PALLAVICINO, Francesco Maria Sforza
PALLAVICINO, Francesco Maria Sforza. – Nacque a Roma il 28 novembre 1607 da Alessandro dei marchesi di Zibello e da Francesca Sforza di Santa Fiora.
Alessandro Pallavicino, figlio di Alfonso e di Ersilia Malaspina, era l’ultimo discendente dei marchesi Pallavicino del ramo di Zibello e l’unico erede dei rami di Busseto e Cortemaggiore. In prime nozze, nel 1584, aveva sposato Lavinia Farnese, figlia naturale di Ottavio duca di Parma e Piacenza, e aveva seguito Alessandro Farnese nella campagna di Fiandra. Nel 1587 Ranuccio Farnese aveva espropriato i suoi feudi, la parte più consistente dello ‘Stato Pallavicino’, e dopo una vana resistenza, egli aveva lasciato Parma e intentato il processo per il recupero dei feudi presso il Consiglio ducale di giustizia. Insieme al padre, Alfonso (m. 1619), alla moglie e alla primogenita Vittoria Eufrosina (n. 1587), si era rifugiato a Busseto, sulla Riviera di Salò, nel palazzo ereditato da suo padre adottivo, Sforza Pallavicino di Cortemaggiore. Qui era divenuto membro e principe dell’accademia degli Unanimi di Salò, trasformandola in un’accademia d’armi e servendosene come di una vera e propria corte. Entro il 1599 la famiglia si era trasferita a Roma, probabilmente per seguire le cause pendenti presso il Tribunale della Sacra Rota, stabilendosi nei pressi della chiesa parrocchiale di S. Apollinare, nel rione Ponte. A due anni dalla morte di Lavinia (1605), nel gennaio 1607 Alessandro aveva sposato Francesca Sforza di Santa Fiora (n. 1573), vedova del marchese Ascanio della Penna della Cornia e già madre di 9 figli. Alla morte di Francesca, nel 1621, Alessandro sposò Pantasilea di Pietro Caetani, alla quale premorì (1645).
Il 2 dicembre 1607 Pallavicino fu battezzato nella chiesa di S. Apollinare con i nomi di Francesco Maria Sforza, il terzo in onore dell’illustre condottiero padre adottivo di Alessandro. Padrini della cerimonia furono il cardinal nipote Scipione Borghese Caffarelli e Diana Vittori, moglie del principe Girolamo Carafa, entrambi nipoti del papa.
Il nome proprio di Pallavicino è stato oggetto di equivoco già lui vivente, generato dalla rarità del nome proprio ‘Sforza’ e dall’omonimo cognome materno. Nel corso del Novecento la situazione si è ulteriormente complicata per la comparsa – nelle biografie, nei repertori e in testa alle riedizioni delle sue opere – di un presunto nome ‘Pietro’, non confermato da alcun documento. Il nome da lui comunemente usato nella vita pubblica e privata era Sforza (Apollonio, 2013).
Pallavicino apprese privatamente da un sacerdote le nozioni elementari di grammatica, insieme al più giovane fratello Alfonso; intorno al 1618 concluse gli studi medi presso il Collegio Romano, dove era stato allievo di umanità e retorica di Vincenzo Guinigi. Nell’anno scolastico 1621-22 accedette al corso superiore di filosofia e fu alunno di Vincenzo Aranea per i corsi di logica, fisica e filosofia. Il 3 settembre 1625 conseguì il baccalaureato, nel corso di una sontuosa cerimonia allestita dal cardinale Maurizio di Savoia, cui intervenne l’intero collegio cardinalizio e gran parte della nobiltà romana. Suo l’epigramma che dedicava al papa le odi latine composte per l’occasione da Guinigi e poi date alle stampe. Pubblicò le tesi – un esempio del ‘nuovo aristotelismo’ che veniva allora insegnato al Collegio Romano (Baroncini, 1981) in un ricco volume in folio – De universa philosophia… (Roma 1625) – dedicato al pontefice Urbano VIII e regalato a tutti i cardinali presenti alla discussione. Il 2 dicembre dello stesso anno conseguì la laurea in legge alla Sapienza con altrettanto sfarzo e nel dicembre 1628 si addottorò in teologia al Collegio Romano, sostenendo per 5 giorni tesi de universa theologia ispirate dal padre Juan De Lugo, anch’esse poi edite.
