MOLES, Francesco
– Nacque probabilmente a Napoli da Diego e da Adriana Cacciottoli nella prima metà del Seicento; ebbe almeno due fratelli: Annibale, comandante delle truppe napoletane a Milano, impegnato nell’assedio di Messina e nel 1686 in Grecia, e Antonio.
Gli agi familiari lo indirizzarono alla toga piuttosto che all’avvocatura. Intraprese, così, una precoce carriera partendo dalle regie udienze: è improbabile la sua presenza in Capitanata già nel 1640 o 1643, incerta in quella di Principato Ultra dal 3 ag. 1654 al giugno 1655; forse il cursus prese avvio da Salerno, dove fu uditore e fiscale. Rientrato a Napoli, divenne avvocato dei poveri.
Intanto, il 25 febbr. 1664, sposò Maria Orsini dei conti di Oppido (morta il 25 dic. 1697). Ne nacquero il 20 maggio 1666 Diego, poi militare di stanza a Milano (dove capeggiò le truppe napoletane), in Catalogna (dove si trovava ancora nel 1692) e, sino al marzo 1694, a Venezia; il 29 genn. 1677 Caterina, sposata il 29 marzo 1693 a Fulvio Costanzo principe di Colle d’Anchise; il 10 maggio 1668 Giovanni, morto a Parete il 6 dic. 1717, che dal matrimonio celebrato nei primi anni Ottanta con Maddalena Trivulzio ebbe nel 1690 Carlo Francesco, poi cappuccino e autore di un Discorso intorno alle imprese (Napoli 1731). All’abitazione di Chiaja, il futuro palazzo Sirignano dove ancora risiedeva nell’estate 1670, il M. avrebbe aggiunto il possesso d’un sontuoso edificio in via Toledo. Il 2 apr. 1675 avrebbe ottenuto l’assenso regio per l’acquisto da Marino Caracciolo, principe di Torella, del feudo di Parete. Il titolo sarebbe stato concesso il successivo 15 aprile.
Il 23 maggio 1666, «ancor molto giovane» (de Fortis, p. 93), divenne giudice criminale della Gran Corte della Vicaria. Decorrono forse da questo momento i «trentasei anni continui» di servizio «in tante importantissime cariche» che avrebbe orgogliosamente rivendicato (Napoli, Biblioteca Nazionale, Fondo S. Martino, 266: Manifesto, f. 5r).
Da giudice di Vicaria, oltre a pubblicare nel 1670 le Decisiones postume del bisnonno Annibale, conquistò la fiducia del viceré Pietro Antonio d’Aragona. Questi lo incaricò, nel maggio 1668, di annullare il decreto col quale il Seggio di Capuana, avvalendosi d’una presunta prerogativa, aveva privato «di voce attiva e passiva» il governatore dell’Annunziata, il duca della Torre Ascanio Filomarino: il M. ritenne decaduto il potere del Sedile di rimuovere e di aggregare, e fece incarcerare alcuni nobili, tra vibranti polemiche. L’episodio sarebbe stato piú tardi considerato all’origine dell’organismo denominato Deputazione dei pregiudizi.
Nel febbraio 1671 il M. deteneva «l’officio di apposentatore», funzionario preposto agli alloggiamenti. A marzo d’Aragona lo designò profiscale della Vicaria, in luogo di Ignazio Provenzale, in missione in Puglia. Ma A. Àlvarez marchese di Astorga, prossimo a insediarsi come viceré, lo destinò a commissario di Campagna, in sostituzione dell’uditore generale dell’esercito Antonio de Silva. In questa veste comunque il M. si rivelò energico nel reprimere la delinquenza intorno a Napoli.
Sfumata, alla fine del 1672, la cooptazione nel Sacro Consiglio, un privilegio del 26 nov. 1673 lo nominò presidente letrado della Regia Camera della Sommaria al posto del defunto G. Domenico Astuto. In questa veste affrontò, nell’estate del 1675, alcune spinose questioni connesse all’assedio di Messina: a luglio coordinò il computo delle spese sostenute per «l’entrata» in guerra; il 30 agosto, in qualità di fiscale, convinse il collaterale integrato ad approvare un compromesso tra il governo, che si accingeva a coniare un’ingente quantità di denaro per arginare la crisi bellica, e la Città, che ottenne di esercitare «l’assistenza nella zecca» sino a nuova determinazione nel Consiglio d’Italia (Galasso, I, p. 226).
