PIZOLPASSO, Francesco
PIZOLPASSO (Pizzolpasso, Picolpasso, Piccolpasso, de Piçolpassis), Francesco. – Nacque a Bologna intorno al 1375, da Nicolò di Filippo e da una Lambertini, ambedue di antica famiglia cittadina. Ebbe almeno quattro fratelli (Paolo, Drudo, Giovanni e Girolamo).
Il suo percorso di formazione ebbe tre tappe: il notariato a Bologna (1400), successivamente la laurea in teologia presso lo Studium Curiae di Roma (1410-11), infine il dottorato in diritto canonico a Bologna (1417). Puntò infatti sulla carriera curiale; a Roma divenne segretario del cardinale Landolfo Maramaldo e, già nel 1403, fu ammesso nella familia di Bonifacio IX (e in seguito di Innocenzo VII e Gregorio XII). Nel 1408 aderì all’iniziativa dei cardinali promotori del Concilio di Pisa, finendo così per entrare nella Curia dei nuovi papi della ‘obbedienza pisana’. Proseguiva intanto la sua carriera curiale (chierico di Camera attorno al 1410, scriptor apostolicus – dopo la rinuncia del fratello Paolo – nell’aprile 1411); a partire dal 1413 ricoprì importanti incarichi politico-diplomatici, come la preparazione del soggiorno papale a Costanza, nel 1414. Nel corso dell’assise, partecipò al clima spiritualmente stimolante e intellettualmente suggestivo del grande sinodo riformatore; fu, tra l’altro, in stretto rapporto con Poggio Bracciolini. Tuttavia nel 1415, con la fuga di Giovanni XXIII da Costanza e la sua deposizione, il contesto si modificò radicalmente e Pizolpasso fu costretto a rientrare a Bologna, dove decise di farsi chierico. Prese gli ordini minori il 18 aprile 1416, per farsi poi ordinare suddiacono una settimana più tardi. Nell’agosto del 1417, conseguito il secondo titolo dottorale, venne ammesso nel Collegio dei dottori canonisti della sua città.
Dopo l’elezione di Martino V (novembre 1417), l’esigenza di ricreare una Curia efficiente lo richiamò a Costanza, e l’esser chierico e canonista gli permise di venire ammesso, secondo i requisiti fissati dal Concilio, tra i chierici di Camera. Già nel maggio 1418 fu inviato da Martino V presso il duca di Savoia e il vescovo di Ginevra. Poi seguì il papa in Italia, a Firenze, dove la Curia sostò per un anno e mezzo. Nel marzo 1419 fu nominato vicerettore del Patrimonio, in giugno vicegovernatore della stessa provincia e infine, nel marzo 1420, rettore di vari centri del Patrimonio, dell’Umbria e della Sabina, con l’incarico di riottenere tali località da Braccio da Montone. Pizolpasso vi riuscì, e anche per questo Martino V poté infine far rientro nell’Urbe (il 28 settembre 1420).
Considerato l’alto profilo della sua carriera, non stupisce che Pizolpasso nel corso degli anni avesse cumulato diversi benefici, in parte acquisiti quando era ancora in stato laicale: un canonicato e poi l’arcipretura a Cento (1414), e a Bologna un canonicato nella cattedrale (1415 o 1416), poi il decanato di S. Colombano (ottobre 1416, conservato per tutta la vita) e infine l’arcipretura della cattedrale (giugno 1419). La promozione episcopale alla sede di Dax, nella Guascogna inglese, arrivò nel 1423. Fu dunque in veste di vescovo che presenziò al Concilio di Pavia-Siena (aprile 1423-marzo 1424) dapprima come membro della natio gallicana poi «pro Anglicis».
Nel 1424 fu inviato da Martino V quale commissario e nunzio apostolico presso l’esercito papale che affiancava la regina di Napoli Giovanna II contro Braccio da Montone, e fu presente alla battaglia dell’Aquila del 2 giugno 1424.
Dopo un breve e imprecisato soggiorno a Dax (accompagnato dal nipote Michele di Drudo, suo vicario), dove recuperò anche preziosi codici, nel febbraio del 1427 venne traslato alla sede di Pavia da Martino V, che intendeva in tal modo aprire un dialogo con Filippo Maria Visconti; sino all’ottobre 1430 però il duca impedì a Pizolpasso di entrare nella nuova diocesi. Solo con fatica, grazie forse alla mediazione del cardinale Castiglioni, riuscì a guadagnarsi la benevolenza di Visconti, senza peraltro mai entrare nella sua cerchia e nei consigli ducali.
