SALFI, Francesco
SALFI, Francesco (Francesco Saverio, Franco). – Nacque il 1° gennaio 1759 a Cosenza da Giuseppe Antonio e da Angela Turano.
Ebbe umili natali e fu cresciuto da una «vedova» che, «da bambino, quasi appena slattato, [...] lo richiese ai suoi genitori. Questi furono docili a concederglielo e, da quel momento, qual suo figlio lo trattò in casa propria» (Nardi, 1925, p. 302). La donna «lo avviò per lo stato chiesastico», e studiò con maestri di «scuola gesuitica» (ibid.) verso i quali maturò presto avversione. Mentre fu iniziato alla cultura europea dal canonico Francesco Saverio Gagliardi – cattolico illuminato aperto alla nuova scienza – e, soprattutto, dal docente di filosofia e matematica Pietro Clausi, allievo di Antonio Genovesi. Grazie a lui e ad alcuni suoi discepoli s’infervorò per l’Illuminismo.
Avviatosi all’insegnamento aprendo una «scuola pei ragazzi», prese gli ordini; ben presto, però, fu in urto con gli ambienti ecclesiastici: accusato d’essere «libertino» e «infrangesato» (ibid.). Nel frattempo, la Calabria fu sconvolta dai terremoti che la devastarono nel 1783-84, e ciò gli fornì il destro per vestire i panni del philosophe, dell’intellettuale impegnato. Si dedicò, così, allo studio sul campo degli effetti culturali di quella catastrofe. A Cosenza, tuttavia, si sparse la voce che ne stesse scrivendo «alla volterriana» (ibid., p. 304): divenuta l’aria irrespirabile, nel 1785 si trasferì a Napoli.
Qui frequentò quel mondo di salotti e logge massoniche in cui risplendeva l’astro di Gaetano Filangieri, dal quale trasse stimolo ad ampliare (e radicalizzare) gli orizzonti, come emerge dal Saggio di fenomeni antropologici relativi al tremuoto che pubblicò a Napoli nel 1787.
Salfi vi tuonava contro le imposture della religione, che alimentavano superstizioni e paure per irretire e dominare le popolazioni. Il terremoto era un evento naturale e non il castigo di Dio. Pertanto, in luogo di processioni e «feroci penitenze» (p. 103), egli proponeva d’adottare un sismometro e seguire criteri antisismici nelle costruzioni. Il pungolo riformatore era mosso da idee più radicali, ed eccolo condannare lo schiavismo, rivendicare libertà politica e «libertà di coscienza la più illimitata» (p. 197). Provvedimenti che, per esempio, avrebbero permesso a musulmani ed ebrei di vivere liberi nelle spopolate Calabrie. Descrivendo la condizione contadina, poi, attaccava l’assetto della proprietà, «ridotta al dominio di pochi o tiranni od inutili» (p. 194): «Sono per ogni dove le campagne deserte, infranti gl’aratri, ruinosi i tuguri, avvilite le arti», «migliaia di sudditi e di provincie [... ] muoion di stento» (pp. 184 s.). Una situazione tragica, di fronte alla quale non risparmiava gli stessi reali, scrivendo con malcelata ironia: «Ma no, principi fortunati, noi vostri sudditi fedelissimi, ancorché vittime della fame, morirem [... ] appie’ de’ vostri troni» (p. 185).
In un primo momento, a ogni modo, credette nella volontà riformatrice della monarchia, tanto più dopo lo scontro divampato dal 1788 tra i Borbone e il Vaticano, animato da una campagna in cui i sostenitori della sovranità laica dello Stato beneficiarono d’ampia libertà di stampa. Salfi fu in prima linea pubblicando due pamphlet contro la Chiesa, che gli fruttarono fama e un’abbazia, concessagli dai Borbone nel gennaio 1792. Nel frattempo, però, era scoppiata la Rivoluzione francese, e alle riforme subentrò la più cieca reazione.
