MASSIMO, Francesco (Camillo VII). – Nacque, presumibilmente a Roma, il 27 sett. 1730 dal marchese Filippo (Camillo VI, 1684-1735) e da Isabella Fiammetta (1699-1744)
, figlia del conte Antonfrancesco Soderini.
Ebbe tre sorelle: Giulia (1716-68), andata in sposa al conte Alessandro Petroni, Francesca (1718-92) e Vittoria (1726-93), entrambe monache. Succeduto ancora bambino al padre nel fedecommesso della primogenitura, il M. assunse ufficialmente il nome di Camillo (VII) con il quale è generalmente ricordato nei documenti e dalla storiografia: infatti i primogeniti della famiglia non portano negli atti pubblici il proprio nome di battesimo, bensì quello di Camillo, in ricordo del primo istitutore del fedecommesso di primogenitura, Camillo (I) Massimo (1577-1640).
Alla morte del padre il M. fu affidato dapprima alla tutela della madre e poi, dopo la morte di lei, a quella dello zio materno, il conte N. Soderini, che lo avviò agli studi a Torino. Nel 1746 fu compreso, come patrizio romano coscritto, nella bolla Urbem Romam di Benedetto XIV che fissò la composizione del patriziato romano. Da allora il M. partecipò otto volte alle magistrature capitoline, continuando la politica tradizionale della sua famiglia. Nel 1758 fu eletto conservatore di Roma e nel 1759 fu nominato dal neoletto papa Clemente XIII fabbriciere perpetuo di Campidoglio. Nel 1761 vendette al marchese A. Gabrielli, zio materno della sua futura moglie, i feudi di Roccasecca e Pisterzo, sui quali si fondava il fedecommesso istituito da Camillo I, mantenendo tuttavia il titolo di marchese, oltre a quello di signore di Arsoli. Nel 1762, Clemente XIII lo nominò deputato dell’Arciconfraternita del Sancta Sanctorum, della quale fu camerlengo e poi guardiano fino alla soppressione (1798).
Il 16 maggio 1765, con dote di 20.000 scudi, sposò Barbara Savelli Palombara (1750-1826), da cui ebbe cinque figli.
Barbara, figlia di Porzia Gabrielli e unica erede del padre, il marchese Massimiliano Savelli Palombara, portò in casa Massimo le proprietà della sua famiglia, tra cui soprattutto la villa Palombara all’Esquilino, nella quale il 14 marzo 1781 fu dissotterrata la celebre statua del Discobolo (cosiddetto Discobolo Lancellotti, conservato al Museo nazionale romano di Palazzo Massimo alle Terme). In seguito all’acquisto della villa Peretti Montalto all’Esquilino (1789), il M. arrivò a concentrare nelle proprietà familiari una notevole porzione del rione Monti.
Risale al 1765, con l’ufficio di maestro di registro delle lettere apostoliche, l’inizio della sua carriera nella corte pontificia; seguì nel 1769, dopo l’ascesa al soglio di Clemente XIV, la nomina a cameriere di cappa e spada e sopraintendente generale delle Poste pontificie, cioè appaltatario per l’esercizio delle Poste in tutto lo Stato: una carica che, divenuta vitalizia, fu poi confermata a tutti i primogeniti della famiglia fino al principe Leone (Camillo XII). Divenuto nel 1772 foriere maggiore dei Sacri Palazzi apostolici, sopraintendente alle fabbriche della Camera capitolina e presidente dell’Archivio, durante il pontificato di Clemente XIV sovrintese all’esecuzione delle pitture della camera dei Papiri nella Biblioteca apostolica Vaticana e nel palazzo di Castel Gandolfo e, almeno a quanto riporta Litta, fu in rapporto di familiarità con il pontefice. Ma nel 1775 il suo successore Pio VI (Giannangelo Braschi) lo privò di ogni incarico pubblico, a quanto si disse (e secondo quanto riporta l’autore che si cela dietro il Litta, che è il principe Vittorio Massimo) per il fatto che il M. aveva dato una lauta cena in segno di esultanza nel momento in cui, durante il conclave, si era ritenuto che il cardinale Braschi non sarebbe potuto divenire papa. Tornato presto nelle grazie del pontefice e riassunto l’incarico di sopraintendente delle Poste pontificie a fronte del pagamento di un censo annuo di 45.000 scudi (appalto poi rinnovato ogni nove anni), il M. riprese la sua consuetudine con la corte romana. Colonnello della milizia civica (1796), nel 1797, al comando del battaglione comprendente i rioni Parione, Regola e S. Eustachio, fece parte della congregazione militare presieduta dal generale M.A. Colli, comandante supremo delle truppe pontificie, per contrastare l’avanzata delle truppe francesi e offrì al papa le artiglierie dei suoi domini e il mantenimento a sue spese di una compagnia a piedi.
