SEGALA, Francesco
SEGALA, Francesco. – Nacque a Padova al più tardi nel 1533 da una certa Maddalena e dal causidico Angelo. Nel 1558, infatti, poteva rendere testimonianza (Pietrogrande, 1942-1954, p. 111, nota 1), cosa che era possibile fare una volta compiuto il venticinquesimo anno d’età.
Nel 1559 sposò Lucia, figlia del letterato leccese Teseo Mega. Il 20 gennaio 1564 il suocero fece da garante al contratto con i presidenti della Veneranda Arca di S. Antonio, ente preposto alla cura della basilica del Santo a Padova (Gonzati, 1852). Segala si offriva di eseguire una S. Caterina d’Alessandria di bronzo per un’acquasantiera. In cambio chiedeva una statuina, allora già lacunosa e oggi perduta, scolpita per un’altra pila di quella chiesa da Gian Giorgio Lascaris detto Pirgotele; chiedeva inoltre i perduti modelli della cancellata della cappella di S. Antonio, avviata da Tiziano Minio e Danese Cattaneo e mai condotta a termine. La S. Caterina fu consegnata il 18 giugno. Sostituita in basilica da una copia, la figura si conserva nel Museo antoniano e «mantiene nel bronzo la freschezza del modelletto in argilla» (Venturi, 1937, p. 180). Il viso pieno di contegno e la posa elegante la pongono perfettamente nell’alveo della scultura veneta di metà Cinquecento, tesa alla ricerca di forme aggraziate e ben rappresentata da un artista come Danese Cattaneo. A quest’ultimo rimanda un documento coevo.
Infatti il 18 luglio 1564, da Venezia, Cattaneo prometteva al mecenate Alvise Cornaro che «quando verrà il Segala, farò per lui quanto vi piace volentieri» (Miscellanea, 1743). Il 10 aprile 1565 venne commissionato a Segala un S. Giovanni Battista, sempre in bronzo, per il fonte battesimale della basilica marciana di Venezia. Nel contratto Cattaneo si dichiarò garante del più giovane collega (Cicognara, 1824). La posa leziosa del Battista si confronta col Cattaneo più salviatesco del monumento Fregoso in S. Anastasia a Verona. Su queste basi, in mancanza di dati certi sulla formazione di Segala, si può ipotizzare la frequentazione della bottega del carrarese. Il coperchio dello stesso fonte veneziano, nel 1545, era stato allogato a Minio, altro protetto di Cornaro.
Questo mecenate, nel terzo testamento del 1566, ricordava il «mio carissimo messer Francesco Segala» (Sambin, 1966, ed. 2002, pp. 152 s., 209); tanti anni dopo, nel 1592, nella casa dell’artista appena defunto fu trovata «l’effigie d’una testa con lettere Aloysius Cornelio» (Pietrogrande, 1961, p. 56). Segala dichiarava di avere lavorato per il «magnifico signor Luigi Cornaro, padre della Virtù et signor mio», pure nella lettera di presentazione consegnata alla Veneranda Arca il 22 giugno 1565 (Sartori, 1976). L’ente patavino aveva bandito la commissione di un tabernacolo in bronzo, col quale adeguare l’altar maggiore di Donatello alle esigenze liturgiche post-tridentine. Oltre a Segala gareggiarono Agostino Zoppo e l’orefice Gaspare Moneta, vincitore.
Nella lettera Segala citava quali sue credenziali il Battista veneziano e, in modo ellittico, la S. Caterina già consegnata, oltre a sculture eseguite per la basilica di S. Giustina. Si riferiva al ciclo di diciassette statue in terracotta attribuite a Segala già da Alessandro Scrinzi (1926) e poi documentate da Luisa Pietrogrande (1942-1954, pp. 133 s., doc. I) grazie alla contabilità del monastero cassinese (i pagamenti si scalano dal 25 luglio 1564 all’8 ottobre 1565). La commissione rientrava nel quadro del rinnovo dell’antico sacello di S. Prosdocimo, promosso dall’abate Angelo Faggi. Uno scellerato restauro di metà Novecento tamponò le nicchie e le statue furono ricoverate all’interno del cenobio. Solo le quattro figure che ornano il ‘pozzo dei martiri’ e le due in fondo al corridoio sono ancora al loro posto. Il ciclo è un’intelligente sintesi della tradizione rinascimentale patavina e della maniera di Sansovino, Ammannati e Cattaneo (Bacchi, 1999, p. 394, n. 88). Per la qualità esecutiva spicca l’accorato S. Paolo, al quale una folata di vento sbatte la veste; la Maddalena penitente rivisita il celebre prototipo di Tiziano.
