MENGOTTI, Francesco.
– Nacque a Fonzaso il 15 sett. 1749 da Ignazio e Caterina Villabruna, nobile della vicina Feltre.
Studiò prima nel seminario locale con grande impegno, poi fu mandato dalla famiglia a studiare giurisprudenza nello Studio di Padova, dove cercò contemporaneamente di ampliare i propri interessi, frequentando lezioni di matematica, fisica, medicina e teologia. Si laureò il 6 maggio 1771, pensando di praticare la professione a Venezia, anche grazie all’aiuto di uno zio acquisito, l’abate G.B. Billesimo, consultore in iure della Serenissima e docente al seminario di Padova. Tuttavia il suo carattere irritabile e una certa debolezza nervosa non lo facilitarono e, a lungo andare, gli impedirono l’esercizio dell’attività forense. Decise così di dedicarsi ai consulti, rientrando a Fonzaso e riprendendo poi la strada di Venezia all’inizio degli anni Ottanta. Nel 1784, infatti, lo troviamo precettore della famiglia patrizia Barziza, incarico che alternava a quello di consulente legale. Fu in questo momento che decise di partecipare al concorso, promosso dalla parigina Académie des inscriptions et belles-lettres, sul tema «L’état du commerce chez les Romains, depuis la dernière guerre Punique jusqu’à l’avènement de Constantin à l’Empire», problema molto dibattuto che non aveva ancora trovato una trattazione all’altezza e degna di ricevere in premio le due medaglie d’oro del valore di 500 franchi l’una messe in palio. Per cui, quando due anni dopo (14 nov. 1786) l’opera venne giudicata vincitrice, il successo del M. – sconosciuto sia all’estero sia in patria – destò viva sorpresa. Il testo del M., tradotto in italiano, fu pubblicato a Padova nel 1787 con il titolo Del commercio de’ Romani dalla prima guerra punica a Costantino: dissertazione… (altre ed., Venezia 1797, 1803, 1841; Milano 1802-03, 1804, 1821, 1829; Firenze 1828; Leipzig 1833; Roma 1967; Avezzano 1984).
La tesi sosteneva che i Romani, ricchi e potenti, avessero sempre trascurato per orgoglio il commercio, base fondamentale dello sviluppo degli Stati, al punto che questa poteva essere considerata la causa principale della loro decadenza: «L’impero più stabile è quello della forza o della industria? Le ricchezze per immense che sieno, possono esser durevoli in uno stato senza industria e commercio?» (ed. 1828, p. 6). In sostanza il M., inaugurando l’analisi quantitativa nei fenomeni storico-economici, affermava che la bilancia commerciale dei Romani nel periodo imperiale era deficitaria verso l’estero.
La memoria procurò fama al M. che, in breve tempo, fu eletto socio dell’Accademia Patavina di scienze, lettere e arti; nonostante alcune confutazioni di marca gesuitica, ricevette pubblico riconoscimento dai riformatori dello Studio di Padova in occasione della consegna delle due medaglie che l’ambasciatore veneziano a Parigi aveva ritirato all’Académie e fatto recapitare alla Serenissima; la stessa Repubblica lo chiamò a far parte di una ristretta cerchia di consulenti che avrebbe dovuto creare un nuovo regolamento generale del commercio marittimo e terrestre.
Il tema del mercantilismo fu al centro anche del secondo concorso al quale il M. partecipò, promosso dall’Accademia dei Georgofili di Firenze nel 1791.
Il M. fu proclamato vincitore nell’estate del 1792, ricevendo anche in questo caso in premio una medaglia d’oro: la dissertazione apparve, per la prima volta, a Firenze in quello stesso anno (Ragionamento della libertà naturale del commercio de’ generi greggi) per poi essere ristampata nello stesso anno a Venezia e in una dozzina di riedizioni negli anni successivi, sotto un titolo, Il colbertismo, che immediatamente chiariva il senso delle sue riflessioni economiche. E, in più di un caso, apparve insieme con la precedente memoria in edizioni e raccolte di «Classici italiani» (Milano e Venezia 1803; Firenze 1828).
Il nuovo «problema accademico» verteva intorno al quesito «se in uno stato suscettibile di aumento di popolazione e di produzioni di generi del suo territorio, sia più vantaggioso e sicuro mezzo per ottenere i sopraddetti fini, il dirigere la legislazione a favorire le manifatture con qualche vincolo sopra il commercio de’ generi greggi, ovvero il rilasciare detti generi nell’intera e perfetta libertà di commercio naturale» (ed. 1828, p. 3). La tesi sostenuta dal M. fu che, a dispetto delle teorie mercantilistiche di J.-B. Colbert, solo la piena e assoluta autonomia di iniziativa poteva garantire la libertà economica. Privilegiare le attività manifatturiere, come indicava il modello francese, equivaleva a commettere «uno de’ più grandi errori della moderna politica economica, quello di render tributaria, e schiava delle arti, l’agricoltura» (ibid., p. 105). Pertanto, concludeva, uno Stato moderno avrebbe dovuto collocare sullo stesso piano sia le attività manifatturiere sia quelle agricole, intervenendo a sostegno di alcuni settori produttivi solo in casi particolari e con molta discrezione, ed elevando invece la terra a pari dignità con le altre imprese produttive.
