, un atteggiamento disilluso, melanconico e senza entusiasmi, per il quale non giudicava le vicende politiche secondo le tradizionali categorie storiche di libertà e di tirannide, ma valutava esclusivamente l’interesse del proprio ceto e la bontà o meno del principe.
Il suo primo incarico politico rilevante fu l’ambasceria presso l’imperatore Massimiliano, che l’ottimate svolse dal 1507 al 1509 e durante la quale conobbe e apprezzò Machiavelli. Da tale missione diplomatica nacque il Viaggio in Alemagna, diario intercalato da novelle e aneddoti, in cui manifesta doti non trascurabili di narratore.
Dopo la caduta della Repubblica e il breve e fallimentare tentativo di instaurare un regime oligarchico egemonizzato dagli ottimati, Vettori fu decisamente filomediceo, divenendo uno dei più fidati consiglieri del giovane Lorenzo. Alla prematura morte di questi, nel maggio del 1519, scrisse un affettuoso ritratto del giovane principe, illustrando le sue tesi politiche di un regime mediceo, rispettoso delle forme repubblicane, ma sostanzialmente regolato e guidato dagli aristocratici. Fu questa la linea politica che propose anche al secondo papa mediceo, Clemente VII, quando nuovamente fu ambasciatore a Roma. Ma il pontefice, inviando a Firenze il cardinale Silvio Passerini, optò per un regime più decisamente controllato dai Medici.
Avvicinatosi poi alle posizioni antimedicee del carissimo amico Filippo Strozzi, attraversò con sempre maggiore disincanto le convulse vicende politiche della restaurazione, dopo il sacco di Roma, della Repubblica a Firenze, nella quale, chiusa la parentesi moderata, si affermò un radicalismo repubblicano che lo indusse a ritornare sotto l’ala protettrice del papa mediceo. Compose nel 1527 il Sommario della storia d’Italia dal 1511 al 1527, in cui narrava gli eventi in una prospettiva europea e propendeva al fatalismo, evidenziando il dominio della fortuna sulla virtù. In quest’opera confermava il suo animo estraneo a ideali etico-civili, che caratterizzò anche un suo dialogo sul sacco di Roma.
Dopo la fine della Repubblica, nei Pareri (richiesti dal papa a lui, così come ad altri esponenti di rilievo della politica fiorentina, sul futuro assetto costituzionale della città) sostenne un deciso rafforzamento del potere mediceo al di là del paradigma costituito dal moderatismo degli archetipi quattrocenteschi della famiglia, Cosimo e Lorenzo il Magnifico. Tesi che mantenne con il duca Alessandro e ancor più con l’avvento del regime assolutistico di Cosimo, del quale aveva patrocinato l’elezione dopo l’assassinio di Alessandro, ormai consapevole della necessità di un forte e inequivoco principato mediceo non più arginabile dagli ottimati. Morì a Firenze nel 1539.