PICCOLOMINI, Francesco
PICCOLOMINI, Francesco. – Nacque a Siena il 25 gennaio 1523, da Niccolò, dottore in diritto civile e canonico, ed Emilia Saracini. Laureatosi nello Studio senese in arti e medicina il 12 luglio 1546, il giovane Piccolomini iniziò precocemente la sua lunga e brillante carriera accademica: dopo aver insegnato a Siena per tre anni, fu a Macerata per un anno e, dal 1550 al 1560, a Perugia. Fu un periodo proficuo, durante il quale egli strinse una fitta rete di relazioni con personaggi di primo piano: intorno al 1549 entrò a far parte dell’Accademia degli Intronati, con il nome di Malinconico, e a Perugia divenne amico del cardinale Sarnano, al quale, a testimonianza di un legame duraturo, dedicò molti anni dopo, nel 1594, il testo Comes politicus, pro recta ordinis ratione propugnator, edito a Venezia per i tipi di Francesco De Franceschi. Di dubbia affidabilità è la notizia di una sua possibile partecipazione, in questo periodo, alla difesa di Siena, sotto assedio da parte delle truppe medicee.
Nel 1560 si trasferì a Padova, polo universitario agognato dall’élite intellettuale dell’epoca, dove gli fu assegnata la prima cattedra straordinaria di filosofia naturale. Nel 1564 ottenne la seconda cattedra ordinaria della stessa materia e nel 1565, infine, la prima cattedra ordinaria, in concorrenza con Federico Pendasio. Tra il 1568 e il 1570, i due professori si scontrarono in una violentissima disputa, che si concluse soltanto nel 1571, con il trasferimento di Pendasio a Bologna: fulcro dello scontro era l’interpretazione del terzo libro del De anima aristotelico, del quale Pendasio forniva un’esegesi improntata a quella di Alessandro d’Afrodisia, mentre Piccolomini dava una lettura tesa a conciliare aristotelismo e platonismo. Con l’uscita di scena del suo diretto concorrente, l’ascesa di Piccolomini fu ancor più rapida ed eclatante: unico titolare della prima cattedra ordinaria di filosofia naturale, non ebbe più concorrenti diretti e giunse a ottenere, nel 1589, uno stipendio mai raggiunto prima dai suoi colleghi, di ben 1400 fiorini annui. Ad affiancarlo, ricoprendo però la seconda cattedra di filosofia naturale, furono intellettuali di spicco, quali Arcangelo Mercenario, dal 1578 al 1585, Iacopo Zabarella, dal 1585 al 1589, e Cesare Cremonini, dal 1591 al 1600.
Piccolomini divenne presto un professore assai famoso nell’ambiente patavino, in grado di richiamare moltissimi giovani, spesso giunti a Padova proprio per assistere alle sue lezioni. Particolarmente ambite erano le sue lezioni private: egli infatti, per accrescere ulteriormente il suo prestigio stringendo legami forti con la nobiltà veneta, era solito selezionare una ristretta cerchia dei suoi numerosi studenti, prediligendo rampolli di famiglie altolocate, che seguiva con particolare attenzione e invitava alla stesura di opere, giungendo persino a vergare di proprio pugno scritti che i suoi alunni prediletti potessero poi pubblicare a loro nome. È il caso dei Peripateticarum de anima disputationum libri septem di Pietro Duodo, che videro la luce nel 1575 a Venezia per i tipi di Domenico e Giovanni Battista Guerra, e degli Academicarum contemplationum libri decem di Stefano Tiepolo, editi l’anno successivo, anch’essi a Venezia, nella stamperia di Pietro Deuchino, testi che Eugenio Garin (1961) non ha esitato ad attribuire integralmente a Piccolomini. A ricordare con slancio le lezioni padovane del filosofo senese fu poi uno studente d’eccezione, Torquato Tasso, nel dialogo del 1589 Il Costante overo de la clemenza; ci è inoltre pervenuta una copia della prima opera a stampa di Piccolomini, l’Universa philosophia de moribus, del 1583, appartenuta al poeta sorrentino e da lui accuratamente postillata (Biblioteca apostolica Vaticana, Stamp. Barb. Cred. Tass. 39).
