MARMITTA, Francesco
– Figlio di Marco, commerciante di cera e lana, nacque a Parma, intorno alla metà del settimo decennio del Quattrocento, come si evince da un documento redatto nella città emiliana il 17 giugno 1495, dal quale risulta verosimilmente maggiorenne già nel 1491 (p. 347 di Bacchi - De Marchi, cui si fa riferimento nel corso della voce se non altrimenti specificato).
Non si hanno notizie certe sulla sua formazione che dovette avvenire agli inizi degli anni Ottanta del Quattrocento sulle opere bolognesi di Ercole de’ Roberti e che risentì certamente delle nuove tendenze pittoriche introdotte da Lorenzo Costa, inserendosi in quel milieu culturale in cui gravitavano figure come Giovan Francesco Maineri o Bernardino Orsi da Collecchio. Negli stessi anni la sua attività di intagliatore di gemme fu probabilmente legata alla frequentazione della bottega del pittore bolognese Francesco Francia, orafo dal 1469.
G. Vasari (Le vite… [1568], a cura di G. Milanesi, V, Firenze 1880, p. 383) lo ricorda nella vita dell’intagliatore di pietre dure vicentino Valerio Belli in una digressione in cui dice del M.: «Fu ne’ tempi a dietro in Parma il Marmita, il quale un tempo attese alla pittura, poi si voltò allo intaglio, e fu grandissimo imitatore degli antichi. Di costui si vedde molte cose bellissime».
Il nome del M. compare nel sonetto scritto intorno al 1483 dall’umanista Giacomo Giglio come introduzione al Canzoniere e ai Trionfi di F. Petrarca da lui copiati in un codice di uso privato (Kassel, Landesbibliothek, Mss. IV poet. et roman, 6). È proprio questo codice, certamente passato per la biblioteca estense all’epoca di Alfonso II d’Este e successivamente forse a Heidelberg, da dove sarebbe giunto nel 1686 a Kassel nell’ambito della cosiddetta «eredità palatina», a contenere le decorazioni del M. che costituiscono l’unica sua opera documentata, cronologicamente collocabile negli anni 1483-85.
Nel sonetto Giglio paragona la propria capacità calligrafica a quella pittorica del M. in quella che appare essere un’ardita iperbole in un’epoca di inevitabile crisi delle due arti in forte declino dopo l’introduzione della stampa. Appartenente a una famiglia di nobili origini decaduta a medio rango, Giglio svolgeva la professione di «strazzarolo», mestiere che poté sicuramente avvicinarlo all’attività del padre del Marmitta. Nel codice petrarchesco il M. mostra di risentire dell’arte di de’ Roberti e Costa, cui associa uno stile antiquario già diffuso in area veneta, mentre il frontespizio dei Trionfi in cui il M. inserisce una cornice con sette cammei di tema erotico-mitologico, e negli angoli della pagina in alto finge due gemme incise, testimoniano il ricorso ai motivi a lui evidentemente familiari dell’oreficeria.
Partendo da questa unica opera certa, sono molte le attribuzioni al M. che si sono susseguite negli anni, a cominciare da quelle fatte da Toesca, che gli ha assegnato il Messale di Domenico Della Rovere, l’Offiziolo Durazzo e la Pala di S. Quintino, la cui ascrizione al M. è ormai unanime.
Il Messale Della Rovere (Torino, Museo civico), miniato a Roma e databile negli anni 1490-92, testimonia un soggiorno del M. nella città papale all’epoca di Innocenzo VIII Cibo, all’ombra di Andrea Mantegna e del classicismo imperante. In base al già citato documento del 1495, in cui si dice che il M. nel 1491 era lontano da molti anni da Parma poiché lavorava «in varie parti del mondo», è stato ipotizzato che egli fosse giunto a Roma sin dalla metà degli anni Ottanta, forse come esperto di pietre preziose, eventualità che giustificherebbe l’impossibile reperimento di sue opere certe.
Realizzato per il cardinale Domenico Della Rovere, il codice entrò a far parte della collezione libraria del committente nella biblioteca del suo palazzo in Borgo Santo Spirito. Il M. nelle miniature del codice, pur mantenendo salde le sue origini emiliane, risente del panorama artistico romano, avvicinandosi in particolare all’arte del cosiddetto «Maestro del Teofilatto», molto apprezzato dal cardinale.
Ulteriori notizie biografiche sul M. si possono desumere ancora dal documento del 17 giugno 1495: l’artista si trovava a Parma in quel giorno per rilevare col fratello Niccolò una casa nella vicinia di S. Paolo dalla parte del borgo della Piazzola, già acquistata nel 1491 dai fratelli Gerolamo e Lodovico. Vi si riferisce inoltre che il M. negli anni precedenti aveva trovato fortuna fuori Parma. A questa data, quindi, il M. era artista affermato, solo di passaggio in patria, poiché già tre giorni dopo l’acquisto della casa sembra essere in partenza, vista la pronta nomina a proprio procuratore del fratello Lodovico.