Del resto, se nel 1789 Salfi s’era unito al coro di elogi a Ferdinando IV per la legislazione egualitaria di San Leucio, aveva scritto del pari: «Tutti van conoscendo i propri diritti» (Elogio di Gaetano Gervino. Con un brieve saggio del metodo normale, s.l. [Napoli] 1789, p. 40). E in una successiva Memoria su lo Spedale di Cosenza (s.n.t. [Napoli 1790 ca.]), pur dicendo di sperare ancora in «un governo [...] illuminato» (p. 21), aveva chiesto al re: «Sollevate i popoli coll’eguaglianza, colla libertà» (p. 19). Parole d’ordine divenute la divisa della Rivoluzione, e Salfi non esitava a richiamare, entusiasta, un provvedimento del «governo della Francia [...] per l’anno 1790» (pp. 42 s.).
Il mutamento di quegli anni traspariva dalle sue opere teatrali. Un teatro politico, in cui alle polemiche contro il fanatismo religioso e la Chiesa seguirono soggetti su congiure e tirannicidi. La svolta fu dovuta alla posizione rivoluzionaria da lui maturata, poiché «sin dagl’inizi del 1792» (Nicolini, 1939b, p. 7) animò, con il vecchio amico Domenico Bisceglia, un «circolo di carattere politico» (p. 7), in cui si esaltava la Rivoluzione, si leggevano Vittorio Alfieri, Condorcet e il libro di Raynal-Diderot «sulla rivoluzione americana» (p. 9), s’inneggiava alla repubblica e al tirannicidio. La svolta ci fu quando il circolo si unì all’Accademia di chimica di Carlo Lauberg e Annibale Giordano, altro centro filorivoluzionario: i due nuclei si fusero nell’estate in una loggia clandestina, fondata dall’abate Antonio Jerocades. In essa, «argomento essenziale divennero le modalità con le quali si sarebbe potuta fare, anche nel Regno, la rivoluzione», e Salfi sosteneva «che la nazione non avea bisogno di dare ad altri la gloria della rivoluzione [...], essendo nelle circostanze di poterla tentare da sé» (ibid., p. 6). La loggia divenne un club giacobino, al pari della «conversazione dell’abate Salfi» (Nicolini, 1939a, p. 121). E in autunno l’organizzazione assunse il nome di Società degli amici della libertà e dell’uguaglianza: come, in Francia, i Jacobins. Iniziò allora un alacre lavorio di proselitismo e propaganda – in cui fu attivissimo –, rivolto a promuovere la rivoluzione in tutti i ceti: dal popolo all’aristocrazia. Di tale attivismo, però, giunse l’eco alle autorità: nel marzo 1793 Jerocades e l’abate Giuseppe Cestari andarono al confino. Salfi, pertanto, tornò in Calabria: per prudenza, ma anche per «migliorar la causa, con il diffondimento delle massime [rivoluzionarie] e far numero di patrioti» (ibid., p. 122).
La partenza lo salvò dalle inchieste che, l’anno dopo, travolsero la fitta rete giacobina. Dall’estate del 1793 la cospirazione aveva preso pieghe ‘terroristiche’: i club si erano riorganizzati, sotto la guida di Lauberg, con il piano d’occupare i castelli, uccidere la famiglia reale con alcuni ministri e istituire una «democrazia e repubblica perfettamente popolare», abiurando «ogni religione» (Pedio, 1976, pp. 299 s.). I primi arresti, tra la fine del 1793 e l’inizio del 1794, spinsero Lauberg alla fuga e al congelamento dell’iniziativa. Ma su impulso dell’artigiano Andrea Vitaliani, una frazione decise di procedere e in marzo la trama fu scoperta; benché le prime indagini solo lambissero la leadership della Società, coperta da un fitto segreto. Alcuni, comunque, fuggirono, mentre di altri (come Salfi) non uscì neanche il nome. Nondimeno, rientrato a Napoli, dovette presto lasciarla: dal febbraio 1795 nuove inchieste chiarirono aspetti chiave della cospirazione, e la sua posizione apicale all’interno di essa.