Ai primi di marzo del 1677 la Sommaria discusse una causa in cui era coinvolto Vincenzo Tuttavilla, duca di Calabritto e maestro di campo generale. Questi, nominato viceré di Sardegna, sosteneva di non poter accettare la carica se prima la lite non fosse stata risolta: per dilatare i tempi, presentò istanza di ricusazione di «quasi tutto il tribunale» e si adoperò affinché il M. fosse rimosso (Fuidoro, IV, pp. 104-105). La manovra andò a buon fine e il 25 marzo 1677 il M. partí «per preside di Trani» (Bulifon): forse corrotto dal Tuttavilla, il viceré F.J. Faxardo, marchese di Los Vélez, «per mandarlo piú onorevolmente» simulò una missione riservata e gli promise di «farlo ritornare ben presto» (Fuidoro, IV, p. 107).
In Puglia il M. si fece valere. Dapprima ricondusse la provincia di Trani a «estado conveniente» (Ascione, p. 350, n. 361). All’inizio del 1678 assunse per un anno il governo della Dogana di Foggia: eseguendo direttive impartite il 21 maggio da Los Vélez, emanò il 30 luglio un bando che vietava l’esazione dei diritti di passaggio e comminava ai contravventori, baroni inclusi, sanzioni che arrivavano sino al sequestro della giurisdizione.
Appariva evidente che il M. godeva a Madrid di appoggi piú solidi di quelli napoletani. Quando, nel settembre 1677, il presidente Antonio Fiorillo fu nominato reggente del Consiglio d’Italia, una lettera di Carlo II espresse al viceré «risentimento» perché non erano stati segnalati al sovrano «ministri da bene e meritevoli», tra i quali appunto il M., inviato fuori Napoli (ribadiva Fuidoro, IV, p. 161) «senza necessità precisa».
Nel maggio 1678 la Junta para Alivio propose il suo nome – accettato dal sovrano – quale componente della Junta de Visita di Milano. Alla fine di novembre, salpava da Trani diretto a Venezia (dove nei primi giorni del 1679 fu accolto dal Senato), per poi proseguire alla volta di Milano.
Parrino e Giannone equipararono la missione milanese del M. alle visite di Danese Casati a Napoli (dall’aprile 1679) e di Pietro Valero a Palermo. In realtà (come dimostra Álvarez-Ossorio Alvariño, La república, pp. 241 e 312) solo dopo il marzo 1680 Carlo II e il suo primo ministro J.F. de la Cerda y Portocarrero, duca di Medinacoeli, dichiararono estinta la Junta de Visita e designarono il M. visitatore unico di Milano, discostandosi dalla terna suggerita dal Consejo de Italia. La scelta comprova il protagonismo politico di sudditi non castigliani sotto il governo di Carlo II. L’ascesa del M. pareva ora irresistibile. Nel novembre 1679 J.T. Henríquez de Cabrera y Toledo, conte di Melgar, governatore di Milano, scandalizzò il Consiglio d’Italia appellandosi ai supremi poteri del re perché nominasse il forastero M. nella piazza vacante di reggente per la provincia lombarda. La proposta fu respinta, ma il legame tra Melgar e il M. era destinato a rinsaldarsi, tanto che il secondo sarebbe stato per sempre marchiato come «creatura» del primo (Carafa, II, p. 781; I, p. 156).
L’ingresso nel Consiglio d’Italia fu rimandato di poco. Alla fine del luglio 1680 si diffuse a Napoli la notizia che il M., ancora visitatore a Milano e nel frattempo sostituito da Francesco Antonio Andreassi nella piazza di presidente della Sommaria, fosse stato promosso reggente a Madrid al posto del defunto Giacomo Capece Galeota. La nomina fu firmata il 22 luglio 1680. All’interno del Consejo il solo Andrea della Torre eccepí che il M. si era schierato al fianco dei titolati a proposito della questione dei gradi entro i quali dovesse consentirsi la successione feudale. Il M., che solo da poche settimane aveva cominciato a svolgere i compiti di visitatore a Milano, poté sbrigare nella capitale lombarda solo i carichi pendenti ed effettuare un’unica nomina, il 10 luglio 1680.