A questo nucleo di opere certe, tutte della metà degli anni Sessanta, segue un vuoto di oltre un decennio. Di nuovo troviamo Segala in rapporto con Cattaneo a Venezia nel 1571, quando i due artisti stimarono la porta della sacrestia della basilica dei dogi, opera del defunto Sansovino (Cicogna, 1834). Alla morte di Cattaneo, invece, nell’autunno 1572, restava da eseguire il Miracolo del giovane di Lisbona, assegnato al carrarese. Si trattava dell’ultimo dei nove quadri marmorei che illustrano le pareti della cappella di S. Antonio nella basilica padovana del Santo. Segala fu eletto perito di parte dagli eredi di Cattaneo per stimare il poco lavoro già eseguito. Il 17 dicembre 1573, infine, decise di competere per la commissione (Archivio Sartori, 1983). Gli altri concorrenti erano Girolamo Campagna, allievo del carrarese, il padovano Antonio Gallina e il lombardo naturalizzato romano Giovanni Battista della Porta. Fu la presenza di quest’ultimo, forestiero, a indurre Segala a concorrere.
Segala fu sconfitto di nuovo, e l’opera assegnata a Campagna. Nella sua pepata lettera di presentazione l’artista accusava i presidenti della Veneranda Arca di confidare troppo nei maestri forestieri e rivendicava l’eccellenza della scuola locale, da cui erano «ussiti tanti scultori eccellentissimi». Di questa scuola Segala forniva anche una breve storia. Dimostrava così piena consapevolezza del proprio mestiere, ma cadeva in clamorose partigianerie (attribuiva a un padovano, Antonio Minelli, persino le statue dell’altar maggiore di Donatello). Ritornava poi sull’esito del concorso del 1565, vinto da Moneta. Quest’ultimo non aveva neppure condotto a termine la commissione del tabernacolo e aveva accusato Segala di avere gareggiato con disegni di mano di Paolo Veronese: per fugare i dubbi Segala disse di avere poi mostrato i fogli al pittore, ricevendone lodi. Lo scultore si fregiava quindi di avere eseguito molte opere per lo «studio dell’illustrissimo patriarca d’Aquileia, mio signore et benefattore». Questa carica ecclesiastica era allora appannaggio di Daniele Barbaro. Si tende però a identificare l’«illustrissimo» della lettera in Giovanni Grimani, patriarca dal 1545, dimissionario nel 1550 e poi nuovamente in carica dal 1583 al 1593 (Bacchi, 1999, p. 388). Lo «studio» sarebbe quindi la famosa raccolta antiquaria allestita nel palazzo Grimani di S. Maria Formosa a Venezia (M. De Paoli, Opera fatta diligentissimamente: restauri di sculture classiche a Venezia tra Quattro e Cinquecento, Roma 2004, p. 149). Ancora non possiamo associare alcuna opera di Segala alla committenza di Grimani, ma nel segno di questo ecclesiastico si pongono due commissioni di poco successive, che l'artista ottenne dopo avere rimediato la terza bocciatura in una nuova gara pubblica padovana.
Il 24 luglio 1579 gareggiò per il nuovo altare maggiore del Santo contro Girolamo Campagna, Cesare Franco e Alessandro Vittoria. Fu di nuovo Campagna, poi associatosi con Franco, a ottenere l’incarico. Al concorso si lega però un disegno di presentazione del Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi (inv. 3206), attribuibile a Segala anche per la presenza, sulla cornice dell’altare, di una statua quasi identica alla S. Giustina del ciclo cassinese. L’esito della gara, comunque, non compromise il rapporto tra Segala e Campagna. Anzi quest’ultimo fu testimone, con Palma il Giovane, allo strumento dotale di Regina Contarini, figlia di Pietro e di Marina Alberto, che Segala sposò in seconde nozze nel 1584 a Venezia (Siracusano, 2015, pp. 78 s., 86-89).
