MOROSINI, Francesco
– Nacque a Venezia il 26 febbraio 1619, terzogenito del futuro procuratore Pietro di Michele, della parrocchia di Santa Marina, e di Maria Morosini di Gabriele, del ramo ‘in calle dei Botteri’.
Aveva appena un anno quando la madre annegò nel Brenta, mentre cercava di soccorrere il marito caduto in acqua. Questi, che talune voci accusarono di aver provocato la tragica fine della consorte, si risposò nel 1627 con Laura Priuli, vedova di Francesco Malipiero, dalla quale ebbe altri due figli e nel cui palazzo a Santo Stefano la famiglia si trasferì. Il padre di Morosini era ricco, influente e bramoso di conseguire sempre maggiori onori per sé e per il casato; obiettivi, questi, che il figlio fece propri e ai quali dedicò la maggior parte della vita.
Trascorsa la puerizia, Morosini fu collocato in istruzione nel collegio di S. Carlo a Modena, di recente istituzione, destinato alla formazione dei giovani nobili. La vicinanza di coetanei legati per tanti aspetti al mondo feudale e militare finì per accentuarne l’inclinazione agli entusiasmi guerreschi piuttosto che ai dibattiti assembleari, sui quali si basava il governo della Serenissima. Coerentemente a tale propensione, e tenuto conto del fatto che i suoi fratelli sarebbero stati temibili concorrenti nel cursus honorum, non appena l’età glielo permise si dedicò alla professione militare, che per un veneziano non poteva essere che sul mare. La percorse tutta, questa carriera, da semplice ufficiale al grado di capitano generale.
Dopo un primo imbarco nella nave comandata dal cugino Pietro Badoer (così la letteratura, ma le fonti ufficiali tacciono), il 10 giugno 1640 ebbe la nomina a sopracomito, ossia a capitano di galera, distinguendosi nella lotta contro i corsari barbareschi che infestavano l’Adriatico e, nel 1643, dispiegando non minor zelo, contro i possedimenti pontifici. Era in corso, infatti, la guerra di Castro fra i Barberini e i Farnese, a fianco dei quali s’era schierata la Repubblica; donde il bombardamento di Cesenatico, Senigallia e Rimini effettuato dalla squadra nella quale prestava servizio Morosini.
Due anni dopo scoppiò ben altro conflitto: la guerra di Candia, destinata a protrarsi per un quarto di secolo, ma che per Morosini avrebbe rappresentato una formidabile occasione di successo personale, imprimendo una svolta decisiva alla sua esistenza. Il 1° ottobre 1645, infatti, fu promosso governatore di galera grossa, il 7 luglio 1647 governatore delle galere dei condannati e il 29 settembre capitano in Golfo.
Una così rapida progressione rende plausibile la sua partecipazione alle operazioni in difesa dei porti cretesi di Retimo e Suda nell’estate del 1646, come indicano le fonti e molta letteratura, senonché gli stessi documenti e la pur dettagliata storia della guerra di Candia di Andrea Valier confondono talora il suo nome con quello di altri Morosini parimenti impegnati nel lungo conflitto, quali Daniele, Giorgio, Taddeo, Tommaso. Ancora, la carica di capitano in Golfo, cui Morosini era stato eletto subentrando ad Alvise II Mocenigo, nominato capitano generale da Mar, comportava il comando della flotta operante nell’Adriatico, la qual cosa renderebbe meno probabile la sua presenza nell’Egeo.
Era ancora capitano in Golfo quando, il 17 gennaio 1650, fu promosso comandante delle galere grosse, o galeazze, consentendogli di operare in un’area più vasta e partecipare direttamente alla difesa di Candia.