Come già a Dax, anche a Pavia Pizolpasso non si impegnò molto sul piano pastorale, limitandosi a guidare la diocesi tramite vicari, come il nipote Michele, o vescovi ausiliari, come il vescovo di Bobbio Daniele Pagani. Importanti, in quegli anni, furono semmai le relazioni intellettuali, e soprattutto i rapporti con Antonio Beccadelli (il Panormita), che lo mise in contatto con il mondo dell’Umanesimo universitario pavese. Già in passato, nel 1411, Pizolpasso aveva curato con Niccolò Niccoli una raccolta (perduta) di epistole bruniane; e ora, nel 1431, ne raccolse di proprie (ugualmente perdute). Inoltre, nel 1432 compose il De architectura sacrae sedis Castelleonis: un trattato in forma di missiva (indirizzato al cardinale Juan de Cervantes), in cui si esaltavano il valore spirituale e il pregio architettonico della celebre fondazione ecclesiale voluta da Branda Castiglioni.
Nel marzo 1432, apertosi il Concilio di Basilea, Pizolpasso si recò per ordine del duca nella città renana e l’11 aprile fu aggregato alla commissione de fide: fu l’inizio di una lunga e intensa stagione. A Basilea, oltre a entrare in contatto con la devotio moderna e con le ansie di rinnovamento ecclesiale suscitate dal Concilio, riannodò legami con Nicola Cusano e Juan de Cervantes, e strinse nuovi rapporti con il giovane Enea Silvio Piccolomini e il camaldolese Ambrogio Traversari, inviato papale al concilio, condividendo letture e discussioni, e anche la passione per la ricerca di codici rari. Lui stesso, anzi, si distinse per la scoperta di alcuni testi perduti: l’epitome sallustiana di Giulio Esuperanzio; le Notae Iuris di Probo o il Panegirico di Plinio il Giovane a Traiano.
Partecipò intensamente, come teologo e giusdicente, ai lavori conciliari e svolse missioni diplomatiche importanti: in Castiglia, presso il re Giovanni II (maggio-luglio 1432) e ad Auxerre per un incontro franco-borgognone (settembre 1432). Abile nell’assecondare l’orientamento filoconciliare di Visconti, ma senza rompere con il papa, si guadagnò la fama di moderato, e anche per questo il 9 maggio 1435 fu promosso all’arcivescovato di Milano, da tempo vacante. Nel novembre del 1435 lasciò dunque per qualche tempo Basilea, e in dicembre fece ingresso nella sua arcidiocesi.
Il breve soggiorno a Milano fu anche l’occasione per importare in Italia alcuni temi del dibattito culturale e umanistico basileese: Pizolpasso affidò a Pier Candido Decembrio il commento terenziano di Elio Donato e diffuse il trattato scritto dal vescovo di Burgos, Alonso Garcia de Cartagena, in polemica con la traduzione bruniana dell’Etica Nicomachea.
Ne nacque una polemica culturale – la cosiddetta controversia alphonsina – destinata a protrarsi fino al 1438, nella quale Pizolpasso, chiamato a svolgere una sorta di ruolo arbitrale, mostrò di propendere per l’idea di un Umanesimo cristiano, che apprezzasse il valore della filologia, ma non la verve dissacratoria di molti umanisti nei confronti delle auctoritates e della tradizione.
Il suo impegno culturale e l’interesse per i testi della filosofia greca continuarono ovviamente anche negli anni successivi; da Basilea, nel 1438, raccomandò al duca di Gloucester Humphrey Plantagenet-Lancaster, zio del re d’Inghilterra Enrico VI, la traduzione della Repubblica di Platone dell’amico Decembrio.
Rientrato a Basilea nell’estate del 1436, aveva dovuto frattanto fronteggiare l’accusa di aver violato il decreto conciliare del 1435 sull’abrogazione delle annate: si era infatti impegnato a versare alla Tesoreria papale il servitium commune per la sede ambrosiana. Ne uscì assolto solo nel 1437, dichiarando di essere stato forzato a quell’obbligazione. Rimase poi nella città renana anche quando molti padri conciliari moderati, sempre nel 1437, se ne allontanarono, ma assunse posizioni sempre più critiche contro l’ala radicale (in specie contro il suo capo, il cardinale Louis Aleman) e contestò la pretesa di mettere il papa sotto processo, attirandosi un’esplicita censura del Concilio. Il suo dissenso nei confronti della linea antipapale si fece via via più esplicito: nel 1439 disertò le sessioni che ribadirono la superiorità del Concilio sul papa e deposero Eugenio IV, mentre apprezzò l’unione con i greci, proclamata dal papa a Firenze (luglio 1439). Abbandonò infine Basilea con l’esplicita autorizzazione di Visconti, nel novembre 1439, senza prendere parte all’elezione di Felice V, e fece rientro a Milano.