Grazie a una straordinaria e precoce attitudine agli studi, frattanto, aveva già iniziato a partecipare alla vita culturale della corte. Nel 1620-21 era annoverato tra i membri del cenacolo riunito attorno al giovane Virginio Cesarini, con Fulvio Testi, Agostino Mascardi, Giulio Strozzi, John Barclay e Giovanni Battista Ciampoli. Probabilmente grazie a Cesarini e Ciampoli, era entrato in rapporti con Maffeo Barberini prima che divenisse papa, aderendo già allora all’etica e all’estetica letteraria, moraleggiante ma comunque aperta al marinismo, del ‘circolo barberiniano’. Tra il 1623 e il 1627 frequentò l’Accademia del cardinale Maurizio di Savoia, dove, il 30 dicembre 1624 pronunciò l’orazione Se sia migliore l’intelletto o la volontà, edita nel 1630 da Mascardi tra i Saggi accademici (Venezia, pp. 50-70) – un documento dell’anti-intellettualismo ben presente nella cultura romana di primo Seicento – mentre nel 1625 era di turno come principe dell’Accademia degli Umoristi, in cui si adoperò per inserire anche l’amico Fabio Chigi, appena entrato in prelatura. Intorno al 1628 sarebbe poi da collocare la composizione dell’orazione Se il principe debba esser letterato, indirizzata al granduca Ferdinando II di Toscana come il saggio da questi richiesto delle sue già note doti di prosatore.
Rimasta a lungo manoscritta, l’operetta vide la luce in forma parziale solo nel 1841 a cura di Angelo Mai e di nuovo nel 1844 grazie a Ottavio Gigli, nell’edizione da questi curata delle Opere edite e inedite di Pallavicino (I, Roma 1844, pp. 1-63).
Grazie a Cesarini ma soprattutto a Ciampoli, del quale divenne amico fraterno, Pallavicino si avvicinò in questi anni anche all’ambiente linceo.
Secondo la testimonianza di Mario Guiducci, nel 1624 tentò con Virginio Malvezzi, suo zio materno, di dissuadere il gesuita Orazio Grassi dal procedere contro la dottrina delle qualità secondarie espressa da Galileo nel Saggiatore. Tra il 1627 e il 1630 fu membro assiduo del privato cenacolo di ispirazione galileiana e antiaristotelica animato da Ciampoli (Favino, 1997). Il 27 gennaio 1629, fu infine ascritto tra gli ultimi all’Accademia dei Lincei, insieme a Pietro della Valle e Lucas Holstenius. Allorché, a un anno dalla morte di Federico Cesi, si aprì il problema della successione alla guida dell’Accademia, si pensò a lui, unico principe di sangue tra i sodali, per quel ruolo, ipotesi poi non perseguita avendo Pallavicino allora già abbracciato lo stato ecclesiastico.
Entrò in prelatura nel marzo 1631, come referendario delle due Segnature e membro delle congregazioni De bono regimine e dell’Immunità Ecclesiastica. Proprio l’intimità con Ciampoli e con il partito dei ‘novatori’ gli costò nel giugno 1632 un brusco scarto di carriera: avendo interceduto presso il papa in favore dell’amico già caduto in disgrazia, venne punito ufficiosamente con l’allontanamento da Roma, incaricato del governo di Jesi (pur restandogli in carico le congregazioni). Né gli giovò allora la parentela con il filospagnolo Malvezzi, inviso ai Barberini e poi esule in Spagna (Bellini, 2009).
Nel 1633 fu quindi destinato al governo di Orvieto e nel 1636 a quello di Camerino. In quegli anni, maturò la decisione di entrare nella Compagnia di Gesù, per assecondare una certa vocazione all’ascetismo e alla spiritualità manifestatasi già nei primi anni della adolescenza. Dopo una trattativa con i vertici della Compagnia, mantenuta riservata per eludere le azioni intimidatorie messe in atto dal padre – che lo avrebbe voluto prelato per riportare il casato agli antichi fasti – il 22 giugno 1637 entrò finalmente nel noviziato di S. Andrea al Quirinale.
