MARUFFO, Francesco.
– Figlio probabilmente di Giuliano, nacque a Genova intorno ai primi anni del Trecento.
Le notizie al suo riguardo sono scarne, come del resto è per la maggior parte dei Genovesi dell’epoca, data la scarsezza di fonti genealogiche. Originari della Riviera di Levante, forse della Spezia, a Genova i Maruffo sono menzionati alla fine del XII sec. tra i consiglieri del Comune. Alla fine del Duecento la famiglia – grazie all’esercizio della mercatura su tutti i principali mercati frequentati dai Genovesi (in Inghilterra come nelle Fiandre e nel Levante) – crebbe d’importanza e consolidò la propria posizione all’interno del gruppo sociale considerato la parte migliore del «popolo», la più ricca, la più vicina – per tenore e stile di vita – alla nobiltà. Appartenenti dagli inizi del XIV secolo al partito guelfo (scelta quasi d’obbligo per le principali famiglie mercantili genovesi), i Maruffo costituivano uno dei pochi «alberghi» (o consorterie) popolari mono-familiari, non composti cioè dall’aggregazione di più famiglie di diverso cognome; caratteristica che li accomunava, sia pure su piani assai differenti, ai soli Lomellini, nobili ma come loro quasi totalmente dediti ai commerci. L’albergo Maruffo, numericamente esiguo ma economicamente forte, aveva le proprie abitazioni nella «compagna» (o circoscrizione urbana) di Maccagnana, nella «platea Marufforum» sita lungo la contrada di Malcantone – uno dei principali assi viari della città, che dal porto conduceva alla porta di S. Andrea – a stretto contatto con le case dei Giustiniani e dei Fieschi, alberghi con i quali strinsero frequenti legami familiari, venendo addirittura aggregati nei secondi con la grande riforma costituzionale del 1528.
Il M., impegnato fin dalla prima giovinezza nei commerci, partecipò attivamente anche alla vita politica cittadina, raggiungendo una posizione di rilievo nella fazione guelfa, che dal 1318 aveva assunto il potere a Genova sotto la signoria di Roberto d’Angiò re di Napoli. Nel 1330 fu infatti eletto per la prima volta nel Consiglio dei dodici anziani, la magistratura collegiale preposta al governo del Comune. A ulteriore conferma del suo prestigio, l’anno successivo fu eletto tra i ventiquattro cittadini, metà guelfi e metà ghibellini, inviati a Napoli per cercare, con la mediazione del re, una pace che ponesse fine alla lunga guerra civile tra le due fazioni. L’accordo, stipulato il 2 sett. 1331 sulla base di una ripartizione paritaria di tutti gli uffici e magistrature, fu occasione di una lunga serie di festeggiamenti, culminati il 4 ottobre con il ritorno da Napoli degli ambasciatori. Per porre rimedio alla difficile situazione finanziaria, già poche settimane dopo il ristabilimento della pace, con il concorso delle più importanti famiglie cittadine, nobili e popolari, fu istituita la compera magna pacis per consolidare in un’unica amministrazione i grandi debiti contratti sia dai guelfi sia dai ghibellini per finanziare la lunga e logorante guerra civile. Di questa «compera», come di altre create negli anni immediatamente successivi per far fronte alle impellenti necessità finanziarie del Comune (per es. la compera magna mutuorum veterum nel 1339, la compera nova et vetus Gazarie nel 1341, la compera grani nel 1344), il M. fu uno dei più consistenti «partecipi», da solo o con il fratello Lionello, e fu più volte chiamato a far parte dei Collegi di consoli o «protettori» incaricati della gestione di questi «Monti» di credito.
Gli effetti della pace di Napoli furono di breve durata; nel 1335 i ghibellini ristabilirono il loro predominio nel governo del Comune, con i capitani del Popolo Raffaele Doria e Galeotto Spinola, ma il nuovo regime, privo del sostegno popolare, entrò presto in crisi, indebolito dalla perdita di consensi nel ceto mercantile che fino allora aveva garantito il suo sostegno, passando sopra alle differenze fazionarie. Il 23 sett. 1339 una rivolta popolare, iniziata a Savona e presto estesasi a tutto il dominio genovese, portò alla destituzione dei capitani e alla nomina, quasi a furor di popolo, di Simone Boccanegra alla carica di doge. Questo mutamento politico, che diede inizio al cosiddetto dogato perpetuo, portò al governo della città la ricca classe mercantile, della quale i Maruffo erano esponenti di spicco.
