SPADA, Francesco
SPADA, Francesco. – Nacque il 15 dicembre 1797 a Roma, secondo di tre figli, da Alessio, proprietario di una bottega di orologeria, e da Caterina Biagioni, discendente da una famiglia di origine fiorentina.
Mostrò un precoce interesse per gli studi classici e la poesia, al punto da meritarsi in famiglia l’affettuoso soprannome di ‘umanista’. Colpito in giovane età da vaiolo, sopravvisse alla malattia, ma ne ebbe il volto deturpato.
Al 1803 risale uno degli eventi più importanti della sua vita: l’incontro con Giuseppe Gioachino Belli. Questi, all’epoca tredicenne, alla morte del padre si trasferì assieme alla famiglia al secondo piano del palazzo dove vivevano gli Spada, nei pressi di via delle Convertite, nel centro di Roma.
A vent’anni, il 17 marzo 1817, Spada fu cooptato, su proposta del poeta Giacomo Ferretti, di Vincenzo Foleari e dell’avvocato Domenico Chiodi, nella Pontificia Accademia Tiberina, nata appena quattro anni prima. Vi ritrovò Belli, che ne era stato fondatore assieme ad altri letterati. Poté tuttavia dedicare solo un tempo esiguo agli studi umanistici, essendo costretto ad apprendere il mestiere di orologiaio nel negozio del padre, con cui però ebbe un rapporto sempre conflittuale.
Nel 1820 prese avvio, proseguendo per più di quarant’anni, un folto scambio epistolare con Belli, il quale all’inizio inviava le sue missive dalle Marche e dall’Umbria, dove risiedeva la famiglia della moglie Maria Conti.
Nel 1829 Spada assisté alla morte di sua sorella minore Clementina, non ancora trentenne, cui Belli aveva precedentemente dedicato alcuni versi. Francesco scrisse per lei un commosso epitaffio in italiano, dando così inizio a un’attività, quella di epigrafista, che avrebbe successivamente svolto anche per celebrare personaggi viventi e ricorrenze di fatti storici.
Nel carteggio Spada-Belli è degna di nota la lettera del 5 ottobre 1831, in cui il secondo annunciava di aver raggiunto il traguardo di stesura dei 153 sonetti romaneschi ed esprimeva l’idea che potessero comporre un’opera più ampia e organica, definita già con quella formula del ‘monumento della plebe di Roma’, poi ripresa nell’introduzione alla raccolta. In questo modo Spada si faceva testimone diretto della nascita del capolavoro belliano, di cui lesse anticipatamente i testi e seguì da vicino lo sviluppo.
Negli anni Venti e Trenta anche Spada si diede alla composizione di poesie, non in romanesco, come l’amico, ma in italiano e per lo più destinate a riviste: una sua ode, accompagnata «con varii dubbii cagionati anche dal fatto che allora era in pieno vigore l’accanita battaglia tra classici e romantici» (Ianni, 1967, p. 444), fu giudicata tenera e gentilissima proprio da Belli in una lettera da Perugia del 2 luglio 1833. Quindici sue rime e due «sepolcrali iscrizioni» (per la sorella Clementina e per Teresa Lepri) furono raccolte in un libello edito sempre nel 1833 dalla tipografia romana Salviucci, che stampò molti dei suoi scritti successivi. Fra le poesie di questo periodo è anche l’idillio in terzine Sul nascimento divino, pubblicato a Roma nel 1839. Di argomento religioso è pure il sonetto Nel nascimento divino, una prece della pia società che s’intitola della Santa Infanzia di Gesù Cristo. La sua poesia ebbe inoltre per oggetto polemiche con letterati e accademici, infiammate dal suo temperamento sdegnoso e arguto al tempo stesso, che trovava nell’epigramma la sua privilegiata via d’espressione.