Il 19 febbr. 1797 il M. entrò nella delegazione, guidata dal cardinale Alessandro Mattei, incaricata di trattare a Tolentino con F. Cacault e Napoleone Bonaparte la resa pontificia.
La scelta del M. come rappresentante diplomatico fu forse dovuta al «fatto che egli era considerato filo-francese» (Filippone, p. 641 n.). Non c’è dubbio che egli conoscesse bene la cultura francese, avendo studiato a Torino e avendo intessuto stretti legami con la corte sabauda, tanto da ricevere nel 1789 la naturalizzazione sarda per sé e per i figli, il primogenito dei quali, Carlo, fu tenuto a battesimo dal re di Sardegna Carlo Emanuele IV; inoltre, il M. si segnalava anche per la sua levatura intellettuale essendo noto, più di altri signori romani, per le sue aperture verso la cultura europea. Infine, egli era un laico e la Repubblica francese non accettava di ricevere nunzi apostolici.
Il M., dopo Tolentino, era la persona che meglio poteva mediare tra la corte romana e la Francia, e pertanto l’11 marzo 1797 fu inviato come rappresentante diplomatico presso il generale Bonaparte in Italia.
Risale probabilmente a questo periodo di frequenti colloqui con Bonaparte un celebre aneddoto (da alcuni autori attribuito, erroneamente, al figlio Massimiliano): avendogli domandato il generale se era vero che i Massimo discendessero da Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, rispose che non poteva affermarlo con sicurezza, ma che comunque quella voce circolava in famiglia da duemila anni.
Dopo un periodo di permanenza a Milano si recò a Parigi, dove il 28 luglio presentò al Direttorio le credenziali di ambasciatore ricevendo una cortese accoglienza. La sua principale attività diplomatica fu allora quella di negoziare il ristabilimento del culto cattolico in Francia. Tuttavia, dopo l’uccisione a Roma del generale L. Duphot (28 dic. 1797), il M., che si era recato presso il Direttorio per tentare di contenere la rappresaglia, ebbe la residenza perquisita e fu messo agli arresti domiciliari (11 genn. 1798) con l’accusa di macchinazione contro la Repubblica. Forse per interessamento diretto di Bonaparte (del quale nell’Archivio Massimo si conserva una lettera del 25 nevoso - 14 genn. 1798: cfr. Ceccarius, p. 30), e dopo diversi reclami al Direttorio, fu liberato il 6 marzo (ibid., lettera di Ch.M. Talleyrand del 13 ventoso e lettera del ministro di Polizia del 16 ventoso). Rientrato a Roma il 22 maggio, vi trovò la Repubblica istituita dal generale A. Berthier (15 febbr. 1798), dovette consegnare le carte diplomatiche (tra cui la sua copia del trattato di Tolentino) e venne pesantemente tassato dal nuovo governo. Entrate le truppe napoletane a Roma per restaurare il governo pontificio (23 nov. 1798), fu chiamato a far parte della reggenza provvisoria insieme con G.B. Borghese principe Aldobrandini, P. Gabrielli e G. Ricci. Ma poiché questa restaurazione durò poco più di due settimane (23 novembre - 11 dicembre), il M., ormai inviso al governo francese e alla Repubblica giacobina romana, dovette rifugiarsi a Napoli e poi a Corfù. Individuato come uno fra i capi della congiura tendente a favorire l’invasione delle truppe napoletane e accusato di cospirazione, fu condannato a morte in contumacia (3 apr. 1799), i suoi beni confiscati e i mobili venduti all’asta (23 agosto).