Il primo impegnativo scontro navale lo sostenne il 10 luglio 1651 a Triò, nel canale fra Paro e Nasso. Il Kapudan pascià turco, Alì detto «Mazzamamma», aveva lasciato i Dardanelli con una grossa flotta, nell’intento di rifornire Creta; Alvise Mocenigo, con un’armata inferiore di numero ma superiore per qualità, s’era mosso per intercettarlo. Morosini stava sull’ala sinistra dello schieramento e la battaglia prese subito una piega favorevole ai veneziani; la sua galeazza riuscì ad avere la meglio e a impadronirsi di una ‘sultana’ da 60 cannoni. Fu uno smagliante successo per Morosini e per l’armata veneta, che sancì in uno scontro di grande importanza la sua superiorità sul nemico; ma il trionfo finì per generare profonde gelosie tra l’astro nascente e il suo superiore Mocenigo, avanti con gli anni e, in talune occasioni, sin troppo prudente. Pertanto Mocenigo dapprima lo estromise dalla consulta dei capi militari, poi, accusatolo di aver disobbedito agli ordini ricevuti, gli comminò 40 giorni di arresto. Immediata la replica di Morosini, che il 5 agosto si rivolse al Senato rivendicando a sé il merito principale della vittoria e stigmatizzando il tiepido comportamento del capitano generale.
Si inserisce con ogni probabilità in questo contrasto, che da tattico sublimava ormai nel politico, la mossa compiuta il 10 agosto dal padre di Morosini, il quale a Venezia dichiarò al Segretario alle voci che il figlio eleggeva per suo domicilio il sestiere di Castello, in luogo di quello di S. Marco. La manovra ventilava l’ipotesi di un abbandono della carriera militare, da parte di Morosini, per volgersi a quella politica, prospettando la sua candidatura a consigliere ducale. E in effetti Morosini sarebbe stato eletto all’alta carica il 14 aprile 1653, senonché non l’avrebbe esercitata, avendo ottenuto nel frattempo da Mocenigo una ritrattazione ufficiale delle accuse mossegli, seguita dalla nomina (25 febbraio 1652) a provveditore generale d’Armata, che in pratica equivaleva a comandante della flotta. Per quell’anno e il successivo 1653 non ci furono battaglie, ma solo azioni di saccheggio, razzie e incursioni nelle coste dell’Egeo, ove Morosini operò battendone le acque da Gallipoli alle Cicladi.
Gli scontri ripresero nella tarda primavera del 1654, allorché i veneziani inviarono una squadra a bloccare gli Stretti, per impedire alle navi turche di mandare soccorsi alle loro truppe impegnate a Candia. Il 13 maggio ci fu un combattimento ai Dardanelli, cui prese parte Morosini con otto galere; i turchi subirono molte perdite, ma riuscirono a guadagnare il mare aperto e raggiungere Creta. Poco tempo dopo Mocenigo morì, mentre era in corso la campagna militare, e Morosini assunse l’interim del comando supremo; poté così dar corpo alla propria strategia, che consisteva nel colpire le coste nemiche mediante operazioni anfibie con unità a remi. Un’azione di logoramento, insomma, piuttosto che volta a chiudere la partita in un sol colpo, mirando al cuore dell’impero, a Costantinopoli. Pertanto si dedicò a una guerra di distruzione nell’Arcipelago, catturando navi turche, operando sbarchi improvvisi, guastando i depositi dei viveri destinati a rifornire l’armata nemica.
All’inizio della campagna del 1655, il 5 maggio, morì di febbri anche il nuovo capitano generale da Mar, Girolamo Foscarini; una settimana dopo Morosini fu allontanato dal comando delle operazioni navali e nominato provveditore generale delle armi a Candia. Era chiaramente un atto di sfiducia nei confronti della strategia da lui impressa al conflitto, tanto più che di lì a poco, il 10 giugno 1655, fu eletto capitano generale da Mar Lorenzo Marcello, fautore della manovra tesa a bloccare gli Stretti. Senonché un anno dopo (26 giugno 1656) Marcello morì in battaglia proprio ai Dardanelli, e quindi a Morosini sembrò riaprirsi la prospettiva di assumere il generalato del Mare. In Senato però le riserve nei suoi confronti non erano sopite e l’onore toccò al più giovane Lazzaro Mocenigo, che nello scontro si era coperto di gloria. Tanto più che a portare a Venezia la notizia della vittoria ai Dardanelli era stato proprio Mocenigo, a bordo di una delle sultane catturate e privo dell’occhio destro, perso appunto nel corso della battaglia; accolto come un eroe, venne eletto al grado supremo fra l’entusiasmo generale. Aveva appena 32 anni, per lui fu un trionfo, per Morosini – già comandante ad interim – uno smacco clamoroso.
