MERLI, Francesco.
– Nacque a Corsico (Milano), il 28 genn. 1887, da Luigi ed Emilia Cova.
Di famiglia umile, con un retroterra contadino che lo portava a vedere nella vicinissima Milano un mondo remoto (il microcosmo della sua infanzia fu la cascina detta Mulinètt, oggi scomparsa, importante concentrato di mulini nella periferia milanese di fine Ottocento), il M. iniziò a guadagnarsi da vivere come bidello. Poche e disordinate lezioni di canto – presto si rese conto di «avere una voce», e autenticamente tenorile – lo indussero nel giugno 1913 a partecipare, in via amatoriale, ai concerti verdiani organizzati al teatro Dal Verme dal Comune di Milano per incentivare l’istruzione musicale delle scuole cittadine.
Il M. si presentò con I Lombardi alla prima crociata di G. Verdi, opera all’epoca pressoché uscita di repertorio, cantando, insieme con due colleghi, il terzetto Qual voluttà trascorrere. Si trattò dell’anticipazione di uno dei momenti più significativi della sua carriera: nel 1930 il M. partecipò a una fortunata ripresa dei Lombardi alla Scala di Milano, per incidere l’anno dopo il terzetto in questione (un disco divenuto celebre, tuttora oggetto di culto tra i collezionisti) con Bianca Scacciati e N. De Angelis.
L’esibizione al Dal Verme ebbe successo, ma non modificò il corso della sua vita: l’unica conseguenza fu – per volere dell’allora sindaco di Milano, E. Greppi – il trasferimento del M. a palazzo Marino, che sanciva così il suo passaggio da bidello scolastico a bidello di ufficio comunale. Decisiva fu invece la partecipazione a Parma, il 25 luglio 1914, al concorso internazionale di canto per giovani esordienti indetto dal direttore C. Campanini. Il M. si cimentò in pagine verdiane e pucciniane, guadagnandosi il secondo posto in senso assoluto e il primo relativamente alla categoria dei tenori drammatici.
Vincitore fu proclamato uno sconosciuto tenore lirico di tre anni più giovane del M.: B. Gigli. Il terzo posto fu assegnato all’ancor più giovane spagnolo I. Fagoaga, destinato a una brillante carriera di tenore wagneriano. Gigli, più avanti nella preparazione vocale, debuttò in quello stesso anno; per il M. si trattò, invece, d’iniziare ad approfondire la tecnica.
L’esito oltremodo positivo di un’audizione presso l’agenzia di L. Serafin, fratello di Tullio, convinse il celebre direttore a puntare sul M.: inizialmente gli pagò le lezioni di canto presso A. Borghi e C. Negrini, mettendosi al contempo a disposizione dell’aspirante tenore per la preparazione dei primi spartiti, ma poi fece molto di più. Per dargli la possibilità di concentrarsi appieno sul canto, Serafin offrì un fisso mensile che consentiva al M. di mettersi in aspettativa dal Comune per un anno, con l’impegno di una percentuale sui futuri incassi come cantante, fino a estinzione del debito. Tanta disponibilità sottintendeva, da parte di un esperto di voci come Serafin, la sicurezza di una piena riuscita del M. nell’arte canora.
L’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale e la relativa coscrizione del M. posero momentaneamente fine a ogni progetto, mentre Gigli, riformato, s’incamminava verso la celebrità. Il M. si limitò a tenere in esercizio la voce in trincea: nel suo diario (oggi perduto, ma di cui qualche stralcio fu pubblicato molti anni dopo dal Radiocorriere) racconta come nell’ottobre 1915, in prima linea sul Montenero, incantasse tanto i compagni quanto i nemici austriaci posti a pochi metri cantando Cielo e mar da La Gioconda di A. Ponchielli.
Il M. trovò comunque il modo – tra una licenza e l’altra – di debuttare in palcoscenico, per di più entrando dalla porta principale: il 26 dic. 1916 esordì alla Scala nel Fernando Cortez di G. Spontini, sia pure in un ruolo di relativo comprimariato. A conflitto ultimato il tempo perduto fu recuperato in fretta: il 12 sett. 1918 il M., ormai trentunenne, iniziò a tutti gli effetti la carriera, ancora alla Scala, con il Mosè di G. Rossini, anche questa volta in una parte di «secondo tenore».
Fu l’inizio di un fortunato sodalizio con il teatro milanese, che sarebbe durato quasi un trentennio, fino alla vigilia del ritiro. Sempre nel 1918 vi tornò per una novità assoluta come Urania di A. Favara Mistretta, prima di una serie d’opere contemporanee destinate a puntellare la carriera del M., che negli anni seguenti tenne a battesimo, tra l’altro, Belfagor di O. Respighi (Milano, 1923), Emiral di B. Barilli (Roma, 1924) e Madama di Challant di C. Guarino (Milano, 1927), oltre a sfiorare – mancandola di poco – la «prima» di Turandot.