La breve ma intensa stagione della Municipalità democratica lo vide molto attivo a Venezia: animato da profonda convinzione, ma senza raggiungere l’estremismo di alcuni, il M., come ebbe a ricordare al governo austriaco qualche anno dopo, aveva vivacizzato le sessioni del Comitato finanze con una partecipazione che era la naturale conseguenza di quel vasto movimento riformatore del quale si era sentito interprete con i suoi fortunati studi di economia. Per questo aveva fortemente sostenuto la necessità di uno stabile collegamento – politico, prima che geografico – tra laguna e Terraferma. Venezia era ormai divenuta, nella concezione sua e di altri protagonisti illuminati come Vincenzo Dandolo, una semplice città municipalista, non più la Dominante dispotica, ma nemmeno una capitale: poteva diventare l’autorevole membro di un’ipotetica federazione delle città libere d’Italia, tutte egualmente autonome, in grado di superare gli antichi odi e le rivalità campanilistiche. Questo aveva probabilmente rappresentato a Napoleone Bonaparte, nel corso dell’ambasciata che la Municipalità veneziana aveva inviato a Milano al generale, da maggio alla fine di luglio del 1797. Il suo ruolo era stato apprezzato indipendentemente dalle sorti del Veneto, segnate dal successivo trattato di Campoformio, tanto che era stato nominato membro del Corpo legislativo della Cisalpina, tra i seniori del Dipartimento dell’Alto Po, incarico dal quale il M. si dimise il 17 dicembre di quello stesso anno per ritirarsi nuovamente a Feltre.
La nuova organizzazione delle province austro-venete del 1803 collocò il M. in un oscuro ruolo di burocrate, molto limitativo rispetto alle sue doti di studioso, su cui pesava tuttavia l’eco della sua partecipazione alla Municipalità veneziana del 1797: nominato «aggiunto» all’ispettorato di finanza di Treviso, era stato distaccato presso il Capitanato provinciale «per gli affari di censimento tasse». Da qui lo trasse il nuovo governatore, conte Ferdinand von Bissingen, per porlo a capo nel 1804 della Commissione centrale per il censo, su probabile suggerimento del lombardo Pietro Bellati, consigliere di governo che, sulla scorta dell’analoga, diretta esperienza vissuta come segretario del governo asburgico a Milano, era stato preposto all’ambiziosa operazione catastale: la scelta rispondeva a un nuovo criterio di professionalità che l’Austria stava cercando di attuare nei territori un tempo appartenuti alla Serenissima.
Designando il M., il governo austriaco non vedeva in lui un esponente del notabilato della Terraferma al quale concedere qualche rivincita, ma il tecnico prestigioso cui le due memorie di stampo moderatamente fisiocratico avevano dato respiro europeo, indicandolo come l’uomo giusto per il progetto del catasto fondiario.
Bellati e il M. divennero le due anime dell’operazione censuaria: il primo traducendo in azione di governo quanto il secondo delineava in sede teorica, in una profonda attività riformatrice che non si fermò solo al catasto.
L’operazione andò incontro alle inevitabili opposizioni, sia da parte delle Comunità rurali e montane, che temevano un ulteriore impoverimento delle proprie condizioni di vita, sia da parte di ricchi possidenti che vedevano venire meno privilegi secolari e che fecero dello strumento del ricorso un’arma politica di opposizione all’Austria, in chiave aristocratica e filoveneziana. Anche per questo, al momento del passaggio del Veneto al Regno d’Italia napoleonico, erano oltre il 20 per cento le «notifiche» mancanti: al governo italico rimase il compito di terminare la raccolta, controllarne la veridicità e impostare il Catasto, terminato tuttavia proprio dall’Austria e solo nel 1846.
I programmi del M. non si limitarono alla politica tributaria, come dimostrano i progetti del 1805 per la costruzione di un porto franco che il commissario per il Censo indicò nell’Arsenale, dove avrebbero trovato posto gli scali, le banchine e le dogane. Tuttavia, avvertiva il M., coerente con quanto già aveva affermato vent’anni addietro, il porto franco non doveva essere considerato come una fonte di rendita immediata e diretta per l’Erario, ma come uno strumento per favorire lo sviluppo del commercio e la crescita della navigazione, per animare l’attività produttiva, attirando valuta dall’estero e, conseguentemente, aumentando la ricchezza. Anche questo progetto non venne portato a termine; ci riuscirono gli Asburgo, ma solo nel 1830 e sull’isola di San Giorgio.