Nel 1572 Piccolomini sposò la nobile senese Fulvia Placidi, dalla quale ebbe almeno quattro figli: Niccolò, Alessandro, Caterina e Aurelia. Nei mesi di settembre e ottobre del 1579, poi, fu priore a Siena del ‘terzo’ di S. Martino, in rappresentanza del ‘monte’ dei Gentiluomini.
Malgrado le sue lezioni, dottissimi e approfonditi commentari ai testi aristotelici di filosofia naturale, circolassero ormai da anni manoscritte, Piccolomini affidò interamente all’attività di insegnante la sua carriera nello Studio patavino, esordendo con un’opera a stampa – la già ricordata Universa philosophia de moribus, edita a Venezia presso Francesco De Franceschi – soltanto nel 1583, quasi vent’anni dopo l’ottenimento della prima cattedra ordinaria. Il testo, che Piccolomini afferma di aver iniziato a scrivere nel biennio 1576-77, ebbe effettivamente una gestazione lunga e complessa, come testimonia il ritrovamento di una prima stesura, scartafaccio di quella definitiva: si tratta del manoscritto Francisci Piccolominei praelectiones Ethicae sive in lib. De moribus (Milano, Biblioteca Ambrosiana, cod. D.413.inf., 84 cc.), che si arresta al capitolo ottavo del primo libro e che, nelle sezioni trattate, segue un andamento teorico più confuso e frammentario.
Obiettivo dell’autore è tentare una conciliazione tra Aristotele e Platone in ambito etico-politico, inserendo temi platonici e neoplatonici in un’impalcatura speculativa basata sull’Ethica nicomachea e sulla Politica dello Stagirita. Fondamento teorico dell’indagine sul governo civile è un’analisi della morale e in particolare della virtù della prudenza, che non deve essere confusa con l’astuzia, come hanno erroneamente fatto Niccolò Machiavelli e i suoi seguaci, scindendo il campo della politica dalla morale. Soltanto un’educazione retta e proba, eticamente valida, può, infatti, condurre a una cittadinanza consapevole: per questo il miglior principe è, per Piccolomini, colui che, nato in una famiglia principesca, è stato educato alla virtù e può dunque sottrarre i suoi sudditi all’imperio della sfera sensibile dell’esistenza, guidandoli e governandoli. Oltre a fornire la più compiuta esposizione dell’ideale politico del filosofo, quest’opera è particolarmente rilevante perché, nella seconda parte dell’introduzione, contiene una durissima presa di posizione dell’autore contro la logica tecnico-strumentale di Iacopo Zabarella, speculum di astiose tensioni che contrapponevano i due filosofi.
Negli ultimi anni di insegnamento – Piccolomini abbandonò l’attività di professore nel luglio 1598 –, egli diede alle stampe, oltre al già ricordato scritto dedicato al cardinale Sarnano, un altro testo, nel 1596, ancora una volta per i tipi di Francesco De Franceschi: i Libri ad scientiam de natura attinentes, una summa delle sue lezioni di commento alle opere aristoteliche di filosofia naturale, da cui emerge con chiarezza, ancora una volta, la tensione sincretica tra aristotelismo e platonismo che anima il pensiero dell’autore.
Nell’ambito della trattazione della gnoseologia umana e animale, per esempio, egli mostra, citando a suo sostegno anche Giamblico, come la fantasia, livello conoscitivo proprio sia degli uomini sia delle bestie, costituisca un grado inferiore della sfera spirituale, facendo uso, in modo creativo e volto alla rielaborazione, della categoria di subnotio ideata da un altro intellettuale che era stato legato all’ambiente patavino: Girolamo Fracastoro. Mostrando di conoscere le linee teoriche di fondo del dialogo fracastoriano Turrius, sive de intellectione, uscito postumo nel 1555, Piccolomini rileva infatti come i dati sensibili, prima di pervenire all’intelletto, siano ordinati per somiglianza in gruppi, detti appunto subnotiones.