Gli interessi di Spada non si ridussero tuttavia alla sola letteratura, ma si volsero anche a questioni scientifiche. Presso l’Accademia Tiberina, alle riunioni della quale presenziava regolarmente, il 18 luglio 1842 pronunciò il discorso Di una falsa opinione comunemente abbracciata in Roma circa le inondazioni del Tevere.
Vi contestava l’idea, diffusa già da padre Benedetto Castelli, contemporaneo di Galileo Galilei, secondo cui le piene del fiume romano fossero da attribuirsi alla potenza dei venti australi o alla resistenza del mare, che impediva l’ingresso delle acque fluviali facendole tornare indietro. Spada ipotizzava invece la responsabilità dei ponti Cestio e Sublicio, nei pressi dei quali era probabile un accumulo di ghiaia e detriti.
Sostenitore del potere temporale del papa e fervido ammiratore di Pio IX, gli dedicò un Omaggio di acclamazioni e di augurii in versi l’8 settembre 1846, stampato su foglio volante. Non condivise invece le tesi espresse nel Primato di Vincenzo Gioberti, del quale non gradì la venuta a Roma nel 1848, e scrisse alcuni virulenti epigrammi contro l’abate Pellegrino Sperandio Diaconi. Nel discorso Hominibus bonae voluntatis: del genere di storia che si conviene ai fatti del nostro tempo cioè ai primi tre anni del pontificato di Pio IX, dato alle stampe nel 1849, affermò l’unicità dei fatti che avevano di recente coinvolto il vicario di Cristo, per i quali, sosteneva, era necessaria una nuova idea di storia. Vi manifestò per di più un atteggiamento reazionario e un profondo disprezzo per il popolo, reo di aver sostenuto l’‘infame’ apostolato della rivoluzione.
Fra gli epigrammi di questo periodo, alcuni dal carattere più sapido sembravano proseguire la tradizione latina e rinnovellare in particolare l’insegnamento di Marziale. In uno di essi, in data 10 settembre 1850, fece oggetto dei suoi strali un ricco oste la cui casa era andata distrutta a causa di un incendio nel centro di Roma. In un altro ironizzò invece sul ritorno della moda della gonna a mongolfiera.
Ennesima testimonianza del sodalizio che lo legò a Belli, una lettera del 16 giugno 1856 in cui rivolgeva delle lodi all’amico che aveva concluso una traduzione degli inni sacri. La lettera venne pubblicata lo stesso anno presso la tipografia Salviucci.
L’ammirazione per papa Pio IX si rese ancor più evidente allorché, il 13 settembre 1857, Spada ne celebrò l’anniversario del ritorno a Roma con alcuni versi inclusi in un’ode saffica che aveva per argomento l’arte primitiva. Commentando quindi i fatti politici del suo tempo, scrisse Nel giorno XXIX di giugno MDCCCLIX a s. Pietro apostolo pe’ malvagi tempi in cui siamo. Celebrò poi con un sonetto, il 17 giugno 1860, il quattordicesimo anno dell’elezione di Pio IX. L’8 settembre successivo recitò, invece, presso l’Accademia Tiberina, un componimento in ottave dal titolo Un sogno, ossia la straordinaria pompa trionfale onde fu in Roma solennizzato il giorno VIII settembre MDCCCXXXXVI, in occasione del quattrodicesimo anniversario della costruzione dell’arco temporaneo innalzato per il pontefice. A questi testi ne fecero seguito altri in lode del papa, come quelli vergati nella Pentecoste del MDCCCLXII, giorno in cui il pontefice pronunciò l’allocuzione Maxima quidem, e Il sole e Pio IX, che apparve per Salviucci nel 1863.