Nel dicembre 1805, alla caduta del governo austriaco, il M. accettò di proseguire l’iniziativa del catasto anche con l’amministrazione italica, non senza porsi il problema di cosa significasse, agli occhi dei contemporanei, la continuità fisica nelle istituzioni. Di fronte all’accusa di opportunismo o di piaggeria, «previde egli l’accusa ed i nipoti si ricordano tuttavia come solesse ripetere: che il bene dell’umanità era il suo grande scopo e che rimanendo ne’ conferiti impieghi, ne portava quella coscienza di giovare che forse tal altro […] non avrebbe portato» (Bernardi, p. 128). Venne infatti nominato ispettore generale delle Finanze napoleoniche, ma, al di là dell’incarico, ciò significava per lui servire lo Stato, qualunque sovrano lo governasse. In questa chiave si collocano i numerosi interventi che il M. pubblicò in quegli anni o le memorie che lesse nelle molte accademie di cui animò le sessioni: che scrivesse un Saggio sulle acque correnti (Milano 1812) e le opere idrauliche, sostenesse la libertà di commercio o ragionasse sulle monete, desse pareri sul rimboschimento, la seta o gli zuccheri, e si avventurasse persino intorno alla questione della lingua, tra proverbi e modi di dire (cosa che gli aprì, nel 1817, anche le porte dell’Accademia della Crusca), il M. dava corpo e continuità a quello spirito riformatore che lo aveva animato sin dall’inizio della sua attività. Lo stesso che lo convinse ad accettare (1808) un altro difficile incarico, quello di riorganizzare le finanze nei tre Dipartimenti del Regno Italico, già Legazioni pontificie: «honnête homme et sage, estimé comme auteur», lo aveva definito F. Melzi d’Eril, sottolineando come la sua opera di governo andasse sempre di pari passo con l’elaborazione teorica (Gullino, p. 615).
Terminato quest’ultimo incarico, il M. si trasferì a Milano, entrando a far parte del «Gotha» del Regno: cavaliere della Corona ferrea, elettore del Collegio dei dotti e senatore per il Dipartimento del Piave (1809), infine conte (1810), membro di varie accademie, dovette, dopo le insurrezioni antinapoleoniche culminate nell’aprile 1814 nell’eccidio del ministro delle Finanze G. Prina, di cui era amico, subire anche l’oltraggio della folla che pure in precedenza lo aveva invocato ministro delle Finanze. Fatta irruzione nel palazzo del Senato, nel saccheggio non furono risparmiate nemmeno le sue stanze e venne asportato il manoscritto, pronto per la pubblicazione, di quella che doveva essere l’opera della maturità, uno studio di Economia politica messa a calcolo, comparata con diversi autori europei.
Rientrati gli Austriaci, nel 1815 il M. fu recuperato dal nuovo governo come consigliere (1815-16), nonostante la Cancelleria viennese ricordasse, nelle informative di polizia, un giudizio su lui formulato già nel 1803: «uomo fornito di talenti, ma torbido e inquieto». Nel 1818 fu ancora vicecommissario per il Censo, nella giunta presieduta dal viceré Ranieri d’Asburgo Lorena, stima confermata dalla nomina a consigliere aulico (1819): finalmente, nel 1825, si decise a chiedere allo stesso Ranieri l’agognata giubilazione, che il viceré gli concesse l’anno seguente.
Il M. morì a Milano il 5 marzo 1830; il 13 maggio il suo corpo venne traslato a Fonzaso per i solenni funerali.
Altri scritti: Istruzione al popolo libero di Venezia pronunziata il di 17 maggio dal cittadino Francesco Mengotti (Venezia 1797); L’Oracolo di Delfo (Milano 1817); Dissertazioni (ibid. 1829); Dello imboschimento de monti (Torino 1869).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Prima dominazione austriaca, Governo, Atti Bissingen, bb. 74/1, 96/291; Governo, 1805, b. XLI/103; Vienna, Haus-, Hof- und Staatsarchiv, Vertrauliche Akten, b. 50/74 (contiene il citato giudizio della Cancelleria viennese, 1803); F. Bertagno, Elogio letto in Fonzaso nel di de’ solenni funerali del conte… F. M. dall’abate don F. Bertagno…, Feltre 1830; Al nobile signore F. M. i.r. commissario distrettuale di Feltre che ottenne grazia di onorato riposo, s.l. né data [ma 1844]; J. Bernardi, in E. De Tipaldo, Biografia degli Italiani illustri…, IX, Venezia 1844, pp. 117-146; A. Fiammazzo, Di una vecchia polemica udinese su F. M., in Archivio veneto, LVIII (1928), pp. 271-282; Id., Sul senatore F. M.: particolari biografici, in Arch. storico di Belluno, Feltre e Cadore, I (1929), 4, pp. 44-46; Id., Nel primo parentale del conte F. M. (1749-1830): commemorazione… al Municipio di Fonzaso il 13 maggio 1930, Feltre 1930; M. Berengo, La società veneta alla fine del ’700, Firenze 1956, pp. 184 s.; G. Gullino, La congiura del 12 ott. 1797, in Critica storica, XVI (1979), 4, pp. 545-622; M. Gottardi, L’Austria a Venezia. Società e istituzioni nella prima dominazione austriaca 1798-1806, Milano 1993, pp. 85-90, 103.
M. Gottardi