PUCCERELLI, Francesco
PUCCERELLI, Francesco. – Nacque a S. Giovanni Valdarno da Angelo. L’assenza dei registri battesimali nell’archivio parrocchiale di S. Giovanni e in quello vescovile di Fiesole per i primi decenni del Cinquecento rende difficile accertare la sua data di nascita, per la quale non è nemmeno possibile fare ricorso agli statuti dell’arte dei giudici e notai di Firenze, dato che non è giunta la redazione del 1415, che doveva essere vigente all’epoca della sua nascita. Se tale redazione, come quella del 1344, avesse previsto un’età minima di vent’anni per l’attività di notaio, si potrebbe supporre, dato che i primi rogiti di Puccerelli datano al 1532, che egli fosse nato negli anni immediatamente precedenti il 1512.
Studiò legge, forse a Bologna (come ipotizza Caponetto, 1987, p. 307), per divenire un notaio itinerante nel neonato Stato mediceo: nel 1534 risulta attivo a Castrocaro, nella Romagna fiorentina, poi in Valdera e nel Valdarno e infine in un centro aperto a infiltrazioni eterodosse come Fivizzano, in Lunigiana. Dal novembre 1542 fu a Firenze, come notaio del tribunale della Mercanzia.
All’Archivio di Stato di Firenze (Notarile antecosimiano, 569) si conservano tre volumi di suoi rogiti dal 1532 al 1549. Tali documenti testimoniano l’incrocio tra la sua professione e le sue opinioni religiose. Oltre ai rogiti, infatti, su quelle carte Puccerelli appuntava le sue annotazioni ai testi di Paolo e Agostino e la sua interpretazione dei passi del profeta Daniele relativi all’entrata dell’«abominium desolationis» nel tempio di Dio, che vedeva come una prefigurazione dell’Eucaristia cattolica (Caponetto, 1987, p. 301). Queste opinioni gli valsero l’accusa di eresia e la comparizione davanti all’inquisitore il 6 novembre 1549.
Finora la sua vicenda inquisitoriale si è basata su resoconti di diaristi e cronisti contemporanei, secondo i quali Puccerelli «interpretava le scritture a sua fantasia tal che era venuto a tale per il mal seme luterano [che] aveva fatto una fede a suo modo e così, nascendogli figliuoli, non gli voleva battezzare» (in Caponetto, 1987, p. 300). Il ritrovamento del processo (Firenze, Archivio dell’Ospedale degli Innocenti, 13193 (13034), s. 144, III) complica il profilo di Puccerelli semplice luterano e conferma le sue inclinazioni vicine all’anabattismo attestate dai contemporanei (cfr. Buonsignori, 2000, p. L).
Interrogato «se ha mai persuaso alcuno a non mandare e’ figli al battesimo se non sono grandi», Puccerelli rispose che «non accade mandare alla chiesa, ma basta solo dire quelle parole “Ego te baptizo” etc. e non voleva che la moglie mandassi e’ figlioli al baptesimo […] e adduceva il decto di S. Giovanni “Ego baptizo in aqua sed qui est apud me baptizabit in spiritu”, che è Christo». Aveva inoltre proibito le funzioni religiose anche a una «servicina in casa quale non vuole vada alla chiesa e così ha insegnato a’ sua fratelli in Valdarno» (c. 7r). Il fascicolo contiene, infatti, anche il processo al fratello Girolamo, con interessanti squarci sul contenimento del dissenso religioso nel Valdarno, che vide coinvolta Alessandra Antinori, moglie dell’ambasciatore mediceo presso Carlo V, Averardo Serristori.
Puccerelli negò tutte le imputazioni a suo carico, compreso il paragone tra l’Eucaristia e la bestia descritta da Daniele, che attribuì alla malevolenza dei suoi accusatori, ma che lui stesso aveva annotato nei suoi rogiti. Il processo però lo mostra al centro di una vasta rete di frequentazioni eterodosse. Non solo la sua attività di notaio itinerante gli aveva forse permesso di fare da tramite tra i gruppi eterodossi della Garfagnana e quelli della Valdera e del Valdarno, ma, come affermò un teste, «detto ser Francesco ne ha infettati assai in Firenze» (c. 10r). Tra coloro che aveva allontanato dall’ortodossia religiosa c’erano membri delle classi lavoratrici, come il cuoiaio Agostino Biagi, il berrettaio Giovan Battista Camerini e Salvatore di Giovanni, maniscalco. Oltre a queste figure (il contatto con le quali fu verosimilmente propiziato dalla sua professione), tra i testimoni a suo carico vennero convocati anche personaggi di grado più alto, come il nobile Giovandonato Barbadori (nonno di Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII). Mentre rimangono allo stato di ipotesi i suoi contatti con uno dei più importanti esponenti della Riforma italiana, quale Aonio Paleario (Caponetto, 1987, p. 310), sappiamo per certo che contro di lui testimoniò uno dei più noti predicatori del tempo, l’agostiniano in odore di eresia Andrea Ghetti da Volterra, il quale, anche nelle deposizioni contro Puccerelli, mantenne quell’atteggiamento cauto che gli permise di passare indenne i decenni centrali del Cinquecento, pur continuando a sostenere opinioni ambigue in materia di religione. Ghetti ricorda come Puccerelli lo aveva avvicinato nella chiesa di S. Spirito «causa disserendi» e che «in disputando ipsum tenuisse opinionem contra omnes doctores de sanctissimo eucharistiae sacramento» e, anche se non si ricordava «de particulari opinione», lo aveva sentito dire di essere in possesso di «doctrinam infusam et spiritum Dei, quo solo interpretatur scripturam». Dopo avere aggiunto che Elisabetta, moglie di un Vincenzo da Treviso, maestro dei paggi del cardinale di Ravenna Benedetto Accolti, lo aveva sentito negare la divinità di Cristo e sostenere l’impossibilità da parte dell’uomo di peccare, aveva concluso che l’imputato era in odore di eresia.