Il M. rimase reggente del Consiglio d’Italia dall’estate del 1680 al luglio del 1682, allorché gli subentrò Troiano Miroballo. In tale periodo si occupò di questioni giurisdizionali.
Nel marzo 1682 il Consiglio d’Italia propose a Carlo II una terna di candidati spagnoli per la carica di gran cancelliere dello Stato di Milano, lasciata libera da Vincenzo Calatayud y Toledo. Il sovrano replicò che avrebbe preferito un ministro che godesse della fiducia del governatore Melgar. La scelta di Medinacoeli cadde dunque sul M., che fu nominato il 29 luglio rompendo una tradizione che contemplava dalla fine del Cinquecento uno spagnolo in quella carica. Si rafforzava cosí il sodalizio tra Melgar e il M., a dispetto del ruolo di contrappeso del governatore che il gran cancelliere avrebbe dovuto svolgere. Prima di lasciare la Spagna, il M. ottenne che fosse «patteggiata però la sustituzione della prima piazza che fusse vacata in Napoli di presidente del Conseglio o di luogotenente della Camera» (D’Andrea, p. 219).
Anche in questa esperienza il destino del M. s’intrecciò a tal punto con quello di Melgar che la destituzione del governatore, nella primavera del 1686, lo costrinse a lasciare Milano. Sulla partenza influirono, «conforme se dice», le «inimicizie ivi contratte con persone potenti di quella città» e in particolare con i Trivulzio, una cui «dama», Maddalena, aveva sposato suo figlio Giovanni (Confuorto, I, pp. 166-167).
Il 16 sett. 1686 fu nominato reggente soprannumerario della Cancelleria napoletana «con el sueldo que gozò como Regente del Consejo de Italia» (Magdaleno, II, p. 609). Il titolo si spiegava «essendo il Collaterale pieno»: nell’occasione, tornò a parlarsi della promessa del re di conferirgli «una delle supreme cariche» non appena vacanti (Confuorto, I, p. 167).
Rientrato a Napoli il 30 novembre, la carriera del M. parve attraversare una fase di penombra. A dicembre, per indiretto effetto della protezione accordata dal viceré G. de Haro, marchese del Carpio, a Giuseppe Ledesma, gli toccò l’officio di grassiere (Galasso, I, p. 287). Con tale qualifica, nel febbraio 1688, appoggiò la proposta delle piazze nobili di proibire ai vaticali l’importazione di farina nella Capitale, «per rimediare» alla perniciosa abitudine di panificare in casa: ma gli si oppose «gagliardamente» e con successo l’eletto del Popolo Francesco d’Anna (Confuorto, I, p. 210). Nel luglio 1689 la denuncia di abusi presentatagli dai fornai della Panatica di Corte, che dipendeva dalla Sommaria, trascese in un violento scambio di contumelie nel Palazzo vicereale tra il luogotenente della Regia Camera Cotes e lo stesso M., il quale replicò «che come regente del Collaterale poteva ingerirsi in tutto» (ibid., pp. 269-270).
Il M. fu grassiere sino alla fine del 1689, ma anche episodi successivi rivelano un suo sbilanciamento a favore della nobiltà cittadina. Tale orientamento probabilmente gli valse, il 2 luglio 1689, l’aggregazione al seggio di Portanova. Per conto di quel Sedile, dal 6 maggio 1690 sino almeno al luglio dell'anno seguente, fu deputato del Tesoro di S. Gennaro.
Da reggente del collaterale il M. tenne «una strenua impostazione anticurialista» (Colapietra, pp. 67 nn. 105 e 71), che Nicolini (p. 180) attribuisce all’influenza di Nicola Caravita. Nel febbraio 1693, durante la «terza fase» del processo agli ateisti, si offrí con successo di mediare tra il viceré F. Benavides, conte di Santisteban, e la Deputazione delle piazze per il Sant’Officio, al fine di scongiurare lo scontro con il cardinale Giacomo Cantelmo.