Agli anni 1630-37 risale la composizione di un’opera in versi, i Fasti sacri, interrotta al VII dei 14 canti previsti, solo i primi due pubblicati in una bozza di stampa. Pallavicino avrebbe abbandonato bruscamente il progetto al momento di entrare nella Compagnia, cosicché gli altri 5 canti furono editi parzialmente in una tarda antologia curata dall’amico Stefano Pignatelli (Scelta di poesie italiane, Venezia 1686, pp. 160-335) e solo oggi in versione integrale (a cura di S. Apollonio, Lecce 2014). Il tema ha indotto a ipotizzare che il poema, scritto sotto la stretta sorveglianza del papa, rientrasse nel programma di propaganda ecclesiastica antiprotestante promosso da questo negli stessi anni con la revisione del calendario liturgico e la riedizione del breviarium. Nati nell’ambiente del ‘circolo barberiniano’, i Fasti mostrano inoltre una sostanziale consonanza con la poetica – edificata sopra una base scritturale e agiografica – esposta nei primi anni Trenta da Ciampoli nella Poetica sacra.
Concluso il noviziato, Sforza entrò nel corpo insegnante del Collegio Romano, dove lesse logica (1639-40), filosofia naturale (1640-41), metafisica (1641-42). Il 2 febbraio 1641 pronunciò il quarto voto solenne. Nel 1644 succedette alla cattedra di De Lugo, creato cardinale, e continuò questo insegnamento fino al 1652, quando divenne, per un biennio, prefetto agli studi.
Documenti del suo ruolo da protagonista nella promozione della politica culturale della Compagnia a Roma sono due scritti editi nella prima metà degli anni Quaranta. Il primo (Relazione scritta ad un’amico delle feste celebrate nel Collegio Romano ...,Roma 1640) era al tempo stesso il racconto e il programma della festa per il centenario dell’Ordine. Pallavicino aveva probabilmente partecipato anche all’ideazione del complesso ideologico e allegorico degli apparati nel cortile del Collegio, alla cui realizzazione avrebbe collaborato anche Bernini. Il secondo – dramma in lingua volgare dal titolo L’Ermenegildo martire – fu rappresentato il 3 febbraio 1644 dai migliori studenti del seminario e pubblicato integralmente nello stesso anno.
Il dramma segnò una tappa importante nella rielaborazione dei canoni aristotelici della tragedia classica allora in corso entro il teatro gesuitico, sancendo l’adeguamento del canone aristotelico al ‘nuovo’ dramma martirologico, che sostituiva all’eroe tragico il martire cristiano, senza per questo scardinare le prescrizioni aristoteliche. Il sacrificio volontario del protagonista, indiscutibilmente buono e ingiustamente perseguitato, vi era messo in scena come esempio di forza e religione per il popolo, utile per confermarlo nella fede. Nella postfazione al testo edito (Roma, 1644) Pallavicino espose le regole della messa in scena (contro i cambiamenti di scena, i soliloqui e gli interventi a parte). Nella seconda edizione (ibid. 1655), la postfazione assunse forma di lettera indirizzata all’abate Agostino Favoriti, allora segretario del Sacro Collegio, in quanto traduttore latino dell’opera.
L’attivo impegno pedagogico di Pallavicino si accompagnò sempre a un’intensa attività teorico-letteraria, considerata in qualche modo fondativa del pensiero della Controriforma. Nel 1644 uscirono a Roma i 4 libri Del bene (ed. latina, Colonia 1646).
Il trattato di etica universale si presentava come un dialogo tra il cardinale Alessandro Orsini, Gherardo Saraceni, Antonio Quarenghi e il padre Andrea Endemojannes. A queste pagine è affidato quel giudizio estetico che, sulla scorta di Benedetto Croce (1899), ha indotto a vedere nel gesuita un precursore dell’estetica moderna, in quanto pur nell’ambito di un impianto intellettualistico, egli intuiva la peculiarità dei processi artistici. Affermava infatti, che la poesia trova il senso del suo operare nel momento prelogico della ‘prima apprensione’, precedente ogni distinzione tra vero e falso.