Sulla divinità di Cristo, Puccerelli aveva in effetti una posizione complessa: ne aveva discusso con il camaldolese Lorenzo Leoni «sopra il proposito di quelle parole “ego et pater unus sumus” […] a sorte leggendosi sul testo che l’haveva il frate» e, pur avendo ammesso che Cristo era «figliuol di Dio naturalissimo e il verbo e la sapientia del padre, come la sacra scrittura manifesta, […] conchiudeva che, quando si parla di Dio puro, s’intende la essentia incomprensibile, la quale, per quanto è piaciuto al padre eterno, è fatta comprensibile per Iesu Cristo, secondo i miracoli che lui divinamente faceva» (cc. 8v-9r). Anche se non arrivava alla negazione esplicita della divinità di Cristo, Puccerelli condivideva dunque l’atteggiamento, tipico degli esuli italiani per motivi religiosi e comune anche all’antitrinitario spagnolo Michele Serveto, di concepire Cristo come semplice manifestazione visibile dell’essenza divina (Cantimori, 1992, p. 212). Inoltre avrebbe affermato che gli ebrei erano «in miglior stato» (c. 56r) dei falsi cristiani e che «Maumetto è un uomo buono e confessa Christo et è propheta grandissimo» (c. 7r) e «uno nome grande» (c. 47v). Oltre a proposizioni eterodosse – aveva detto che «l’ostia è una pispilloria e una pasta», riprendendo quasi ad verbum le parole dell’unico libro la cui lettura era emersa dal processo, il Pasquino in estasi di Celio Secondo Curione – dai suoi costituti si profila una posizione più complessa di quella di un luterano, in cui il letteralismo protestante si venava di spiritualismo e si apriva al confronto con le altre religioni.
Ciò aiuta a spiegare la sorprendente severità della punizione, tre anni di condanna al remo. La radicalità delle opinioni di Puccerelli e il suo ruolo di pubblico ufficiale fecero infuriare lo stesso Cosimo I, tanto che «si disse che Sua Eccellenza era stata placata per via di suppliche, ché lo voleva fare abbruciare» (in Caponetto, 1987, p. 300). Il processo contiene, infatti, una supplica di Puccerelli a Cosimo in nome dell’interiorità della fede, «particular dono dell’altissimo Dio per Iesu Christo […] che non può così da ognuno esser cognosciuto et examinato» (c. 54r). La risposta del segretario del duca, Lelio Torelli, fu però negativa e inappellabile: «A sua Eccellenza non par s’habbi a mancare di dargli severo gastigo, maxime trovandosi le cose della religione nel termine che si trovono e, se loro non lo faranno, sua Eccellenza non mancherà di farlo lei, per esser debitrice di conservar la fede et religione cristiana come qual si voglia altro» (c. 54r).
Pochi anni dopo l’abiura di Puccerelli, avvenuta il 29 gennaio 1550, l’anabattista pentito Pietro Manelfi rivelò la presenza di molti anabattisti all’interno del dominio fiorentino, spingendo Cosimo I a un atteggiamento di sempre maggiore fermezza verso l’eresia. Che Puccerelli avesse avuto un ruolo nella diffusione di questa deviazione ereticale lo conferma, oltre alle sue opinioni vicine ad anabattismo e antitrinitarismo, la presenza nei suoi costituti del berrettaio Giovan Battista Camerini, verosimilmente lo stesso «maestro Giovanni Battista padovano, berrettaro» ricordato anche da Manelfi tra i «luterani» toscani (I costituti di don Pietro Manelfi, 1970, p. 39).
Dopo il processo non risultano più notizie di Puccerelli, ma è noto dalla documentazione notarile del figlio Giovanni che morì prima del 27 febbraio 1570, probabilmente lontano da Firenze, visto che il suo nome non compare né nei registri dell’Arte dei medici e degli speziali, né in quelli dell’Ufficiale della Grascia, né nell’elenco dei morti di S. Maria Nuova.
Fonti e Bibl.: I costituti di don Pietro Manelfi, a cura di C. Ginzburg, Firenze 1970, p. 39; S. Caponetto, Un ‘luterano’ fiorentino del cinquecento: il notaio ser F. P., in Studi sulla Riforma in Italia, Firenze 1987, pp. 297-313; D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, Torino 1992, p. 212; M. Firpo, Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I, Torino 1997, pp. 357 s.; F. Buonsignori, Memorie: 1530-1565, a cura di G. Bertoli, Firenze 2000, p. L; Nuove prospettive degli studi italiani sulla Riforma protestante e i movimenti ereticali nell’età moderna, a cura di L. Felici, Torino 2016; L. Biasiori, «Una fede a suo modo»: il processo al notaio F. P. e la politica religiosa di Cosimo I, in corso di stampa.