Tornato a Siena, dopo aver ricoperto nei mesi di settembre e ottobre del 1599 la carica di capitano del popolo per il ‘terzo’ di Camollìa, Piccolomini si dedicò alla pubblicazione di ben cinque testi: il De rerum definitionibus liber unus – uscito nel 1600 a Venezia, ancora una volta presso Francesco De Franceschi, e strutturato in 120 definizioni, tramite le quali l’autore tenta di costruire una griglia concettuale attraverso la quale il lettore possa interpretare i concetti chiave dell’intera tradizione filosofica – e vari commenti a opere aristoteliche, editi a Venezia nella stamperia De Franceschi, ovvero la Librorum Aristotelis de ortu et interitu lucidissima expositio e la In tres libros de anima lucidissima expositio, del 1602, la Octavi libri naturalium auscultationum perspicua interpretatio, del 1606, e la In libros de coelo lucidissima expositio, che vide la luce postuma, nel 1607, a cura del figlio Alessandro. I frutti più originali di questa stagione creativa, però, sono due testi rimasti manoscritti: l’Instituzione del principe (Firenze, Biblioteca Riccardiana, cod. 2589, cc. n.n.), risalente al 1602, che Piccolomini scrisse su richiesta di Cristina di Lorena, moglie del granduca di Toscana Ferdinando I, che desiderava avere uno scritto del famoso professore da utilizzare come guida per l’educazione del figlio Cosimo, e il Compendio della scienza civile (Firenze, Biblioteca nazionale centrale, Conv. Soppr. (S. Maria degli Angeli), cod. E.5.867, cc. n.n.), scritto intorno al 1603, sunto in volgare dell’Universa philosophia de moribus dedicato alla granduchessa, nel quale, tenendo acutamente conto del cambiamento di destinatario, l’autore sottolineò maggiormente le tematiche platonizzanti e individuò il modello di governo esemplare non più nella Repubblica di Venezia, ma nel Granducato di Toscana.
Piccolomini divenne, inoltre, membro dell’Accademia dei Filomati, con il nome di Unico, ricevendo, il 26 gennaio del 1605, un premio per l’attività svolta l’anno precedente.
Morì a Siena il 22 aprile 1607, all’età di 84 anni, e fu sepolto nella chiesa di S. Francesco, dove, il 13 luglio, si tenne il suo funerale.
Opere. L’Instituzione del principe e il Compendio della scienza civile sono editi a cura di S. Pieralisi, Roma 1858.
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F. Cavalli, La scienza politica in Italia, II, Venezia 1873, pp. 40-48; P. Ragnisco, La polemica tra F. P. e Giacomo Zabarella nell’università di Padova, in Atti del R. Istituto veneto di scienze lettere ed arti, s. 6, IV (1885-1886), pp. 3-5; A. Malmignati, Il Tasso a Padova, Padova 1889, pp. 84-88; A. Solerti, Vita di T. Tasso, I, Torino 1895, pp. 57, 94, 202; M. Battistini, F. P. e un suo scritto educativo per il Gran principe di Toscana, in Bullettino senese di storia patria, XXII (1915), pp. 334-338; L. Barbagli, I tabellioni degli Intronati, ibid., s. 3, I (1942), p. 192; E. Garin, Il «De perfectione rerum» di Niccolò Contarini, in Giornale critico della filosofia italiana, XL (1961), p. 135; A.M. Carini, I postillati «Barberiniani» del Tasso, in Studi tassiani, XII (1962), p. 107; E. Garin, Storia della filosofia italiana, Torino 1966, pp. 656-661; C. Vasoli, Studi sulla cultura del Rinascimento, Manduria 1968, p. 338; A. Poppi, La dottrina della scienza in Giacomo Zabarella, Padova 1972, pp. 164 s.; Id., Il problema della filosofia morale nella scuola padovana del Rinascimento: platonismo e aristotelismo nella definizione del metodo dell’etica, in Platon et Aristote à la Reinassance. Actes du XVIe colloque international de Tours, Paris 1976, pp. 133 s.; G. Santinello, Il «De priscorum sapientium placitis» di Luigi Pesaro, in Medioevo e rinascimento veneto con altri studi in onore di Lino Lazzarini, II, Padova 1979, pp. 182-202; A.E. Baldini, La politica «etica» di F. P., in Il pensiero politico, XIII (1980), pp. 161-185; Id., Per la biografia di F. P., in Rinascimento, XX (1980), pp. 389-420; F. Piro, Il retore interno: immaginazione e passioni all’alba dell’età moderna, Napoli 1999, pp. 151-152.