Il 6 ottobre 1579 Guglielmo Gonzaga chiamò Segala a «fornire la sala de’ Marchesi» nell’appartamento grande del palazzo ducale mantovano (Luzio, 1913). All’epoca dovevano essere già in opera i quattro teleri di Jacopo Tintoretto, oggi all’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera. Segala realizzò i busti dei quattro marchesi e delle rispettive mogli (quello di Isabella d’Este è novecentesco); otto putti, di cui solo quattro si conservano; e due figure allegoriche grandi più del vero, allusive alle virtù dei quattro signori, ai lati di ciascun telero. Le statue dialogavano iconograficamente coi dipinti di Tintoretto. La scelta dei soggetti è illustrata da una famosa lettera del funzionario di corte Teodoro Sangiorgio. Ci furono però cambiamenti in corso d’opera, e lo scioglimento di certe iconografie andrà rivisto: la presunta Felicità eterna, sulla parete di Giovanni Francesco Gonzaga, è invece una Sapienza. Rispetto alle opere degli anni Sessanta le statue sono caratterizzate da una gestualità più eloquente, possibile esito del dialogo con Campagna.
Guglielmo Gonzaga frequentò sia Padova sia Venezia e conosceva gli artisti veneti. Ma a patrocinare la chiamata mantovana potrebbe essere stato Giovanni Grimani. Daniela Sogliani (2002, p. 221, n. 309) ha pubblicato una lettera di Paolo Moro, uomo dei Gonzaga in laguna. Apprendiamo così che già nel 1575 l’ecclesiastico aveva promesso a Guglielmo uno stuccatore, identificabile in Segala. Non a caso la Pallade mantovana è ispirata alla probabile Demetra oggi al Museo archeologico nazionale di Venezia e allora nella raccolta Grimani. Segala, in ogni caso, era stato convocato anche per eseguire le «teste delli cardinali per la galleria», delle quali non si hanno notizie. Da respingere è invece l’attribuzione degli stucchi della sala de’ Marchesi.
Sodale di Grimani era l’udinese Tiberio Deciani, professore di diritto civile a Padova. Nel suo testamento del 1° settembre 1579 il giurista ricordava Segala, «qual ha fatto il mio ritratto di marmo et del qual è pagato». L’effigie andava posta sul monumento funerario, da farsi nella chiesa patavina di S. Maria del Carmine «secondo lo ordine et instrutio» già impartiti. Deciani morì il 7 febbraio 1582; il 17 settembre 1583 il figlio Nicolò si lamentava con i frati carmelitani per lo spostamento dell’edicola dal presbiterio alla navata: dalle sue parole si evince che l’opera era allora già in larga parte eseguita, ma non ancora ultimata (Pietrogrande, 1961, p. 29). L’iconografia delle due figure allegoriche sul monumento, fraintesa, va corretta in Equità e Virtù, sulla scorta di Cesare Ripa. Il busto è siglato «FSF».
Numerose altre effigi sono state attribuite a Segala, spesso in modo problematico. Il busto in terracotta di Tiberio Deciani, del Museo civico di Udine, fu pubblicato da Giuseppe Fiocco (1934) come preparatorio di quello sul monumento, ma pare piuttosto un d’après ottocentesco. Adolfo Venturi (1937, p. 182) gli accostò un’altra terracotta, raffigurante il giurista Matteo Forzadura, coerente con il ritratto del nobile polacco Erazm Krethkowski della basilica del Santo (Sartori, 1965) e con un gruppo di effigi di giuristi e filosofi ricondotto a Segala da Pietrogrande (1942-1954). Molte di queste opere, dopo essere transitate dal catalogo di Cattaneo (V. Fabbri Butera, A Proposal for Danese Cattaneo, in Antologia di belle arti, II (1978), 6, pp. 103-106), vengono ora associate ad Agostino Zoppo (C. Kryza-Gersch, in Wir sind Maske (catal., Vienna), a cura di S. Ferino-Padgen, Cinisello Balsamo 2009, pp. 86 s., n. I.20; A. Bacchi in Ospiti al museo. Maestri veneti dal XV al XVIII secolo tra conservazione pubblica e privata (catal.), a cura di D. Banzato - E. Gastaldi, Padova 2012, pp. 56-59, n. 14; L. Siracusano, Agostino Zoppo, Trento 2017). Il ritratto marmoreo di Giulia Speroni, nel duomo padovano, è invece opera più tarda di Girolamo Paliari. A Segala era stato commissionato un ritratto del padre, il filosofo Sperone Speroni: ma l’opera rimase incompiuta, e alla morte dell’artista, nel 1592, restavano «tre retratti de magnifico Speron Speroni in marmo non finiti», nonché «doi rettrati de creda, uno de magnifico Speron Speroni [...], con una maschera de cera et testa de magnifico Speron predetto». Una presunta maschera mortuaria di Speroni si trova nel Museo di scienze archeologiche e d’arte dell’Università di Padova (inv. 5905); uno dei ritratti avviati da Segala fu invece completato da Marcantonio de Surdis ed è quasi certamente quello sul monumento nel palazzo della Ragione. Firmato da Paliari è infine il busto sul monumento funerario di Speroni, nel duomo patavino. A Segala spetta la medaglia di questo filosofo, databile al 1588: almeno due esemplari, dei Musei civici di Brescia e della collezione Mario Scaglia, sono siglati «FS» (ma cfr. P. Attwood, Italian medals c. 1530-1600 in British public collections, I, London 2003, pp. 240 s., n. 453). Non distante dalla sua maniera è il pregevole busto di Girolamo Michiel al Santo, del 1558 circa (Venturi, 1937, pp. 186 s.). Recentemente gli è stato attribuito un busto femminile in terracotta bronzata del Musée Jacquemart-André a Fontaine-Chaalis (Siracusano, 2015, pp. 92 s.).