L’adesione del M. (che nel 1331 era stato compagno del padre del Boccanegra, Giacomo, anch’egli ambasciatore a re Roberto) al nuovo regime fu immediata, giacché il suo nome figura a fianco del doge non solo il giorno stesso della sua elezione, ma anche fra quel ristretto lotto di giurisperiti, notai, cancellieri, ufficiali e ricchi cittadini chiamati l’indomani a confermarne la legittimità. Dal doge il M. non ricevette incarichi eminentemente politici, ma fu invece quasi subito incaricato, con Oberto Vivaldi, Oliviero Squarciafico e Domenico de Garibaldo, di procedere a una generale revisione e riorganizzazione dell’amministrazione del debito pubblico e della dogana, resasi necessaria dopo che nei tumulti che avevano accompagnato il cambio di regime erano andati distrutti i libri dei creditori del Comune. Questa delicata operazione fu portata a termine già nel febbraio 1340. Due anni dopo – segno evidente della volontà del doge di mettere a profitto le sue conoscenze finanziarie e gestionali – il M. fu prescelto quale titolare di uno dei due uffici di massaro generale, preposto cioè a tutte le operazioni di tesoreria; figurò quindi più volte nelle commissioni di sapientes consultati dal doge in importanti questioni economiche. Che però Boccanegra non intendesse servirsi di lui solo in materia finanziaria appare abbastanza chiaramente dal fatto che nel febbraio-marzo 1344 il M. fu incaricato, con Meliano Cattaneo Mallone e il giureconsulto Giovanni de Galluzzi, di una delicata missione diplomatica ad Avignone, per cercare una composizione amichevole con papa Clemente VI circa le sorti della signoria di Ameglia, contesa tra il Comune e il vescovo di Luni. L’adesione dei Maruffo al governo di Boccanegra (col M., altri membri della famiglia figurano infatti tra gli ufficiali del Comune negli anni del suo dogato, anch’essi generalmente con incarichi finanziari) fu tuttavia sempre piuttosto defilata, tanto che non furono coinvolti nei rapidi mutamenti di fortuna legati all’alternanza dei dogi. Nel 1344 Boccanegra dovette infatti abbandonare il dogato, e fu sostituito dopo alcuni mesi di anarchia da Giovanni di Murta, il cui governo cercò di ispirarsi al modello repubblicano veneziano, senza peraltro molto successo. Il M., che nel 1344 era uno degli Anziani, fu confermato nella carica anche l’anno successivo, sotto il nuovo doge, e ancora figurò tra i consiglieri del Comune in rappresentanza dei mercanti guelfi nel 1346 e 1348.
Nel 1350 edificò per sé e la propria famiglia un monumento funebre nella chiesa di S. Domenico. Nel 1358, in occasione della dichiarazione di maggiore età del figlio Giorgio (un altro figlio a lui attribuito si chiamava Matteo), il M. risulta defunto.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Antico Comune, 45, c. 129; 46, cc. 11, 14, 64; Genova, Biblioteca civica Berio, m.r. XV.4.5: F. Federici, Scrutinio della nobiltà ligustica, pp. 581 s.; m.r. X.2.168: S. Della Cella, Famiglie di Genova antiche e moderne, estinte e viventi, p. 935; Leges Genuenses, a cura di V. Poggi, in Monumenta historiae patriae, XVIII, Augustae Taurinorum 1901, col. 220; Documenti della Maona di Chio, a cura di A. Rovere, in Atti della Soc. ligure di storia patria, n.s., XIX (1979), p. 129; Corpus inscriptionum Medii Aevi, II, Genova, a cura di S. Origine - C. Varaldo, Genova 1983, n. 85 pp. 84 s.; H. Sieveking, Studio sulle finanze genovesi e in particolare sulla Casa di S. Giorgio, in Atti della Soc. ligure di storia patria, XXXV (1905- 06), 1, p. 129; G. Petti Balbi, Simon Boccanegra e la Genova del ’300, Genova 1991, pp. 31, 79, 95 s., 102, 188, 223-225, 320.