L’ultimo segmento del viceregno Santisteban segnò l’ascesa d’un M. sempre piú influente e in dichiarato antagonismo con il presidente del Sacro Consiglio Felice Lanzina y Ulloa. Da qui la repentina giubilazione, ben argomentata da D’Andrea: «Dimostratosi in Collaterale troppo parziale della nobiltà, per levarlo da Napoli fu, con suo grandissimo dispiacere, mandato in Genova con titolo d’inviato» (p. 220). Anche Confuorto, nel gennaio 1694, addebitò a presunti emuli la responsabilità del trasferimento, apparentemente onorevole, del M. a Genova. Al momento di partire per Genova, provò invano a fingersi ammalato; alla fine, sotto minaccia d’invio alla galera e forse persuaso da Melgar, divenuto da tre anni Almirante de Castilla, dovette cedere e lasciò Napoli il 7 giugno 1694. La missione genovese non lo demoralizzò. Ai primi di febbraio 1695 si vociferava che fosse stato promosso ambasciatore a Venezia e che la sua piazza di reggente di Cancelleria fosse destinata a Gennaro D’Andrea, in quel momento a Madrid. Per quest’ultimo la nomina, in effetti, arrivò il 22 marzo: trova dunque conferma che la promozione-rimozione del M. fosse stata orchestrata dal «partito» di Ulloa con la sponda di Cotes e Gennaro D’Andrea.
Il M. divenne formalmente ambasciatore a Venezia, «esempio ancor nuovo per italiano» (D’Andrea, p. 220), il 6 sett. 1695 e s'insediò il 29 apr. 1696. Durante il soggiorno in laguna stilò una Esposizione a beneficio di Madrid. All’inizio dell'aprile «avvisi publici» informavano che era stato destinato all’ambasciata spagnola di Lisbona. Ma il 10 luglio si apprese che il M., in quel momento a corte, avrebbe ricevuto un diverso incarico, forse quello di «presidente d’azienda». Nel febbraio 1699 giunse notizia che era stato promosso consigliere di cappa e spada del Consiglio d’Italia; ai primi di maggio che avrebbe occupato, nello stesso consesso, il posto togato di consigliere di Stato appartenente a Giovan Francesco Marciano, il quale sarebbe rientrato a Napoli come reggente soprannumerario di Cancelleria; ma il 25 maggio il corriere informò che l’avvicendamento non si sarebbe realizzato e che al M. era stata invece conferita «la carica di conservator generale del real patrimonio o, per dir meglio, de’ privilegi de’ regni e Stati d’Italia» (Confuorto, II, pp. 336-337): ruolo che rivestí per appena un mese. Alcuni manoscritti degli Avvertimenti dandreiani chiariscono che il ripensamento di Carlo II, con la scelta obbligata di ripristinare la piazza di provveditore d’azienda per l’Italia, fu dettato dall’opportunità di sopire una disputa di precedenza tra Marciano e il Moles. Questi, tra l’altro, continuava a sperare nella presidenza del Sacro Consiglio napoletano.
All’inizio del 1700 il M. fu designato ambasciatore cattolico alla corte cesarea di Vienna in luogo del vescovo di Lerida Juan de Santa Valeria. «Quali fussero i motivi di cosí improvvisa elettione – avrebbe raccontato egli stesso – restò assai occulto; non lasciò di comunicarmeli l’istesso Re di sua propria bocca in varie lunghe, e replicate conferenze» (Napoli, Biblioteca Nazionale, Fondo S. Martino, 266: Manifesto, c. 1r). Sulla scelta influí ancora una volta, Cabrera, secondo Galasso (II, p. 701). Altri studiosi (Adalberto de Baviera; Ochoa Brun, p. 703) evidenziano il ruolo della regina Marianna del Palatinato-Neuburg, seconda moglie di Carlo II, fiduciosa che il M. sposasse appieno la causa degli Austrias. In lui, del resto, confidava molto anche il re, che usava parlargli «da solo a solo»: prassi inconsueta nella corte spagnola (Napoli, Biblioteca Nazionale, Fondo S. Martino, 266: Manifesto, c. 1r).
Carlo II «di propria bocca» dettò al M. «l’ultime segrete instruzzioni», sottoscrivendole il 28 apr. 1700. Gli affidò inoltre «un biglietto scritto tutto di suo real pugno, con cui il dichiarava suo Consigliere di Stato, affinché egli ove d’uopo fosse, senza attendere gli ordini della Corte, potesse prender da sé stesso gli espedienti necessarii agli affari» (Carafa, I, pp. 161-162; secondo lo stesso M., tale privilegio autografo recava la data del 9 ott. 1700, Napoli, Biblioteca Nazionale, Fondo S. Martino, 266: Manifesto, c. 2v). L’ambasciata di Francia sospettò che il M. recasse con sé il testamento di Carlo II «a favore della casa d’Austria» (Granito, Appendice, p. 70).