Perdute sono le due statue in stucco modellate nel 1591 per il coro del Santo (Guidaldi, 1932, pp. 286 s.). La parabola di Segala si chiude con l’Abbondanza e la Carità, in marmo, sulla Scala d’oro del palazzo ducale di Venezia. Le due sculture sono siglate, ma non datate; appaiono comunque coerenti con le opere tarde, e nel 1594 gli eredi dell’artista vantavano un credito presso la procuratoria di S. Marco (Pietrogrande, 1961, p. 42).
Fra i problemi aperti resta quello della produzione di bronzetti. Con buon fondamento furono attribuite a Segala le statuette di Ercole e Onfale già nel Kunstgewerbemuseum di Berlino (Lauts, 1936). Più di recente è passata sul mercato una coppia con Venere, variante dell’Onfale, e Marte (Siracusano, 2017, cui si rimanda per le altre repliche e varianti). Altro problema è quello della ritrattistica in cera colorata. Disponiamo di un unico rilievo firmato, raffigurante l’arciduca Ferdinando d’Asburgo, conte del Tirolo, che visitò Venezia nel 1579 (Vienna, Kunsthistorisches Museum, inv. KK 3850). Alla pur breve esperienza mantovana si legherebbero due busti pseudo-antichi di bronzo, l’uno in collezione Etro a Milano, l’altro in palazzo Madama a Torino, che derivano da un busto femminile del II secolo d.C. custodito nella sala delle Aquile di palazzo Te (Siracusano, 2015, pp. 89-93). L’attività di Segala come autore di teste e busti pseudo-antichi è documentata da una lettera di David Ott a Johann Jakob Fugger del 1567. L’agente di Alberto V di Baviera segnalava che il suo collega Jacopo Strada aveva appena acquistato nove teste risalenti a circa dieci prima, opera di Agostino Zoppo, del misterioso «Battista Lecco» e di Segala (Das Antiquarium der Münchner Residenz. Katalog der Skulpturen, a cura di E. Weski - W.-D. Grimm, München 1987, p. 462, n. 86).
Segala morì a Padova il 14 maggio 1592. Nel testamento del 3 maggio (Pietrogrande, 1961, pp. 47-55, doc. II) legava al suo esecutore «li quattro quadri di Donato delli Miracoli del glorioso padre Santo Antonio», probabili bozzetti dei rilievi dell’altar maggiore del Santo, in precedenza di proprietà di Agostino Zoppo. Il giorno successivo alla morte fu steso l’inventario dei beni (ibid., pp. 56-58, doc. III). Oltre alle sculture già citate furono registrati diversi bronzetti, un autoritratto, un ritratto di una figlia e uno in terracotta di Alberto Conti, ma anche «cinquantotto forme diverse di legno de’ Laberinti». A quest’ultime si associa il «Libro de laberinti de Francesco Segalla padoano scultore et architetore» (Biblioteca apostolica Vaticana, ms. Barb. Lat. 1395). L’artista disponeva di una biblioteca con 54 volumi, inclusi i Quattro libri di architettura di Andrea Palladio. Figlio di un causidico, apprezzato da committenti come Cornaro e Grimani, marito della figlia di un letterato prima e della figlia di un patrizio poi, Segala doveva essere discretamente colto ed era consapevole di appartenere a un’importante scuola di scultura. Se si eccettua il busto Deciani di S. Maria del Carmine, la sua produzione in pietra e marmo appare oggi deludente, mentre di qualità notevole sono le statue in terracotta e bronzo. Anche da questo punto di vista Segala fu un tipico esponente del Cinquecento scultoreo patavino.
