MOLIN, Francesco
MOLIN, Francesco. – Nacque a Venezia il 21 apr. 1575 da Marino di Domenico – del ramo «del Molin rosso» cui s’attribuiscono ascendenze mantovane – e da Paola di Francesco Barbarigo.
Rimasto presto orfano del padre, riceve con il fratello maggiore Domenico, una prima educazione dai somaschi. Entrambi i fratelli, condividendo la dimora paterna e una modesta villa in Friuli e beneficiando d’una rendita annua di 1200 ducati, optano per il celibato, quasi più compatibile con l’impegno pubblico, assolto da Domenico a Venezia, e quivi coltivando anche gli studi, mentre il M., che a questi non pare propenso, proietta la propria esistenza fuori, «inter fluctus» e «Martis fulmina».
«Patron all’Arsenal», il M. – nella tensione dei rapporti con Roma, a fianco della quale si paventano mosse spagnole in mare – è nella lista, del 20 apr. 1606, dei 30 virtuali governatori di galee sottili mobilitabili in caso di necessità. Capitano contro gli scocchi, nel marzo-ottobre 1608 pattuglia l’Adriatico. Con la superiore qualifica di capitano in Golfo, quanto meno dal marzo del 1609 (malgrado il naufragio – con perdite di uomini e di carico e rischio della sua stessa vita – della galea dove è imbarcato, nei pressi di Zara, che lo costringe a tornare a Venezia per ripartirne, il 6 maggio, su una nuova galea) alla fine del 1612, è costretto in un continuo andirivieni da Parenzo a Zara, da Spalato a Corfù, da Cherso a Chioggia, da Lesina a Goro. In tale compito il M. è chiamato a intimidire le velleità pontificie a non rispettare la giurisdizione adriatica, alla perlustrazione degli «scogli» ricetto dei corsari, al trasporto di somme di denaro e di «biscotto» per l’armata, alla tutela della navigazione mercantile, alla caccia al fantasmatico «galeon savoiardo» che, intenzionato a suscitare nei Balcani la rivolta antiturca vagheggiata dal duca Carlo di Nevers, nell’agosto del 1611 va «volteggiando» imprendibile con gran preoccupazione di Ragusa.
Gettata l’ancora, nell’aprile del 1610, ad Ancona, il M., nella visita di cortesia al vescovo, il cardinale Carlo Conti, allorché l’ospite cerca di coinvolgerlo in un «ragionamento» sulle recenti «difficoltà» tra Paolo V e la Repubblica, obietta essere «profession» sua quella del «soldato» e «marinaro», non del «giurista» e «theologo». È sin brusco il M. – che, sia pure indirettamente, tramite il fratello Domenico di Sarpi sodale, del magistero del servita risente – con la «predica» del cardinale che, perorando la «restitutione» dei gesuiti in terra veneta, ventila l’opportunità, pei rampolli del patriziato marciano, di frequentare il collegio gesuitico anconetano: Venezia, prorompe il M., sa provvedere «ottimamente» all’educazione della propria gioventù senza delegarla ad altri, specie ai gesuiti da lei cacciati durante l’Interdetto.
Dal maggio al dicembre 1613, il M. è provveditore straordinario a Orzinuovi; il 2 dic. 1615, è dei 41 elettori del doge G. Bembo; dal 2 febbraio all’11 luglio 1616 è provveditore sopra il lago di Garda.
Quasi di riposo i mesi trascorsi dal M. soprattutto a Peschiera. A parte qualche voce di intenzioni aggressive del governatore di Milano, il marchese di Villafranca don Pedro da Toledo Osorio, e di concentramenti di truppe voluti dall’arciduca Massimiliano, nulla turba la quiete gardesana. Per fortuna non si concreta alcuna minaccia di offensiva da parte dei «finitimi arciducali», dato che Sirmione e Malcesine, prive di «armi, munitioni» e adeguato presidiamento di truppe, non forniscono la benché minima garanzia «di qualunque difesa».