Con una fuga rocambolesca giunse a Genova, dove tra il 1795 e il 1796 l’agente diplomatico François Cacault lo impiegò al Consolato di Francia. Ripresi i contatti con i compagni sfuggiti agli arresti, andando anche a Parigi, nei primi mesi del 1796 contribuì a un’iniziativa animata da rifugiati meridionali e piemontesi, di concerto con il toscano Filippo Buonarroti, tesa a convincere i francesi ad appoggiare una rivoluzione in Piemonte, per poi estenderla a tutta la penisola. Le decisioni di Napoleone Bonaparte, capo dell’Armata d’Italia – che preferì liberare la Lombardia –, e la sventata congiura di Babeuf – con l’arresto di Buonarroti – scompaginarono i piani. Eppure, fu allora che l’unità d’Italia divenne un programma politico, e da quel «primo nascere» Salfi consacrò «e lingua e braccio e mente» (Virginia bresciana. Tragedia, Brescia 1797, p. VIII) a rendere l’«Italia intiera una sola repubblica» (Osservazioni del cittadino Salfi al cittadino Cacault, 1796, cit. in Villani, 2003, p. 111).
Presto raggiunse Milano, ove confluirono molti rifugiati, meridionali – tra cui Lauberg, Vitaliani, Giuseppe Abamonti e Matteo Galdi – ma non solo. Il nuovo contesto politico garantiva, per la prima volta in Italia, libertà di stampa e d’associazione, pur sotto il controllo dei francesi. Così, a Milano sorsero il giornalismo e l’associazionismo politici moderni. In giugno uscì il Termometro politico della Lombardia, una delle prime e più autorevoli testate del triennio rivoluzionario, diretto dal milanese Carlo Salvador e di cui Salfi fu «l’altro fondatore e animatore principale» (V. Criscuolo, Introduzione, in Termometro..., 1989-1996, I, 1989, p. 22). In settembre, poi, riaprì una società politica con il nome dissimulato di Accademia di letteratura e d’istruzione pubblica, dopo la chiusura imposta dai francesi di una prima Società degli amici della libertà e dell’uguaglianza. Controllata dai radicali, i «capi» (Nutini, 1984, p. 267) della società erano Salvador, Salfi, il toscano Giovanni Fantoni e il romano Enrico Michele L’Aurora. Tra i discorsi del cosentino, furono molto acclamati i suoi Ricordi a’ patriotti italiani, di cui si «prescrisse la pubblicazione» (Termometro..., 1989-1996, I, 1989, p. 370). Salfi invocava unità, indipendenza, libertà e uguaglianza, incitando gli italiani a fare da sé. Esortava, pertanto, a «cospirare» per distruggere le «infami reggie» e «le orrorose Bastiglie di morte e di schiavitù» (con il titolo Ricordi ai patriotti lombardi, in Raccolta Veladini, II, Milano 1796, p. 26).
L’attivismo dei radicali portò a uno scontro con i francesi. In novembre si sparse la voce di un attacco austriaco: dei «rappresentanti dei patrioti italiani» (Peroni, 1931, p. 83), tra cui Salvador, Salfi, L’Aurora, Fantoni, Galdi e Abamonti, chiesero alle autorità di armarsi, e la società restò aperta in assemblea permanente. In quel frangente, si presentarono alla società degli operai lamentando l’aumento del prezzo del pane, e i patrioti ne ottennero il ribasso. Nell’entusiasmo del momento, il 14 novembre, «una massa imponente» in corteo giunse in piazza Duomo, e furono proclamate la «sovranità del popolo» e l’indipendenza (Termometro..., 1989-1996, II, 1990, p. 32). I francesi reagirono chiudendo la società e arrestando Salvador, L’Aurora e Fantoni.