Poté ritornare a Roma solo dopo la caduta della Repubblica (27 sett. 1799). Riprese a far parte della suprema giunta di governo e fu eletto nella congregazione destinata a ristabilire il regime amministrativo dello Stato.
Ammalatosi di una «infermità di petto», il M. morì a Napoli il 20 febbr. 1801.
Fu sepolto nella chiesa della Vittoria a Chiaia, dove si trova il suo monumento funebre, lasciando al figlio Massimiliano (1770-1840) la prosecuzione della casata e del suo stesso indirizzo politico. Di lui si conserva un ritratto attribuito a Pompeo Batoni (Ceccarius, p. 13) o alla cerchia di A. Ramsay (Clark, p. 374).
Fonti e Bibl.: Il M. non è stato ancora oggetto di uno studio complessivo che ne illustri la personalità e il ruolo politico. Roma, Arch. Massimo, protocolli 247, 254, 263, 283, 347, 499; Autografi; Collezione di carte pubbliche, proclami, editti, ragionamenti ed altre produzioni tendenti a consolidare la rigenerata Repubblica Romana, I-V, Roma 1798-99, docc. nn. 196 e ss.; Correspondance de Napoléon Ier publiée par ordre de l’empereur Napoléon III, II, Paris 1859, nn. 1504, 1511, 1633, 1634, 1635, 1636; Diario dell’anni funesti di Roma dall’anno MDCCXCIII al MDCCCXIV, ed. critica a cura di M.T. Bonadonna Russo, presentaz. di L. Merigliano, Roma 1995, pp. 32, 58 (le pp. 268, 283, attribuite al M., si riferiscono invece a suo figlio Massimiliano); Dissertazioni epistolari di G.B. Visconti e Filippo Waquier de La Barthe sopra la statua del Discobolo scoperta nella villa Palombara…, Roma 1806; P. Baldassarri, Relazione delle avversità e patimenti del glorioso papa Pio VI, II, Modena 1843, p. 195; T. Passeri, Arsoli ed i nobilissimi signori Massimo, Roma 1874, pp. 71-99; D. Silvagni, La corte e la società romana nei secoli XVIII e XIX, I, Roma 1885, pp. 329 s.; Ceccarius [G. Ceccarelli], I Massimo, Roma 1954, pp. 29-31; M. Falcidia, Marco Benefial ad Arsoli, in Boll. d’arte, s. 4, XLVIII (1963), pp. 111-122; G. Filippone, Le relazioni tra lo Stato pontificio e la Francia rivoluzionaria: storia diplomatica del trattato di Tolentino, II, Milano 1967, pp. 51, 235, 406, 545, 641, 647, 649, 710-713; A. Cretoni, Roma giacobina. Storia della Repubblica Romana del 1798-99, Roma 1971, pp. 16, 22 s., 29, 304, 427; A.M. Clark, Pompeo Batoni, a cura di E. Peters Bowron, Oxford 1985, p. 374; M. Formica, La città e la rivoluzione: Roma 1798-1799, Roma 1994, p. 40; T. di Carpegna Falconieri, I Massimo, in Da Palazzo Massimo all’Angelica. Manoscritti e libri a stampa di un’antica famiglia romana, a cura di N. Muratore, Roma 1997, p. 10; M. Stramacci - F. Stramacci, Roma giacobina. Tra cronaca e storia, Roma 1999, pp. 45, 140, 218, 223; L. Barroero, Marco Benefial, in Art in Rome in the eighteenth century, Philadelphia 2000, p. 321 (con bibl.); N. La Marca, La nobiltà romana e i suoi strumenti di perpetuazione del potere, Roma 2000, pp. 476, 481 n., 496 n., 499; L. Fiorani - D. Rocciolo, Chiesa romana e Rivoluzione francese 1789-1799, Rome 2004, pp. 554 s., 557, 570, 577, 584, 744; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, s.v. Massimo di Roma, tav. VIII; G. Moroni, Diz. di erudizione storico-ecclesiastica…, XLVII, p. 166; LIII, p. 306.