In questa seconda fase il suo impegno pastorale fu più marcato, forse per una meditazione più attenta sui doveri del vescovo e per l’eco delle dottrine episcopaliste circolate a Basilea. Si può supporre che avesse anche ricevuto gli ordini presbiterale ed episcopale, come suggerisce il fatto che non abbia mai nominato un vescovo ausiliare per le funzioni sacramentali. Inoltre, il codice più sontuoso da lui commissionato alla fine degli anni Trenta per la propria biblioteca fu l’attuale ms. Fitzwilliam Museum 28 (Cambridge), una versione ampliata e riccamente miniata del Pontificale Romanum di Guglielmo Durando, dedicato appunto alle funzioni liturgiche proprie dei vescovi consacrati.
Conseguente a questa concezione alta del proprio ruolo fu il contrasto con il Capitolo maggiore della cattedrale ambrosiana, che egli intendeva sì valorizzare, ma nel quadro di una rivalutazione del ruolo episcopale. Già nel 1437 del resto aveva chiesto ai canonici un maggior rispetto degli obblighi liturgici; nel 1440 contestò i diritti temporali del Capitolo sulle valli Leventina e Blenio, ed emanò diverse norme disciplinari; nel 1441 promosse l’allargamento del Capitolo maggiore, estendendolo al primicerio e al preposito. Attriti sorsero anche con il cardinale Landriani, che dal luglio del 1440 operava quale legato apostolico nel dominio visconteo con la tendenza a scavalcare in più di un caso l’autorità e giurisdizione dell’arcivescovo.
Per il governo generale della diocesi Pizolpasso si affidò soprattutto al milanese Francesco Della Croce, primicerio della cattedrale, nominato vicario sin dal luglio del 1435, quando era a Basilea (dove i due avevano stretto un intenso legame, condividendo ideali umanistici e visione riformatrice). L’incisiva azione di Della Croce continuò per lo meno fino al settembre 1442, quando venne sostituito da Antonio Zeno (preposito della chiesa della S. Trinità di Pavia), che designò a sua volta un proprio vice nella persona del tortonese Antonio Pichetti.
Nel frattempo Pizolpasso si concentrò soprattutto sulle questioni storico-liturgiche e sulla salvaguardia del rito ambrosiano anche in forza delle numerose e meditate letture dei testi di s. Ambrogio. La Constitutio archiepiscopalis con cui cercò di uniformare le celebrazioni liturgiche di tutta la diocesi, emanata nel 1440, rimase invero disapplicata, nonostante l’arcivescovo vi annettesse grande importanza e la facesse riprodurre in un altro celebre codice miniato della sua biblioteca (Ambr. H.266 inf). Sempre nel 1440 fece inoltre preparare un Martirologium secundum morem ambrosianum ordinatum; e già nel 1438 (da Basilea) aveva affidato al nipote Michele il compito di ricostruire la storia della Chiesa milanese al fine, tra l’altro, di accreditare la tradizione che voleva s. Barnaba quale protovescovo della città.
In quegli stessi anni, seguendo una sorta di vocazione eremitica a lungo vagheggiata, prese a frequentare il convento extramurario dei girolamini osservanti di S. Girolamo al Castellazzo. Ne fece un luogo di ritiro, preghiera e meditazione, pensato però anche come una sorta di cittadella monastico-arcivescovile, centro di studio e irradiazione spirituale, sul modello della Tusculo ciceroniana, del Cassiciacum di Agostino, o della Castiglione Olona a suo tempo tanto ammirata.
Fu appunto al Castellazzo che Pizolpasso morì nel febbraio del 1443.
Fu sepolto nel Duomo di Milano davanti all’altare maggiore. I suoi libri, che costituivano una della più cospicue biblioteche private del XV secolo, incrementata nel corso degli anni, furono lasciati alla Biblioteca capitolare della cattedrale, e salvati dalla dispersione da Francesco Della Croce. Nel Seicento furono ceduti 85 codici alla Biblioteca Ambrosiana, dove sono tuttora custoditi.
Di Pizolpasso gli autori quattrocenteschi (Donato Bossi nella sua Cronaca; il Liber Primicerii, un testo sulle vite dei presuli milanesi composto a partire da fine secolo) elogiarono la morigeratezza e la severità di costumi, ricordandone la vita austera e devota. Gli studi successivi hanno invece messo in risalto la sua complessità: alto prelato, protagonista della stagione conciliare nonché attivo promotore dell’umanesimo.
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