Di fronte a ciò, i radicali – i meridionali in particolare – rilanciarono. Da gennaio uscì il Giornale de’ patrioti d’Italia, alla cui direzione si succedettero Abamonti, Salfi e Galdi. Il Giornale affiancava il Termometro, con cui continuava una stretta collaborazione, ed era rivolto alla «classe meno istrutta», per fornire un «corso rapido d’educazione popolare» (Giornale..., 1988-1990, III, 1990, p. 389) d’ideologia rivoluzionaria. Gli estensori inneggiavano ai primi segni «del risorgimento del valore italiano» (p. 389) e contestavano la chiusura della società, rivendicando piene libertà di stampa e d’associazione. Contestualmente, apparve anonimo il Saggio sulle leggi fondamentali dell’Italia libera: di Abamonti, ma presentato dal Giornale (I, 1988, pp. 257 s.) come piattaforma del gruppo meridionale. Era una proposta di costituzione italiana, sul modello di quella francese del 1795, ma segnata da punti salienti della Costituzione del 1793: suffragio universale maschile, democrazia rappresentativa con forti innesti di democrazia diretta, libertà di stampa e di religione, istruzione pubblica, diritto al lavoro e alla sussistenza. Originali erano, poi, altri istituti, tra cui due contropoteri responsabili del controllo sulle leggi e sugli abusi delle autorità. Ancora ai primi del 1797, Salfi scrisse il libretto per un melodramma rappresentato alla Scala: la Congiura pisoniana, segno della ripresa della cospirazione. Infatti, in marzo il Giornale dava un chiaro avvertimento: «Consigliamo [...] a coloro che non fossero contenti della nostra ostinazione, a soffrirlo in pace [l’indirizzo del Giornale], giacché siamo determinati a non cambiarlo sino a che potremo liberamente servirci della stampa [...] Se le circostanze cambiassero [...] allora cangeremo anche noi: invece di far la guerra apertamente [...] cospireremo in segreto» (ibid., p. 242). Salda era la prospettiva unitaria, ribadita dall’appello di Salfi «Ai patrioti italiani» (ibid., pp. 263-265).
Il rapporto dei radicali con i francesi diveniva, insomma, duplice: di sostegno ove le loro vittorie coincidessero con le mire unitarie; ma d’opposizione nell’azione cospirativa per la rivoluzione di tutta l’Italia. Proclamata in marzo la repubblica a Brescia, Salfi (con Abamonti e altri) vi si trasferì e fu «propagandista infaticabile» (Da Como, 1926, p. 21). Segretario del Comitato di legislazione del governo, animò la società politica e promosse la riforma del teatro, dopo che in tal senso s’era già molto speso a Milano.
Il trattato di Campoformio dell’ottobre 1797, che sacrificò il Veneto alla nascita della Repubblica Cisalpina, acuì le tensioni: i radicali s’allearono con i neogiacobini – oppositori del governo in Francia – intensificando le trame cospirative. Rientrato a fine anno a Milano, Salfi divenne caposezione al ministero della Pubblica Istruzione, ma al contempo fu tra gli animatori di quel dissenso al Direttorio che si coalizzò, nel 1798, nella società segreta dei Raggi. Il conflitto esplose in una serie di colpi di Stato che sconvolsero la Cisalpina, il cui destino era ormai segnato. In dicembre chiusero il Termometro e la società, più volte riaperta dai patrioti con il nome di Circolo costituzionale.
Nel frattempo, però, da fine 1798 truppe francesi s’erano spinte su Napoli sostenendo, nel gennaio 1799, la proclamazione della Repubblica Napoletana. Gli esuli meridionali, allora, tornarono in patria: il «celebre emigrato» Salfi (Monitore..., 2006, p. 63) vi giunse a fine febbraio. Il 26 entrò nel governo provvisorio come segretario generale. Ma si dimise a fine aprile, divenendo presidente della Sala patriottica, che riuniva tutte le società politiche napoletane con la prevalenza delle istanze radicali. Di fronte all’avanzata dell’armata del cardinale Fabrizio Ruffo, fu tra gli addetti alla difesa; ma caduta in giugno la Repubblica, fu tratto in arresto.