Più impegnativo l’incarico, dall’ottobre 1616 all’aprile 1618, di commissario in Golfo e Corfù prima e, dal 24 luglio 1617, di commissario in armata. «Travagliosissima carica» questa del M. che, validamente affiancato da Giacomo Lazzari, si scontra pressoché quotidianamente, a mano a mano che la «revisione» si fa approfondita, con i «disordini», con la «frauda», con l’«infedeltà», persino con le «enormi e scelerate operazioni» della «rapacità» più malversante insita nella cattiva organizzazione di un’amministrazione che offre il destro alle ruberie di un personale disonesto.
Deprecabile faciloneria è imputabile anche il provveditore generale da Mar con autorità di capitano generale da Mar Lorenzo Venier che, all’inizio del 1618, pretende dal M. l’avallo – con mandati per migliaia di ducati il cui «esborso» è già irregolarmente avvenuto (con speculazioni sul cambio, con favori a «particolari») – di ingenti pagamenti effettuati senza autorizzazioni, senza pezze giustificative, addirittura senza rilascio di ricevute di pagamento. Fermo il M. nel non sottostare a una pretesa lesiva della normativa stabilita dal Senato. Un’intollerabile affronto per Venier che – detentore del «governo» dell’intera «militia maritima» – anche al M. «comanda», essendo questi tenuto a «obedire». In virtù dell’applicazione del rigore amministrativo, Lazzari, il «ragionato» del M., non consegna al «ragionato» di Venier, Giovambattista Badoer, i pretesi mandati a firma del Molin. Rigonfio d’odio vendicativo Venier costringe il M. agli arresti nella galera dov’è imbarcato, allora stazionante nelle acque di Curzola. Seriamente ammalato il M. non può sbarcare per curarsi. Donde, da parte sua, l’accusa a Venier d’andar procurando, «a forza d’incomodi, di patimenti», di farlo perire «miseramente». Né, con l’andar dei giorni, Venier depone la propria ira: «continua … nel sdegno», scrive il 31 gennaio il M. al senato, non «rallenta [ …] le persecutioni», minaccia la morte a lui e pure a Lazzari. Disposto a dar la vita per la Serenissima il M., ma a «dir il vero», non in «questo modo», che «gli pesa molto»: un conto è morire combattendo per Venezia, un conto soccombere per la «perfidia» d’un superiore nella «revisione delli conti» del quale sono emersi «debitori di grosse sume», «alcuni» addirittura suoi «congiunti in sangue». Gli si conceda, almeno, chiede il M., «la tante volte ricercata gratia di ripatriare».
Al M. è concesso il rientro: il 24 ag. 1618, salpa per Umago; a sostituirlo nella carica è Bernardo Venier, parente di quel Lorenzo che lo avrebbe voluto morto perché troppo scrutinante nei propri conti. Un po’ pilatesco, Palazzo ducale sul grave caso sorvola. Non appura la fondatezza o meno delle accuse del M.: se false avrebbe dovuto punirlo, se vere avrebbe dovuto infliggere un castigo esemplare a Venier. Comunque il proseguire della carriera del M. – che, il 3-4 genn. 1620, figura tra i 9 patrizi eletti procuratori del convento domenicano dei Ss. Giovanni e Paolo – induce a supporre si sia ritenuto non abbia denunciato a vanvera. Eletto, il 7 dic. 1622, provveditor generale in Dalmazia e Albania, lo attendono, dall’aprile 1623, oltre due anni di «perpetue fatiche». Riscontrabile lungo il provveditorato del M., nel quale gli è segretario Antonio Zon, una certa animosità contro gli «abusi e pessime introduttioni de’ preti e vescovi», a prima vista consonante coll’impostazione dei consulti sarpiani.
Tra le altre vicende di particolare rilevanza è quella che vede il M. contrapposto a un decreto sulle «monache» dell’arcivescovo di Spalato Sforza Ponzoni, che il M. giudica un «contravenire alla volontà pubblica, agl’atti de’ precessori e alla stessa consuetudine antica». O perché ignaro o di proposito il M. non si chiede se, dopo il concilio di Trento, il vescovo non abbia l’autorità di correggere antecedenti abitudini e se l’intercettazione dei provvedimenti episcopali spetti al provveditore, specie quando questi – è il caso del M. – si consideri digiuno di teologia e di diritto, autoerigendosi, ciò malgrado, a custode intransigente di una tradizione pre-tridentina.