Nel 1496 era a Parma gravemente malato e il 20 settembre dello stesso anno faceva testamento nominando suo erede universale il fratello Niccolò e, qualora questi fosse morto senza figli, l’altro fratello Lodovico.
Il silenzio documentario nei tre anni successivi lascia supporre un nuovo allontanamento dalla città natale. Nel 1500 il M. era di nuovo a Parma, dove ereditò una serie di beni dalla defunta sorella Antonia, tra cui una casa che affittò con i fratelli; mentre nel novembre dell’anno seguente prese a bottega il giovane Addonardo Ferri.
È databile ai primissimi anni del XVI secolo l’Offiziolo Durazzo (Genova, Biblioteca civica Berio, Mss., arm. I), redatto dal calligrafo reggiano Pierantonio Sallando, attivo a Bologna dal 1489 al 1540. Il committente, ancora ignoto, è forse identificabile con la figura di giurista-notaio o ambasciatore-senatore veneziano presente come astante nella miniatura della Messa della Beata Vergine (Pettenati, pp. 105 s.).
Il codice, ritenuto a buon diritto uno dei capolavori assoluti della miniatura italiana del Rinascimento, è già partecipe della grande moda della pittura a grottesca e in alcuni frangenti denuncia l’influenza dell’arte di Giovanni Bellini, come nella miniatura con la Deposizione, della tradizione padana, nella raffigurazione dei mesi con i segni zodiacali e le attività umane, del gusto antiquario molto vicino ai bronzetti dell’Antico (Pier Iacopo Alari Bonacolsi), ravvisabile in varie figurine di corredo.
La Pala di S. Quintino (Parigi, Louvre), raffigurante la Vergine in trono tra s. Benedetto e s. Quintino e due angeli, è la principale opera su tavola attribuita al M., realizzata, negli anni immediatamente precedenti la sua morte, per il monastero benedettino parmense di S. Quintino.
L’opera si avvale di molti elementi che presuppongono un’esperienza nel campo della miniatura e della glittica, come il tondo con Adamo ed Eva raffigurato nel suppedaneo del trono della Vergine, la scena a monocromo con la Fuga in Egitto immediatamente sottostante e l’Annunciazione inserita nel fermaglio di s. Benedetto.
Tra il dicembre 1502 e l’inizio del 1503, il M. sposò Isabella, figlia dell’orafo Innocenzo Canossa (Montanari, p. 23); il forte legame con gli orefici è ulteriormente confermato dalla notizia che il primogenito Ludovico, nato nell’ottobre del 1503, fu tenuto a battesimo, tra gli altri, dal medaglista Giovan Francesco Bonzagni. Il 25 ott. 1504 nacque il figlio Giacomo (Affò).
Non si conosce l’esatta data di morte del M., che dovette avvenire a Parma prima del 2 giugno 1505, quando risulta deceduto nel testamento del fratello Niccolò, colpito dalla terribile epidemia che decimò la popolazione, come ricorda il cronista parmense Leone Smagliati che lo definisce semplicemente «zoilero».
Fonti e Bibl.: L. Smagliati, Cronaca parmense (1494-1518), a cura di S. Di Noto, Parma 1970, p. 85; I. Affò, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, IV, Parma 1793, pp. 61-68; P. D’Ancona, Di alcuni codici miniati delle biblioteche tedesche e austriache, in L’Arte, X (1907), pp. 25-32; P. Toesca, Di un miniatore e pittore emiliano: F. M., ibid., L (1948), pp. 33-39; Ph. Pouncey, Drawings by F. M., in Proporzioni, III (1950), pp. 111-113; L.A. Pettorelli, La miniatura a Parma nel Rinascimento. G.F. Maineri - F. M., in Parma per l’arte, II (1952), 3, pp. 107-116; L. Montanari, L’Uffiziolo Durazzo, in La Berio, I (1961), pp. 14-27; M. Levi d’Ancona, Un libro d’ore di F. M. da Parma e Martino da Modena al Museo Correr, I, in Boll. dei Musei civici veneziani, XI (1966), 2, pp. 18-35; II, ibid., XII (1967), 4, pp. 9-28; D.A. Brown, Manieri and M. as devotional artists, in Prospettiva, 1988-89, nn. 53-56, pp. 299-308; G. Agosti, Bambaia e il classicismo lombardo, Torino 1990, p. 78; S. Pettenati, La biblioteca di Domenico della Rovere, in Domenico della Rovere e il duomo nuovo di Torino. Rinascimento a Roma e in Piemonte, a cura di G. Romano, Torino 1990, pp. 41-106; F. M., a cura di A. Bacchi - A. De Marchi, Torino 1996 (con ulteriore bibl. e regesto dei documenti); T. Tolley, in The Dictionary of art, XX, London-New York 1996, pp. 453 s.; G.Z. Zanichelli, F. M. e la cultura del monastero benedettino di S. Giovanni Evangelista di Parma, in Rara volumina, III (1996), 1, pp. 15-30; Id., F. M.: il gioielliere della pagina miniata, in Alumina, I (2003), 3, pp. 12-20; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIV, p. 123.