Scampò alla morte dichiarando false generalità. Esiliato a Marsiglia, ove sbarcò a fine agosto, si spostò a Lione e poi a Ginevra. Nel giugno 1800, avvenuto intanto il colpo di Stato bonapartista, rientrò a Milano al seguito delle armate napoleoniche. Negli anni del regime parve svestire i panni dell’«energumeno repubblicano» e «vecchio campione della moltitudine» (Salfi tra Napoli e Parigi, 1997, pp. 412 s.), allineandosi alla svolta autoritaria e insegnando dapprima nel liceo di Brera e in seguito nelle scuole di specializzazione postuniversitaria. Dal 1805, inoltre, divenne venerabile della loggia Reale Gioseffina, con la massoneria in mano ai napoleonici.
In realtà, con altri esuli animò le società segrete di quegli anni, salde nel perseguire l’unità e l’indipendenza d’Italia: dai nuovi Raggi (o Astronomia platonica), all’Adelfia, ai Centri, alla carboneria. Ovviamente, l’involuzione del quadro politico (dalla Repubblica all’Impero) aveva imposto ripensamenti nella strategia. Alla lotta per la repubblica unitaria, era subentrata quella per la «repubblica federativa» (ibid., p. 74); infine le società segrete s’erano disposte ad accettare, temporaneamente, una monarchia costituzionale pur di raggiungere l’unificazione.
A causa di tale lavorio cospirativo Salfi fu arrestato, in via preventiva, alla vigilia dell’incoronazione milanese di Napoleone a re d’Italia nel maggio 1805. E nella stessa massoneria subì un processo, con Giandomenico Romagnosi, per la ristampa nel 1809 della Lira focense di Jerocades, giudicata pericolosa «per sentir troppo di [...] furore democratico» (Soriga, 1918, p. 735). In effetti, in quegli anni egli fu con Romagnosi «alla testa di una società politica segreta, che ammaestrava i giovani [...] a preparare gli animi popolari, per scrollarsi di dosso il giogo dei despoti e rendere l’Italia una nazione unita e indipendente»: una segretissima «massoneria nella massoneria» (L’autobiografia di Gioacchino Prati, 1965-1966, pp. 205 s.).
Egli contribuì, quindi, a dirigere le cospirazioni che, tra il 1813 e il 1815, operarono per l’unità e l’indipendenza. Dapprima a Milano e poi a Napoli, dove tornò nell’estate del 1814: ufficialmente per insegnarvi storia all’Università ma, in realtà, per dar manforte alla carboneria. Fallito ogni tentativo, nel marzo 1815 accolse l’appello di Gioacchino Murat, coadiuvandolo nel disperato (e vano) tentativo indipendentista lanciato con il proclama di Rimini. Di fronte alla Restaurazione, riprese la via dell’esilio.
In giugno era a Parigi, ove ritrovò Lauberg e s’inserì negli ambienti intellettuali più avanzati, frequentando gli idéologues e il salotto di Sophie Marie Louise de Grouchy, vedova di Condorcet. Dal 1819 fu il responsabile per l’Italia dell’influente Revue encyclopédique, dell’ex giacobino Marc-Antoine Jullien. In questa veste, fu il principale agente della circolazione della cultura italiana nella Francia della Restaurazione (con – ad esempio – le recensioni a Giacomo Leopardi e ad Alessandro Manzoni). E parve trascorrere l’esilio ritirato nel lavoro letterario, il cui maggior frutto fu la continuazione dell’Histoire littéraire d’Italie (X-XIV, Paris 1823-1835) di Pierre-Louis Ginguené.
In realtà, anche a Parigi restò sulla breccia negli ambienti della cospirazione, tenuto d’occhio dalla polizia sin dal 1816, poiché «ardente repubblicano» e vista la sua «influenza rivoluzionaria [...] in Italia, al pari del famoso [Luigi] Angeloni» (Carbone, 1962, p. 2). E in effetti, per quanto dissimulato, il suo profilo emerse anche nelle rivoluzioni del 1820-21. Con L’Italie au dix-neuvième siècle, ou de la nécessité d’accorder, en Italie, le pouvoir avec la liberté (Paris 1821) cercò di scongiurare l’intervento militare dell’Austria contro la rivoluzione carbonara di Napoli, proponendo una via pacifica attraverso una confederazione fra gli Stati italiani, e la trasformazione di essi in monarchie costituzionali, fondate sulla sovranità popolare, la rappresentanza e la tutela delle libertà civili e di stampa. Inoltre, suoi allievi come Gioacchino Prati e Federico Confalonieri furono tra i protagonisti di quella stagione.