Il 2 giugno 1625 il Senato decide di sollevarlo dal «peso» del «generalato» in Dalmazia e al suo posto ancora una volta è preposto Bernardo Venier. A partire dal 14 giugno le istruzioni da Venezia si rivolgono a lui quale «provveditor generale», cui competono il «comando dell’armata» ovunque e in particolare nelle «isole del Levante» e l’inoltro di mezzi e navi a Candia. Il 23 luglio, il Senato gli ordina di intimare ai «vascelli» carichi di «grani» a «servitio di paesi esteri» di portarsi «con il carico» a Venezia. In un’altra istruzione senatoria dell’8 dicembre il ruolo del M. pare ridimensionato dall’intestazione, che riporta riduttivamente provveditor generale «esistente a Piran», probabile base per le sue operazioni di sorveglianza.
Carica ben più prestigiosa quella successiva di provveditore generale e inquisitore nel regno di Candia che il M., ripartito da Venezia nel maggio del 1627, assume realmente solo nell’autunno inoltrato, dopo essersi a lungo trattenuto, per ordine del Senato, nelle isole di Corfù, Cefalonia e S. Mauro. Lo accompagna il segretario Giovanbattista Ballarino, alla cui penna s’attribuisce la stesura di oltre mille lettere al Senato e di altre 2300 a firma del M. alle autorità locali dell’isola, nonché dell’elaborata relazione presentata dal M. al rientro. Il M. si trattiene nell’isola fino al dicembre 1631, non risparmiandosi nell’adempimento dei propri compiti che comportano: l’acquisto di «formenti» con la conseguente «estrattione di grani dal paese turchesco»; le «levate di genti»; la sorveglianza sugli arsenali; la lista delle galee «habili alla navigatione» con l’assegnazione della relativa «marinarezza»; l’«armamento» delle 4 galee ordinarie del regno; l’attenzione alle saline di Suda e Spinalonga; la revisione delle cernide; l’approvvigionamento dei fondaci; il controllo della contabilità di navi e galee; l’allertamento contro l’«insolente ardire» dei vascelli maltesi e «ponentini» arrecanti insidie alla navigazione.
Particolare impegno comporta l’ispezione dell’intera isola, volta ad appurare il funzionamento delle amministrazioni locali di Rettimo e Canea, della fortezza di Grabusse e di Castel Chissamo, di Bicorno e Urinis, ovunque applicandosi al «sollevo di qualsivoglia oppressione et aggravio», al ripristino, almeno nelle intenzioni, della giustizia negata. E, laddove l’abate ortodosso della Canea si adopera a diffondere «libri greci» stampati a Costantinopoli per volontà del patriarca Cirillo Lucaris, il M., fatta propria la contrarietà dell’arcivescovo latino Luca Stella, si attiva a sequestrarli perché polemicamente anticattolici. Uno zelo sin travalicante a danno del rito greco nell’isola maggioritario, segnato da una sorta di interventismo che vien da dire di Stato nei confronti di iniziative riconducibili alla S. Sede, da questa se non promosse, per lo meno autorizzate. Sicché il M. non esita a contrastare duramente il domenicano padre Agostino da Venezia che, giunto in veste di «vicario et visitatore apostolico», s’è messo «senza auttorità di farlo» – con il che M. pare intendere competa a sé autorizzare, convalidare – a «introddur novità pregiudicialissime». Il M. mostra grande apprensione pei «disegni dei gesuiti» i quali – con il «sagace ardimento» delle «loro maniere solite» – macchinano l’erezione d’un collegio nell’isola di Nixia.
Tornato a Venezia, l’11 genn. 1634 è nominato, al posto del defunto Simone Contarini, procuratore di S. Marco de supra e, il 28 gennaio, deputato alla basilica di S. Maria della Salute. L’anno seguente muore l’amato fratello Domenico, il quale, nel testamento del 28 luglio 1630, lo aveva designato unico erede ed esecutore testamentario. Seguono una serie di cariche: il 4 maggio 1635 è provveditore ai monasteri; il 7 giugno 1636 inquisitore sopra il campadego; il 1° apr. 1640 e il 1° apr. 1643 cassiere della procuratia di S. Marco de supra; il 31 luglio 1644 di nuovo provveditore ai monasteri.