Ma una costante della sua vita fu di essere sorretto dalla fortuna: nella successiva campagna, il 19 luglio 1657, Lazzaro Mocenigo cadde sugli Stretti e la sua morte segnò la fine della strategia del blocco, perché stavolta il comando generale toccò a Morosini, che vi fu eletto il 30 agosto 1657. In coerenza con la sua visione del conflitto, gli anni che seguirono non furono segnati da grandi battaglie, ma solo da colpi di mano e incursioni nelle isole dell’Egeo e nel Peloponneso. Solo nell’estate del 1660 Morosini, forte anche dell’appoggio di un contingente francese guidato da Almerigo d’Este, tentò di riconquistare Canea, ma l’operazione si concluse con un fallimento. Morosini incolpò dell’insuccesso il provveditore dell’Armata Antonio Barbaro, con cui non correva buon sangue dal 1651, sin dai contrasti che avevano opposto Morosini ad Alvise Mocenigo. Barbaro ricorse a Venezia, accusando a sua volta l’accusatore di peculato, ma la Quarantia finì per assolvere Morosini, sia pure per un solo voto. In ogni caso, il 30 agosto 1660 Morosini uscì di carica e lasciò l’armata marittima; due mesi dopo (31 ottobre), fu eletto podestà di Padova: la carica, allontanandolo da Venezia, suonava come una punizione morale, ma egli riuscì a ottenere la dispensa. Il prezzo fu un biennio di latitanza dalla politica attiva; nei registri del Segretario alle voci il suo nome ricompare solo il 14 giugno 1663, allorché fu eletto provveditore in Friuli.
In quel tempo i turchi stavano marciando verso la capitale dell’Ungheria, l’attuale Esztergom, e si rendeva necessario rafforzare le difese del confine orientale, attorno a Palmanova: compito evidentemente poco gradito, visto che già due patrizi avevano rifiutato. Ma la vittoria di Montecuccoli alla Raab, nell’agosto 1664, chiuse il fronte terrestre contro i turchi e riaprì quello marittimo. Pertanto, dopo esser stato consigliere di Castello dal 1° giugno 1665 al 31 maggio 1666, il 3 dicembre Morosini fu eletto provveditore d’Armata. Rifiutò, apparendogli la nomina riduttiva rispetto alla carica, precedentemente ricoperta, di capitano generale da Mar; nuovamente eletto provveditore d’Armata il 29 settembre 1666, accettò per non compromettere una probabile nomina al grado supremo. Si trattava, in fondo, di offrire al Senato la soddisfazione di vedersi obbedito, mentre il gran visir Ahmed Köprülü stava sferrando l’offensiva finale contro Candia e la guerra anglo-olandese del 1664-67 rendeva difficile, per la Repubblica, noleggiarne le navi.
Infatti, di fronte all’aumentata minaccia, il 2 gennaio 1667 Morosini fu nominato, per la seconda volta, capitano generale da Mar e con l’approssimarsi della buona stagione si portò a Candia, ad affrontare Köprülü. Ma non solo: anche Antonio Barbaro, che dell’isola era provveditore generale; quello stesso Barbaro con cui Morosini aveva una lunga inimicizia; i contrasti infatti non tardarono a manifestarsi, anche per la propensione di quest’ultimo a privilegiare la difesa di Candia rispetto alla guerra marittima, sbarcando dalle galere parte dell’equipaggio e dell’artiglieria.
Pertanto l’unica battaglia navale sostenuta da Morosini avvenne nella notte fra l’8 e il 9 marzo 1668 a Standia, non lontano dalle coste cretesi, e fu una vittoria che gli valse il titolo di cavaliere di S. Marco. Dopo di che, nonostante i rinforzi francesi guidati da François d’Aubusson, duca di Le Feuillade, e da Philippe de Montault de Bénac, duca di Navailles, che però non fecero buona prova, il cerchio si strinse sempre più attorno alla città assediata, finché Morosini, senza previa autorizzazione del Senato, patteggiò la resa il 6 settembre 1669. Finì così un atroce conflitto protrattosi per quasi 25 anni; Morosini aveva oltrepassato i poteri conferitigli, ma aveva altresì sbloccato una situazione irrisolvibile sul piano militare, ottenendo per Venezia il possesso di tre basi e salvando i tesori artistici e gli archivi di una dominazione che risaliva al 1204.