Alla morte di Belli, sempre nel 1863, Spada dettò un epitaffio in latino che, sormontato dal monogramma di Cristo, si legge ancora oggi sulla lapide del poeta presso il cimitero del Verano di Roma. Una sua isolata prova nel vernacolo della città capitolina, il sonetto Er tempo cattivo, composto quando l’amico era ancora in vita, apparve invece nel 1864 e sei anni dopo fu incluso da Luigi Morandi nell’antologia belliana dei Duecento sonetti in dialetto romanesco, uscita presso Barbèra. Curioso ‘corpo estraneo’ all’interno di tale florilegio, il sonetto era accompagnato da una breve nota che definiva il suo autore come uno dei pochi che potessero fregiarsi del titolo di poeta romanesco. Oltre a essere stato fra coloro che per primi ordinarono i manoscritti di Belli alla morte di questi, Spada ne scrisse anche una dettagliata biografia, rimasta inedita sino al 1959.
Cultore di letteratura latina, svolse e pronunciò una dissertazione di 25 pagine su Che cosa si voglia intendere per Lido etrusco nella seconda ode di Orazio, a ciò spinto anche dal summenzionato interesse per le piene del Tevere, cui il poeta latino alludeva del resto in Carmina I 2, 13-16.
Dissentendo dalle interpretazioni pregresse, Spada sosteneva che litore etrusco si riferisse alla sponda destra del fiume (non alla sua foce marina) e retortis [...] undis alle acque traboccanti a causa dell’impedimento incontrato durante il corso (non, dunque, all’opposizione esercitata da venti e tempeste). L’interpretazione fu accolta con favore in una nota bibliografica su Civiltà cattolica (V (1866), p. 98) e sarebbe stata altresì ritenuta valida anche da alcuni commentatori successivi.
In una dissertazione del 1867, De’ due accenti ortografici acuto e grave e del conveniente loro uso, edita sempre per i tipi di Salviucci, Spada spostò l’attenzione su questioni linguistiche, contestando l’arbitrarietà nell’uso dei segni diacritici diffusa ai suoi tempi e insistendo sulla necessità di distinguere fra suoni gravi e acuti. L’anno successivo fu la volta di In quale attitudine debba porsi un leggitore assennato relativamente al libro che tiene innanzi, contenente alcuni esempi illustri relativi al modo di comportarsi durante la lettura. Nello stesso decennio si impose la figura di suo fratello maggiore Giuseppe, banchiere, mecenate e autore di saggi storici sulla rivoluzione romana.
Proseguendo nelle ricerche filologiche, due anni dopo Spada diede alle stampe, ancora presso Salviucci, la dissertazione Ardita ma giustificabile congettura che nel secondo canto del Purgatorio Dante abbia potuto scriverne il sesto verso “che le caggion di man quand’EI soverchia”, che pronunciò come di consueto durante un’adunanza presso l’Accademia Tiberina. L’aggiunta del pronome, segnalato nel titolo con il maiuscolo, intendeva riportare alla sua vera lezione il passo dantesco, negando l’interpretazione fornita qualche decennio prima da Baldassarre Lombardi e attribuendo al Sole l’atto di soverchiare la luce di ogni altro corpo celeste.
Fra le ultime sue opere è lo scritto, di carattere astronomico, Un inatteso e in apparenza strano quesito. Si domanda ai filosofi se analogamente a quel che essi dicono della luna direbbero che qualunque nostra montagna abbia diurno moto di rotazione intorno ad un suo proprio asse parallelo all’asse terrestre, pronunciato e pubblicato ancora da Salviucci nel 1870.
Vissuto sempre da celibe e senza lasciare alcun discendente diretto, morì a Roma l’8 dicembre 1873.
Fonti e Bibl.: G. Orioli, F. S. poeta romano. In appendice Notizie biografiche su G.G. Belli di F. S., Roma 1959; G.G. Belli, Lettere, a cura di G. Spagnoletti, I-II, Milano 1961; Id., Lettere Giornali Zibaldone, a cura di G. Orioli, Torino 1962, pp. 138-199, 374-377; G. Ianni, Belli e la sua epoca, I-III, Milano 1967, I, pp. 433-463.