Nel marzo 1645, il M. – ancorché settantenne e nel fisico provato – è nominato, proprio mentre paventa l’aggressione ottomana, provveditore generale da Mar con autorità «suprema» di capitano generale. Partito in aprile – ma non, come avrebbe voluto, con Ballarino al proprio fianco allora segretario del Consiglio dei dieci e come tale tenuto a non «passar ad altra carica» fuori Venezia – ha come segretario Francesco Pauluzzi, del cui servizio resta, comunque, soddisfatto. Fatta sosta a Lesina e Zara, prosegue, per le bocche di Cattaro, sino a Corfù, dove giunge il 28 maggio, qui particolarmente impegnato nella «revisione» delle galee. Ne parte il 14 giugno, ma nel proseguire della navigazione, a metà luglio, un violentissimo attacco di podagra gli ostacola l’esercizio del comando. Il suo operato – mentre il 23 giugno il Turco sbarca a Candia e il 22 agosto cade la Canea – è ispirato da una cautela sin eccessiva: tant’è che, per evitare le insidie del Turco, il M. non si spinge nemmeno sino a Zante, pensa soprattutto alla sicurezza di Corfù, sordo alle invocazioni di soccorso inviategli dal provveditore generale a Candia, Andrea Corner, e dal provveditore della Canea, Andrea Navagero. La direzione delle operazioni – mentre egli, autorizzato il 29 agosto dal Senato, rientra a Venezia, qui presentando, il 21 settembre, la relazione – passa a Girolamo Morosini.
Morto, il 3 genn. 1646, il doge Francesco Erizzo, il 20 – dopo 23 scrutini e un’energica ammonizione della Signoria a non protrarre ulteriormente i tempi – il M. gli subentra. Purtroppo la podagra continua a torturarlo: penoso per lui presenziare alle sedute e alle tante cerimonie e sovente costretto a disertarle. Ciò non toglie che – pur nel diradarsi coatto della sua presenza fisica e pur nello stingersi dei tratti individuali richiesto dalla carica dogale – nel dogado del M. sia percepibile qualche accento personale, quale il deciso suo schierarsi – di contro alle perplessità e alle resistenze dei patrizi paventanti la contaminazione dell’intrusione di famiglie estranee all’autoselezionato loro ceto d’appartenenza – per l’ammissione al patriziato marciano di elementi, in genere nobili di terraferma e cittadini abbienti, disposti al cospicuo versamento di 100.000 ducati. Urgenza primaria, per il M., non quella del sangue incontaminato del ceto ottimatizio, ma quella, pur di fronteggiare il Turco, di far cassa, e quella di guadagnare alla Repubblica, altrimenti isolata, la solidarietà almeno della Francia; il 28 nov. 1648 è conferita da parte del M., con l’unanimità del Senato e del Maggior Consiglio, al cardinale Mazzarino l’aggregazione alla nobiltà marciana. Notoria, intanto, la sua propensione ad abbondanti libagioni, concomitante all’accentuarsi d’una devozione che l’induce a prolungate genuflessioni oranti e a enfatizzare – con il conio di un’osella nel cui recto figura inginocchiato al cospetto di s. Marco e s. Antonio – la decisione, del 29 febbr. 1652, di erigere un altare in onore di s. Antonio nella basilica della Salute, allora in costruzione. La basilica patavina del santo accoglie la sua richiesta di una reliquia, il cui arrivo è celebrato, il 13 giugno, da una grandiosa processione, cui – malato – non può partecipare.
Il M. morì a Venezia il 28 febbr. 1655 e fu sepolto accanto al fratello Domenico nel chiostro del convento agostiniano di S. Stefano, nella cui chiesa, ancora nel Quattrocento, la famiglia Molin aveva fatto erigere un altare ligneo dedicato a s. Girolamo.
Come da lui disposto per testamento suoi eredi furono i discendenti di un suo prozio paterno Pietro Molin e Alvise Molin di Alessandro, appena liberato dal bando per l’assassinio della moglie.
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