Il 20 settembre il Senato, ancora ignaro della conclusione della guerra, gli aveva conferito la dignità procuratoria de Supra, il che non impedì che, dopo il rimpatrio, a suo carico fosse istruito un processo (19 settembre 1670), dietro iniziativa di Antonio Correr, amico di quell’Antonio Barbaro che Morosini aveva tante volte pesantemente conculcato. Fu accusato di ruberìe, malversazioni, prevaricazioni, disobbedienza, di essere assetato tanto di gloria quanto di denaro: tutti motivi ricorrenti nella carriera di Morosini, fortemente segnata da luci e ombre; in realtà, a pesare era anche l’opinione pubblica veneziana che, accusandolo, voleva forse inconsciamente rimuovere l’umiliazione sofferta con la perdita dell’isola. Fu nominato un inquisitore, Francesco Erizzo, per valutare la fondatezza delle accuse e il patriziato si divise fra colpevolisti e innocentisti; il dibattito si protrasse per mesi; emerse una quantità impressionante di ammanchi di cassa, ma anche di patrizi coinvolti nelle ruberie, le famiglie dei quali non tardarono a esercitare pressioni per coprirne la condotta. E così il Senato finì per proclamare l’innocenza degli imputati.
In seguito Morosini fu più volte provveditore all’Armar (7 novembre 1671 - 6 novembre 1672; 18 luglio 1676 - 17 luglio 1677; 23 gennaio 1683 - 22 gennaio 1684); quindi provveditore alle Artiglierie dal 28 ottobre 1679 al 27 ottobre 1680; provveditore sopra Beni Inculti dal 31 dicembre 1680 al 30 dicembre 1682: incarico, quest’ultimo, cui dedicò non troppe cure, visto che quasi contestualmente (5 marzo 1681) era stato eletto fra i deputati sopra le fortificazioni in Terraferma. Assieme ai colleghi Andrea Corner e Andrea Valier visitò pertanto le fortezze occidentali di Peschiera, Legnago, Orzinuovi e Crema, dove stavano effettuandosi i lavori progettati da Bartolomeo Grimaldi. Fu eletto provveditore generale in Friuli il 15 luglio 1683, quando più pressante si faceva l’offensiva ottomana contro Vienna. Qualche mese dopo, constatato l’insuccesso turco, Venezia dichiarò guerra alla Porta e l’11 marzo 1684 Morosini fu eletto capitano generale da Mar. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, in Senato egli non faceva parte dell’ala interventista, favorevole cioè a una lotta a oltranza contro l’impero ottomano, ma caldeggiava un impiego limitato della flotta, volto soprattutto a interrompere i flussi dei rifornimenti turchi dall’Anatolia ai Balcani. Forse proprio quest’atteggiamento improntato a moderazione gli valse la nomina. Così Morosini, fedele alla sua antica strategia, non cercò di bloccare gli Stretti (nonostante la flotta ottomana versasse in condizioni peggiori rispetto a quindici anni prima), ma rivolse i suoi sforzi contro obiettivi più circoscritti e vicini, contro le isole ionie e il Peloponneso: il 6 agosto 1684 conquistò Santa Maura, il 29 settembre Prevesa. L’anno dopo fu la volta di Corone (11 agosto 1685), quindi di Calamata e dell’intera Maina.