Resta, invece, da dimostrare (seppure sia molto probabile) la sua appartenenza al Gran Firmamento di Parigi, centrale internazionale occulta che tentava di coordinare le iniziative delle società segrete.
Il momento rivoluzionario sfiorì; ma non la sua perseveranza nel sogno dell’Italia unita. Quando la Rivoluzione francese del luglio 1830 rianimò i patrioti, il vecchio Salfi cooperò all’iniziativa di Ciro Menotti. All’inizio del 1831, vari comitati di italiani a Parigi si riunirono in una Giunta liberatrice italiana, presieduta da Salfi e diretta da un triumvirato con lui stesso, Buonarroti e il faentino Pietro Mirri. La Giunta avrebbe dovuto dirigere le insurrezioni in Italia, e in un Proclama al popolo italiano dalle Alpi all’Etna – che lo vedeva primo firmatario, seguito da Buonarroti – risuonavano i toni cari al Salfi giacobino «d’inconcussa fede repubblicana» (G. La Cecilia, Memorie storico-politiche dal 1820 al 1876, Roma 1876, p. 119): «Muoia l’Austriaco, periscano i re, s’infrangano le corone, e non siavi in Italia che leggi di fratellanza e di libertà», «Qui regni l’uguaglianza e l’amore», «Che non siavi più un uomo [...] che, lavorando moderatamente, non viva libero e agiato» (Ferrari, 2009, p. 161).
Era il canto del cigno della prima generazione del Risorgimento, mentre saliva alla ribalta Giuseppe Mazzini, che fondava la Giovine Italia proprio sul superamento di quella stagione. Infatti, nell’estate del 1831 egli pose il veto all’ingresso di Salfi nei comitati direttivi dell’associazione (Epistolario di Giuseppe Mazzini, I, Firenze 1902, p. XLVI).
Morì a Parigi il 2 settembre 1832.
Pochi giorni dopo la sua scomparsa, lo stesso patriota genovese precisò che con il dare un’impronta generazionale alla Giovine Italia, non aveva inteso bandire «dal novero de’ buoni i pochissimi canuti che pur son tali: amo Buonarroti, ed egli m’è amico. Amava Salfi, e gli scrissi; ma la lettera giunse a Parigi dopo la infausta sua morte» (ibid., p. 17). Parole con cui Mazzini riconosceva il debito dovuto a quei due patriarchi della libertà italiana.
Opere. Oltre ai testi citati si segnalano: Elogio accademico di Francesco Saverio Gagliardi, in F.S. Gagliardi, Dialoghi scientifici e morali ordinati ad istruire nel costume, ed in varj punti di letteratura diversi ordini di persone, Napoli 1785, pp. 11-44; Saggio di fenomeni antropologici relativi al tremuoto, Napoli 1787; Allocuzione del cardinale N. N. al papa, Benevento s.d. [ma Napoli 1788]; Riflessioni sulla Corte romana, s.n.t. [Napoli 1789 ca.]; Corradino. Tragedia, Londra [ma Napoli] 1790; Idomeneo. Scena lirica, Napoli 1792; Saulle. Dramma per musica, Napoli 1794; Morte di Ugo Bassville, Milano 1796; La congiura Pisoniana. Dramma per musica, Milano s.d. [1797]; Il general Colli in Roma. Pantomimo, Milano 1797; Pausania. Tragedia, Milano 1800; Clitennestra. Melodramma, Milano 1801; Elogio di Antonio Serra primo scrittore di economia civile, Milano 1802; Dello uso dell’istoria massime nelle cose politiche, Milano 1807; Iramo. Poemetto, Milano 1807; Della utilità della Franca Massoneria, Milano 1811; Della influenza della storia, Napoli 1815; Su la storia