Motivi nazionalistici (ad avviso di Verga, pp. 17-18) hanno impedito alla storiografia austriaca dell’Ottocento di cogliere appieno l’incidenza d’un ministro non tedesco come il M. sulle vicende diplomatiche della guerra di successione spagnola. In effetti, incrociando le pur faziose Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, e le testimonianze degli ambienti di corte, si evince che i tatticismi e le apparenti ambiguità del M. perseguivano l’obiettivo, concertato con l’Almirante di Castiglia, di accrescere il potere dell’arciduca Carlo, forse anche al prezzo – rimproveratogli dal Carafa – di tradire le aspettative «napoletane».
Il 1° nov. 1700 morì Carlo II. Appresa la notizia a Vienna, il M. immaginò (cosí avrebbe poi dichiarato) di ritirarsi a «vita privata» (Napoli, Biblioteca Nazionale, Fondo S. Martino, 266: Manifesto, cc. 3r e 6r). In realtà, «gran Maestro nell’arte del simulare, e del dissimulare, penetrevole, ed astuto di mente» (Carafa, II, p. 781), lavorò a Vienna per ingraziarsi i favori di Leopoldo, mentre a Madrid insinuava che l’imperatore disconoscesse il testamento carolino. Questo doppio gioco, ardito e dispensioso, si protrasse sino al 1702 (cfr. la corrispondenza del M. custodita presso l’Archivo Histórico Nacional di Madrid nel fondo Estado).
Nel frattempo il divieto di cumulare stipendi, contenuto nella riforma del Consiglio d’Italia del 1701, consentí al governo madrileno di non erogare piú al M. il salario da ambasciatore. Da quel momento si schierò apertamente per l’arciduca Carlo, competitore di Filippo V per la corona spagnola. Nell’aprile 1701, privo di mezzi di sostentamento, fu espulso dalla Corte. Supplicò allora l’imperatore Leopoldo perché lo lasciasse dimorare a Nussdorf e poi in altri sobborghi viennesi «fino a tanto che mi arrivasse il soldo da Napoli» (Napoli, Biblioteca Nazionale, Fondo S. Martino, 266: Manifesto, c. 5r; Granito, Appendice, p. 73). Dopo lo scoppio della congiura di Macchia, le autorità imperiali, il 23 ottobre, lo arrestarono «per rappresaglia contro l’imprigionamento del barone di Chassignet» (Galasso, II, p. 701). Il M. avrebbe poi raccontato che «si formarono varii discorsi circa della mia persona, fomentati da un certo ministro d’Italia, che [...] volle [...] che questo fatto avesse grande apparenza di misterioso» (Granito, Appendice, p. 74). In effetti si sospettava che, d’intesa con l’imperatore, avesse simulato la detenzione per continunare i «maneggi» finalizzati a consegnare agli Austrias la Spagna d’intesa con gli anglo-olandesi.
Non a caso, in tempi brevi il M. divenne «il principal ministro dell’Imperadore in Vienna, e riguardevole personaggio, e quasi arbitro in piú corti d’Europa», con facoltà ma «senza il nome di primo ministro» (Carafa, II, pp. 784-791). All’inizio del novembre 1702 Filippo V, da Milano, lo dichiarò ribelle. Di conseguenza, i suoi beni, incluso il feudo di Parete, furono sequestrati.