A questo punto le vicende di Morosini fanno tutt’uno con la storia della Serenissima, con l’ultima pagina delle sue glorie militari. Abbandonato il progetto di riconquistare Candia, il consiglio di guerra da lui presieduto decise di volgersi contro la Morea, che nel corso della campagna del 1687 le truppe di Otto Wilhelm von Königsmark presero con rapida progressione. Un successo tanto vistoso ebbe a Venezia un impatto galvanizzante: d’un tratto, con sorprendente facilità, sembrava risorgere l’inestinguibile sogno dell’impero marittimo, di una rinnovata presenza della Serenissima in Levante. Al comandante vittorioso il Senato decretò, unico esempio, l’erezione di un busto in bronzo nella sala d’armi del Consiglio dei Dieci, con l’iscrizione Francisco Mauroceno Peloponnesiaco adhuc viventi. L’offensiva proseguì contro Atene, dove Morosini fece il suo ingresso il 29 settembre, dopo che una palla di cannone aveva sciaguratamente fatto saltare il Partenone, che con non minor follia i turchi avevano adibito a polveriera. Quale trofeo di tanta impresa, Morosini inviò a Venezia i grandi leoni marmorei tuttora collocati accanto alla porta dell’Arsenale.
All’aprirsi della nuova campagna, il 3 aprile 1688 quello che ormai era noto come il Peloponnesiaco fu eletto doge all’unanimità e al primo scrutinio; raggiunse così l’apice della fortuna militare e politica, che però da allora non avrebbe più conosciuto vistosi successi. Nel giugno 1688 fallì infatti un colpo di mano su Candia, in luglio non riuscì ad assicurarsi Negroponte, l’Eubea dei classici, il cui possesso era indispensabile per la sicurezza dell’Attica. Al fallimento dell’impresa contribuì lo scoppio della peste, che si portò via lo stesso generale Königsmarck, il 15 settembre. Morosini dovette ripiegare sulla Morea, badando a rafforzarne le difese e varando un primo embrione di quella struttura amministrativa cui il Senato avrebbe poi rivolto inusitate attenzioni; meno attivo fu invece il suo comportamento sul piano politico, dove concesse ai greci larghi spazi di autogoverno, ma senza spingersi a costituire la Maina in principato sotto un capo locale, Liberio Garachari (Liberachi), come la popolazione auspicava, la qual cosa forse avrebbe potuto dare inizio a uno sradicamento della sovranità turca in tutta la penisola ellenica.
Nel dicembre 1688 Morosini si ammalò e solo nel marzo successivo fu in grado di riprendere il comando, nel frattempo affidato a Girolamo Corner; in autunno chiese di rimpatriare, dopo aver consegnato il bastone del comando ad Andrea Pisani. Giunse al Lido l’11 gennaio 1690, accolto dal bucintoro, da una folla di imbarcazioni che lo scortarono sino a Palazzo Ducale, passando fra salve di artiglieria sotto un arco trionfale.
Erano onori certamente meritati, ma altresì sollecitati da Morosini stesso, la cui ambizione fu grandissima, sì da sconfinare nella vanagloria e sembrare insopportabile a molti esponenti del patriziato, laddove il popolo vide nel conquistatore della Morea soprattutto un eroe, la cui grandezza sembrava identificarsi con quella della patria. A Venezia Morosini badò a recuperare la salute e ad autoglorificarsi: il 25 novembre 1690, in qualità di doge, impreziosì lo stemma di famiglia con bastoni di comando, spade, croci savoiarde, gigli francesi, code di cavallo degli stendardi turchi, fanali delle galee affondate. Quindi pensò a un monumento celebrativo sulla facciata della chiesa di S. Vidal, che sorge di fronte al suo palazzo, il cui maestoso portale affidò all’architetto Antonio Gaspari, così come la tomba, che spicca in mezzo al pavimento della chiesa di S. Stefano.
Ma in Levante le operazioni militari ristagnavano e il Senato, per risollevare il morale dell’armata, elesse per la quarta volta Morosini capitano generale da Mar. Era il 25 novembre 1692, salpò da Venezia il 26 maggio 1693; aveva 74 anni, ormai il vecchio guerriero non era che l’ombra di se stesso: dei tratti giovanili conservava la fronte spaziosa e gli occhi azzurri, ma non più l’energia e la statura, un tempo superiori alla media. Gli unici risultati della sua presenza si ridussero pertanto alla conquista di Salamina e di qualche piazza minore, mentre la febbre lo costringeva sempre più spesso a letto; così trascorse i suoi ultimi mesi.
Morì a Nauplia il 6 gennaio 1694.
Il Senato decretò l’erezione, nella sala dello Scrutinio, di un arco marmoreo recante istoriate le sue imprese.
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