È noto che il capolavoro postumo pucciniano andò in scena in modo controverso: a parte la querelle sul finale mancante e il completamento di F. Alfano, anche la sede non fu quella inizialmente prospettata. Emma Carelli, grande soprano passata alla direzione del Costanzi di Roma, aveva avviato contatti con G. Puccini affinché l’opera potesse avere proprio a Roma il suo battesimo: solo dopo la morte del musicista la candidatura romana venne meno, in favore d’un debutto scaligero. Era abbastanza perché la «prima» romana, caparbiamente allestita dalla Carelli a quattro giorni di distanza (29 apr. 1926) dalla prima assoluta milanese, assumesse il sapore d’una «contro-Turandot». Fu in quell’occasione che il M. affrontò il ruolo di Calaf, diventandone subito l’interprete di riferimento (già nel 1927 lo cantò a Londra), nonché, con le sue incisioni di Non piangere, Liù e Nessun dorma, uno dei primissimi interpreti discografici.
D’altronde il M. era ormai un cantante affermato, in Italia più che all’estero (s’impose al Covent Garden di Londra tra il 1926 e il 1930, mentre al Metropolitan di New York apparve solo nel 1932, per di più in un periodo di cattiva salute). Si connotò subito come tenore essenzialmente «spinto», in ambito sia verdiano sia pucciniano-verista, mostrandosi tuttavia anche capace di affondi lirici (Lucia di Lammermoor di G. Donizetti, Lohengrin di R. Wagner, Mefistofele di A. Boito). A ciò si aggiungeva la disponibilità nell’affrontare opere allora insolite, come Boris Godunov di M.P. Musorgskij e Fidelio di L. van Beethoven (entrambe alla Scala, sotto la direzione di A. Toscanini), o ruoli considerati antieroici, dunque trascurati dai divi del momento: in anni in cui Gigli e G. Lauri Volpi si tenevano lontani dal Don Carlo di Verdi, il M. fu uno dei pochi grandi nomi che vollero accostarsi alla figura tormentata dell’infante di Spagna. E neppure il belcanto – sebbene la formazione del M. fosse tutt’altra – mancò nel suo repertorio: nel 1935 partecipò alla Scala alla riproposta de La straniera di V. Bellini e la sua incisione di O muto asil del pianto dal Guglielmo Tell di Rossini, per quanto priva di soverchie preoccupazioni stilistiche, meriterebbe oggi – in piena età filologica – di essere meditata e rivalutata.
È però esattamente a metà della sua carriera che il M. incontrò il ruolo con cui si sarebbe identificato. Nel 1933 debuttò in Otello di Verdi: prima quattro recite di rodaggio in un tranquillo teatro di provincia come il Municipale di Alessandria, subito dopo l’esordio davanti al temibile pubblico del Regio di Parma. Da allora, per tre lustri, il ruolo del Moro non avrebbe più abbandonato il M., che con le sue 295 recite si pone di diritto come il più importante interprete italiano di questo personaggio, nell’interregno che va tra il periodo di G. Zenatello e l’affermazione di M. Del Monaco.
Il M. si ritirò nell’agosto 1948, alle Terme di Caracalla, proprio con Otello, accanto alla Desdemona dell’astro nascente Renata Tebaldi: la voce pare fosse ancora integra, ma la recente perforazione di un timpano rischiava di compromettere l’esatta intonazione. In seguito si dedicò all’insegnamento.
Il M. morì a Milano l’11 dic. 1976.
Quattro giorni prima, in occasione del S. Ambrogio scaligero, la storia dell’Otello si era arricchita di un nuovo capitolo, che in un certo senso archiviava il M. nel passato, grazie all’interpretazione interiorizzata e liricizzante di P. Domingo. Nel 1987, per il centenario dalla nascita del M., il teatro milanese gli dedicò un busto in bronzo, tuttora esposto al Museo della Scala.
Rispetto a Gigli e G. Lauri Volpi, ma anche in confronto a un antidivo come A. Pertile, il M. assunse una posizione più defilata: del primo gli mancò quel carisma che conquistava qualunque pubblico in ogni occasione; del secondo, la svettante insolenza tutta tenorile; del terzo, la superiore ricchezza chiaroscurale. Fu soprattutto «una voce», robusta e squillantissima, ma anche un interprete rigoroso, senza la ricerca dell’effetto accattivante, e comunque sincero anche negli atletismi vocali: in questo senso la definizione datane da Lauri Volpi («un lavoratore del teatro [… che] merita rispetto per serietà e probità artistica») non è una deminutio, ma fotografa il personaggio.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. storico del teatro dell’Opera, f. Francesco Merli (contratti e scambi epistolari con la dirigenza del teatro, Roma 1933-36); Le grandi voci. Dizionario critico-biografico dei cantanti, Roma 1964, pp. 547 s.; L. Agostini, Intervista a F. M., in Radiocorriere TV, nov. 1971, n. 45; G. Lauri Volpi, Voci parallele, Bologna 1977, p. 139; A. Sguerzi, Le stirpi canore, Bologna 1978, pp. 146 s.; Enc. dello spett., VII, coll. 461 s.; Diz. enciclopedico universale della musica e dei musicisti, Le biografie, V, p. 52; The New Grove Dict. of music and musicians, XVI, p. 463.
P. Patrizi