Il M. lamentò che la confisca non solo aveva ingiustamente colpito anche il patrimonio dei suoi figli, residenti a Milano, ma gli era stata inflitta «senza né pure ascoltarlo», procurandogli – in ragione del suo rango – «stordimento e mortificatione» (Napoli, Biblioteca Nazionale, Fondo S. Martino, 266: Manifesto, cc. 4v, 5v; qualche variante in Granito, Annotazioni, p. 76). A propria giustificazione divulgò da Vienna, il 19 marzo 1703, «un manifesto a stampa tradotto in piú lingue», in cui narrava «fil filo quanto era avvenuto dalla sua nomina di ambasciatore» (Granito, Storia, II, l. III, p. 34; Id., Annotazioni, pp. 69-79 ne trascrive una copia manoscritta appartenente al duca di Satriano Tito; un altro esemplare è in Napoli, Biblioteca Nazionale, Fondo S. Martino, 266, cc. 1r-6v, con limitate varianti e lo stesso titolo; in francese il Manifeste du Duc de M., Ambassadeur de Charles II Roi d’Espagne à Vienne fu pubblicato da de Lamberty). Nel testo il M. denunciava l’«imputazione di ribelle» mirava a vendicare la sua antica «confidenza» con Carlo II. L’ignominia lo aveva costretto ad affidarsi alla protezione dell’imperatore Leopoldo e a non prestare giuramento di fedeltà a Filippo V che, d’altronde, non aveva «ottenuto finora alcuna investitura del regno di Napoli». Il documento si chiudeva professando «obblighi eterni» alla «sempre illustre e gloriosa natione Spagnola» (Granito, Annotazioni, pp. 77-79; Verga, p. 19 interpreta l’appello come il tentativo di accreditarsi presso gli Asburgo).
Col Manifesto, che il 19 maggio avrebbe ricevuto una Risposta [...] fatta da un fedele Spagnolo e quindi alcune Note (Catalogue, p. 231), il M. «si tolse la maschera»: tanto che il 25 marzo 1703 Leopoldo lo elevò a consigliere di Stato e di Gabinetto. Le sue «cabole» e gli «astuti maneggi», i «tremendi arteficij e intrighi» concertati con l’Almirante proseguirono anche dopo la morte di Leopoldo, nel maggio 1705 (Carafa, II, p. 787; III, pp. 1087 e 1018).
Alla fine del giugno 1706 il nuovo imperatore Giuseppe lo nominò ambasciatore straordinario a Barcellona, alla corte di Carlo, con l’obiettivo di indebolire il «partito» del principe Eugenio di Savoia e di Jean Wenzel, conte di Wratislaw. Il vero dissenso riguardava le strategie asburgiche sull’Italia.
Alla fine del 1706 la corte viennese sospettò fondatamente che il M., il quale da circa due anni si stava occupando del casamento dell’arciduca Carlo, volesse indurlo a sposare un’italiana, la principessa di Carignano. Un duro dispaccio dell’imperatore lo costrinse a professare fedeltà alla corona imperiale. Ma durante il soggiorno milanese, protrattosi dal settembre 1706 al settembre 1707, il M., d’intesa con l’imperatrice madre Eleonora, continuò ad adoperarsi per rafforzare il ruolo di Carlo rispetto a Giuseppe.
L’imperatore, forse allertato da Carafa, cominciò a diffidare del Moles. Questi, oltre ad aver lucrato dal testamento di Leopoldo la dote di Marianna d’Austria, si era fatto «nominare dall’Imperadore Cardinale». Benché nominato ambasciatore a Barcellona, restava a Milano, omaggiato da tutti, in attesa del cappello rosso da Roma. Ben presto, però, Giuseppe, «coll’opera del cardinal Grimani, nemico dichiarato del Duca, ritrasse dal Papa la prima cesarea nomina»; perse il favore del principe Eugenio e gli alti dignitari austriaci gli voltarono le spalle; la stessa sorte lo avrebbe accolto a Barcellona (ibid., III, p. 1227). Alla metà di luglio 1707, quando gli austriaci avevano ormai occupato Napoli, Carafa si recò a Barcellona, dove il M. era atteso a momenti come Primo ministro. Egli si illudeva «di potere il tutto presso un giovine Re, quasi educato da lui», ma Carlo, ormai insofferente, se ne serví, e ne pianificò la caduta in disgrazia (ibid., p. 1375). È stato scritto che anche nel primo periodo in Catalogna il M. si sarebbe rivelato «imprescindible consejero» (Ochoa Brun, p. 711). Per la verità, egli esercitò questo ruolo con esiti alterni. Nell’ottobre 1707 tentò invano di dissuadere Carlo dal nominare viceré di Napoli il cardinale veneziano Grimani: avrebbe, infatti, preferito che la scelta cadesse sull’imperatrice madre Eleonora, da affiancare al conte Georg Adam von Martinitz. Il 30 ott. 1708 propose a Carlo di mantenere, in contrasto col fratello Giuseppe, un presidio spagnolo a Sabbioneta.