Fonti e Bibl.: V. Polidoro, Le religiose memorie, Venetia 1590, c. 28r; Miscellanea di varie operette al reverendissimo padre il p.m. Calisto M. Palombella, VII, Venezia 1743, pp. 171 s.; L. Cicognara, Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova, V, Prato 18242, pp. 296 s., nota 1; E. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, IV, Venezia 1834, p. 31; B. Gonzati, La basilica di Sant’Antonio di Padova, I, Padova 1852, pp. CXXXI s., doc. CXXII; A. Luzio, La Galleria dei Gonzaga venduta all’Inghilterra nel 1627-28, Milano 1913, p. 35, nota 1; L. Planiscig, Venezianische Bildhauer der Renaissance, Wien 1921, pp. 550-556; A. Scrinzi, La scoperta di un tempietto bizantino del VI sec. a Padova, in L’arte, XIX (1926), pp. 75-84; L. Guidaldi, Ricerche sull’altare di Donatello, in Il Santo, IV (1931-1932), 4, pp. 239-289; G. Fiocco, F. S. ritrattista, in L’arte, n.s., V (1934), pp. 58-65; J. Lauts, Zwei Kaminböcke des F. S. im Berliner Schlossmuseum, in Berliner Museen, LVII (1936), 4, pp. 69-73; A. Venturi, Storia dell’arte italiana, X, La scultura del Cinquecento, parte III, Milano 1937, pp. 180-206; L. Pietrogrande, F. S. (I), in Bollettino del Museo civico di Padova, XXXI-XLIII (1942-1954), pp. 111-133; G. Mariacher, Problemi di scultura veneziana (II). Aggiunte ad Antonio Rizzo; l’Eva Vendramin, in Arte veneta, IV (1950), pp. 105-109; L. Pietrogrande, F. S. (II), in Bollettino del Museo civico di Padova, XLIV (1955), pp. 99-119; Eadem, F. S. (III), in Bollettino del Museo civico di Padova, L (1961), pp. 29-58; A. Sartori, Altro busto del Segala al Santo, in Il Santo, s. 2, V (1965), 2, pp. 175-180; P. Sambin, I testamenti di Alvise Cornaro, in Italia medioevale e umanistica, IX (1966), pp. 295-385, poi in Id., Per le biografie di Angelo Beolco, il Ruzante, e di Alvise Cornaro. Restauri di archivio, rivisti e aggiornati da F. Piovan, Padova 2002, pp. 121-214; A. Sartori, Documenti per la storia dell’arte a Padova, Vicenza 1976, pp. 215-219; C. Semenzato, F.S., in Dopo Mantegna. Arte a Padova e nel territorio nei secoli XV e XVI (catal., Padova), a cura di C. Bellinati et al., Venezia 1976, p. 144; Archivio Sartori. Documenti di storia e arte francescana, I, Basilica e convento del Santo, a cura di G. Luisetto, Padova 1983, pp. 245-247, 352-354; B. Boucher, F.S. in The Genius of Venice. 1500-1600 (catal.), a cura di J. Martineau - C. Hope, London 1983, p. 385; A. Bacchi, F.S., in «La bellissima maniera». Alessandro Vittoria e la scultura veneta del Cinquecento (catal.), a cura di A. Bacchi - L. Camerlengo - M. Leithe-Jasper, Trento 1999, pp. 387-391; A. Bacchi, F.S., in La scultura a Venezia da Sansovino a Canova, a cura di A. Bacchi, Milano 2000, pp. 784-787; D. Banzato, F.S., in Donatello e il suo tempo. Il bronzetto a Padova nel Quattrocento e nel Cinquecento (catal., Padova), a cura di A. Augusti - M. De Vincenti, Ginevra 2001, pp. 317-323; D. Sogliani, Le collezioni Gonzaga. Il carteggio tra Venezia e Mantova (1563-1587), Cinisello Balsamo 2002, pp. 53-55, 221, n. 309; L. Siracusano, Per F. S. «padovano scultore et architetore», in Arte veneta, 72 (2015 [2016]), pp. 77-105; Id., F.S., Mars and Venus, in A Taste for Sculpture, IV, a cura di A. Bacchi, London 2017, pp. 6-21, nn. 1-2.