dei Greci, Paris 1817; Elogio di Gaetano Filangieri (1822), Napoli 1866; Saggio storico critico della commedia italiana, Paris 1829; Ristretto della storia della letteratura italiana, I-II, Lugano 1831; Genio degl’Italiani e stato attuale della loro letteratura, Cosenza 1836; Della Declamazione, a cura di A. Salfi, Napoli 1878; Teatro giacobino, a cura di R. Serpa, Palermo 1975; L’Espero, a cura di R. Giglio, Napoli 1978; Il Corradino (1831), a cura di N. Galizia, in Otto/Novecento, VI (1982), 3-4, pp. 147-192; Lezioni sulla filosofia della Storia, a cura di F. Crispini, Napoli 1990; Medea. Scena lirica, in Salfi librettista, a cura di F.P. Russo, Vibo Valentia 2001, pp. 126-131; Lo spettro di Temessa. Tragedia, in L. Castori, I troni in polvere. Salfi tra Alfieri e Monti, Salerno 2009, pp. 213-297; Dell’imperio dell’opinione sulla forza, in V. Ferrari, Civilisation, laicité, liberté. Francesco Saverio Salfi fra Illuminismo e Risorgimento, Milano 2009, pp. 180-186; Le tre giornate di Parigi, ibid., pp. 187-212; Lezioni di Diritto pubblico o delle genti V-XI, a cura di V. Zaffino, Cosenza 2010; Giovanna I, in V. Criscuolo, La penna armata. Contro la «vil superstizione» e la «feroce tirannide». Studi sul teatro di Francesco Saverio Salfi, Avellino 2016, pp. 157-242; Andromeda, ibid., pp. 295-322; Calliroe e Coreso. Dramma per musica, ibid., pp. 331-383.
Fonti e Bibl.: Napoli, Biblioteca nazionale, Carte Salfi; Cosenza, Archivio storico diocesano, Cattedrale. Battesimi 1750-1768, c. 115v; per i carteggi pubblicati si rimanda a C. Nardi, La vita e le opere di Francesco Saverio Salfi, Genova 1925, pp. 321-362; N. Galizia, Francesco Saverio Salfi e la cultura europea, Cosenza 1990; Salfi tra Napoli e Parigi. Carteggio 1792-1832, a cura di R. Froio, Napoli 1997. Inoltre: P. Maroncelli, Addizioni alle Mie prigioni di Silvio Pellico, Italia 1833, p. 184; M.A. Renzi, Vie politique et littéraire de F. S., Paris 1834; A. Franchetti, Le relazioni diplomatiche fra la corte di Napoli e la Francia dal 1791 al 1793, in Rivista storica del Risorgimento italiano, I (1895), 1, pp. 601-637; R. Soriga, La ristampa milanese della ‘Lira focense’ di Antonio Jerocades, in Rassegna storica del Risorgimento, V (1918), 4, pp. 727-738; U. Da Como, La Repubblica bresciana, Bologna 1926, passim; B. Peroni, La passione dell’indipendenza nella Lombardia occupata dai Francesi, in Nuova rivista storica, XV (1931), 1-2, pp. 60-104; D. Spadoni, Milano e la congiura militare nel 1814 per l’indipendenza italiana, I-III, Modena 1936-1937, ad ind.; N. Nicolini, La spedizione punitiva del Latouche-Tréville, Firenze 1939a, ad ind.; Id., Le origini del giacobinismo napoletano, in Rivista storica italiana, s. 5, IV (1939b), 1, pp. 3-41; R. Soriga, Le società segrete, l’emigrazione politica e i primi moti per l’indipendenza, Modena 1942, ad ind.; A. Saitta, Filippo Buonarroti, I-II, Roma 1950-1951, ad ind.; G. Vaccarino, I patrioti «anarchistes» e l’idea dell’unità italiana, Torino 1955, ad ind.; S. Carbone, I rifugiati italiani in Francia, Roma 1962, ad ind.; L’autobiografia di Gioacchino Prati, a cura di