Da Barcellona intesseva ancora tele diplomatiche. Il 28 apr. 1708 scriveva al cardinale Vincenzo Maria Orsini tra l’altro avvertendolo, a proposito del sequestro delle rendite ecclesiastiche, che il papa non avrebbe potuto «ricusare di trattar da Re» l’ormai ex arciduca, reputato monarca «dalla maggior parte dell’Europa»: se il pontefice avesse definito Carlo «illegittimo possessore», sarebbe divenuto «parte, e non Padre comune». La missiva conteneva anche uno spunto giurisdizionalista, laddove giudicava le tante scomuniche comminate ai ministri napoletani sproporzionate se paragonate alla tolleranza della curia romana verso i vescovi francesi (Napoli, Biblioteca Nazionale, ms. XV.F.32; altra copia in Roma, Bibl. Casanatense, Mss. X.IV.44 [ora 3212], c. 35).
A ottobre, sempre da Barcellona, propose di istituire un Consiglio di Stato, sull’esempio della monarchia spagnola, al fine di consentire agli Asburgo il governo d’una pluralità di regni e, forse, anche per frenare la crescente influenza su Carlo del napoletano Rocco Stella. Alcuni documenti rivelano l’attivazione, nell’estate del 1709, d’una Junta de las dependencias de Napoles (poi Junta de Italia), di cui avrebbero fatto parte il M., Stella, Biscardi e il marchese Erendazu; e poi, nell’estate del 1710, d’una Junta o Consejo de Estado, di cui sarebbe stato membro. Tuttavia, sospettato dai catalani di voler rappresentare l’imperatore, e a Vienna d’aver incoraggiato l’autonomia di Carlo, vide inesorabilmente eclissarsi il suo astro politico. Ancora nel 1710-11 sperava nella berretta cardinalizia: ma il 30 maggio 1711 la S. Sede comunicò al nunzio a Vienna che il papa lo riteneva «indegno della porpora» (Pometti).
Istigato da Stella, Carlo accusò il M. di «cospirazione», sino a «partor[ire] inaspettatamente quella fatal rovina, nella quale il creduto sciocco [Stella] spinse il riputato saggio». Il contrasto era ormai radicale. Mentre il M. avallava la massima «che in Napoli non si cambiasse forma di governo, ma si concedesse però a’ Napolitani qualche nuova grazia alla maniera usitata dagli Spagnuoli», il re immaginava per il Mezzogiorno peninsulare d’Italia di riformare la giustizia, «premiare il merito, coltivare le buone arti, introdurre il traffico, e ponere in piedi un buon Corpo di Napolitane Soldatesche» (Carafa, III, p. 1495).
Nel settembre 1711, dopo l’incoronazione imperiale di Carlo, rifiutò sdegnosamente la carica di ambasciatore in Portogallo. Crollata la sua credibilità a Barcellona, tornò a Napoli «senza posto, senz’autorità, e senz’onore» (Carafa, III, p. 1229).
Il M. morì a Napoli il 26 dic. 1713.
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J.C. Spect. D. Annibale Moles ..., Nostra aetate, anno 1670 in lucem editas ..., Pars I, Napoli 1692, Oratio panegirica, ff. 16r-22v; R.M. Filamondo, Il genio bellicoso di Napoli. Memorie istoriche d’alcuni Capitani Celebri Napolitani [...]. Parte II, Napoli 1694, pp. 442-449; G. de Blasiis, Frammento d’un diario inedito napoletano, in Archivio storico per le province napoletane, XIV (1889), II, pp. 266, 291, 332, 334; D. Confuorto, Giornali di Napoli dal MDCLXXIX al MDCIC, a cura di Nicola Nicolini, I: MDCLXXIX-MDCXCI, Napoli 1930, pp. 85, 166-167, 210, 267-270, 280, 352, 354, 373; II: MDCXCII-MDCIC, Napoli 1931, pp. 60, 67, 76, 111, 114, 119, 126, 132, 149, 216-217, 299, 312, 328, 336; A. Bulifon, Giornali di Napoli dal 1547 al 1706, a cura di N. Cortese, Napoli 1932, p. 213; I. Fuidoro (V. D’Onofrio), Giornali di Napoli dal MDCLX al MDCLXXX, II: MDCLXVI-MDCLXXI, a cura di A. Padula, Napoli 1938, pp. 80, 97, 152, 172, 188, 194, 239; III: MDCLXXII-MDCLXXV, a cura di V. 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