A. Saitta, in Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, XVII-XVIII (1965-1966), pp. 205 s.; T. Pedio, Massoni e giacobini nel Regno di Napoli. Emmanuele de Deo e la congiura del 1794, Matera 1976, ad ind.; A. Galante Garrone, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento, Torino 1972, ad ind.; F.S. S. un calabrese per l’Europa, a cura di P.A. De Lisio, Napoli 1981; S. Nutini, Un «reportage» di Filippo Pananti sulla Cispadana e la Cisalpina, in Il Risorgimento, XXXVI (1984), 3, pp. 267 s.; A. Placanica, Il filosofo e la catastrofe. Un terremoto del Settecento, Torino 1985, pp. 158 s. e passim; A. Saitta, Ricerche storiografiche su Buonarroti e Babeuf, Roma 1986, ad ind.; Giornale de’ Patrioti d’Italia, I-III, a cura di P. Zanoli, Roma 1988-1990, ad ind.; V. Ferrone, I profeti dell’Illuminismo, Roma-Bari 1989, ad ind.; Termometro politico della Lombardia, I-IV, a cura di V. Criscuolo, Roma 1989-1996, passim; A.M. Rao, Esuli. L’emigrazione politica in Francia (1792-1802), Napoli 1992, ad ind.; C. Zaghi, Il Direttorio francese e la Repubblica cisalpina, I-II, Roma 1992, ad ind.; A. De Francesco, Rivoluzione e costituzioni. Saggi sul democratismo politico nell’Italia napoleonica, Napoli 1996, ad ind.; S. Martelli, La floridezza di un reame. Circolazione e persistenza della cultura illuministica meridionale, Salerno 1996, ad ind.; A. De Francesco, Vincenzo Cuoco. Una vita politica, Roma-Bari 1997, ad ind.; A.M. Rao, Conspiration et constitution: Andrea Vitaliani et la République napolitaine de 1799, in Annales historiques de la Révolution française, 1998, vol. 313, pp. 545-573; M. Battaglini - A. Placanica, Leggi, atti, proclami ed altri documenti della Repubblica Napoletana, I-IV, Cava de’ Tirreni 2000-2001, ad indices; B. Alfonzetti, Congiure. Dal poeta della botte all’eloquente giacobino, Roma 2001, ad ind.; Napoli 1799. Fra storia e storiografia, a cura di A.M. Rao, Napoli 2002, ad ind.; P. Villani, «Osservazioni del cittadino S. al cittadino Cacault» sull’armistizio di Cherasco, in Studi in memoria di Giuseppe Nuzzo, a cura di E. Di Rienzo - A. Musi, Napoli 2003, pp. 103-113; L. Addante, Repubblica e controrivoluzione. Il 1799 nella Calabria cosentina, Napoli 2005, ad ind.; V. Criscuolo, Albori di democrazia nell’Italia in rivoluzione (1792-1802), Milano 2006, ad ind.; Monitore napoletano (2 febbraio - 8 giugno 1799). L’antico nella cultura politica rivoluzionaria, a cura di A. Lerra, Manduria-Roma-Bari 2006, ad ind.; C. Passetti, Verso la Rivoluzione. Scienza e politica nel Regno di Napoli, Napoli 2007, ad ind.; V. Ferrari, Civilisation, laicité, liberté..., cit.; L. Addante, Patriottismo e libertà. L’Elogio di Antonio Serra di F. S., Cosenza 2009; M. Isabella, Risorgimento in esilio. L’internazionale liberale e l’età delle rivoluzioni, Roma-Bari 2011, ad ind.; L. Addante, Note sui primi movimenti carbonari, in Ordine e disordine. Amministrazione e mondo militare nel Decennio francese, a cura di R. De Lorenzo, Napoli 2012, pp. 565-592; B. Alfonzetti, Teatro e tremuoto. Gli anni napoletani di F.S. S., Milano 2013; U. Carpi, Patrioti e napoleonici. Alle origini dell’identità nazionale, Pisa 2013, ad indicem.