Del 1646 sono le Considerazioni sopra l’arte dello stile e del dialogo (Roma), stampate l’anno dopo a Bologna con lievi varianti e un nuovo titolo (Arte dello stile), e infine in una terza e definitiva edizione, abbondantemente riveduta e ampliata, con il titolo di Trattato dello stile e del dialogo (Roma 1662).
L’opera si proponeva di dimostrare la specificità del genere dialogico rispetto ad altre forme di imitazione, allo scopo di chiarire come esso sia il più adatto ai testi di argomento filosofico-scientifico. Nella prima sezione, alla luce di un’ampia riflessione sui problemi linguistici e retorici, Pallavicino individuava la cifra stilistica più consona a questa moderna prosa in un impiego moderato dello splendore nell’elocuzione e delle figure, che la abbellisse senza offuscarne l’insegnamento. Nei capitoli dedicati alla teoria del genere dialogico, egli assegnava anche alla poesia una forma, pur imperfetta e impropria, di conoscenza. A confronto con la teoria della ‘prima apprensione’ esposta in Del bene, dalla critica idealistica queste pagine sono state interpretate come prova di un pensiero estetico contraddittorio e immaturo. Più di recente, un’analisi sinottica delle diverse redazioni ha messo in luce come quel giudizio fosse presente già nella prima redazione del trattato, dunque a ridosso dell’opera morale, e come si debba parlare più che di un ‘percorso scisso’, di una ‘doppia articolazione della poesia’, che la redazione del 1662 fondava in base a un’analisi del ruolo della fantasia nel processo conoscitivo (Bellini, 1990, pp. 75, 137).
Nel 1649 pubblicò a Roma le Vindicationes Societatis Jesu, commissionategli dal procuratore generale Vincenzo Carafa per confutare quanti (come Giulio Clemente Scotti) accusavano la Compagnia di aver abbandonato lo spirito delle origini e di essere governata in modo tirannico.
L’opera, un «vero e proprio manifesto» della corrente dei novatori all’interno dell’ordine (Costantini, 1969, p. 99), individuava l’origine dell’eccellenza dei gesuiti negli studi e della loro competitività nella scienza, nella disponibilità alla discussione e nel primato riservato alla persuasione: un indirizzo che Pallavicino esortava i vertici dell’ordine a preservare. Il gesuita era allora un esponente riconosciuto di questa corrente per aver già sostenuto un aspro confronto con i revisori. I suoi trattati teologici de incarnatione, de gratia, de caritate e de fide, redatti a beneficio degli studenti e già denunciati nel 1645 dal prefetto agli studi, nel 1648 erano stati censurati in blocco perché trovati inemendabilmente intessuti di dottrine nuove. La sua renitenza aveva richiesto un ulteriore esame teologico entro la Compagnia, che aveva finito per dargli ragione. I trattati vennero infatti pubblicati nel 1649 a Roma tra gli Assertionum theologicarumlibri 5. Altri 4 libri uscirono singolarmente nei tre anni successivi. Di un’altra imponente opera teologica, funzionale probabilmente anch’essa all’insegnamento, Disputationum in primam secundae D. Thomae, vennero stampati solo i primi due volumi (Lione 1653). Nel marzo 1649, però, Pallavicino era stato costretto a ritrattare pubblicamente nel Collegio Romano la tesi filosofica zenonista secondo cui «la quantità è composta da meri punti» (Costantini, 1969, p. 100). Entro una cornice apologetica, le Vindicationes prospettavano indirettamente anche un quadro critico della letteratura contemporanea alla luce di un gusto ‘barocco-moderato’ (Croce, 1966). Il campione di questo ‘gusto’, che fondeva vivacità marinistica e gravità classicistica senza trascurare il «gusto dell’intelletto» (Vindicationes, p. 127), risultava essere Ciampoli, del quale Pallavicino avviava in quegli stessi anni l’edizione di una selezione di Rime (Roma 1648) e di Prose (Roma 1649).
Nel 1651 (anno in cui curò l’edizione dei Responsa moralia del cardinal De Lugo) come qualificatore dell’Inquisizione fu chiamato a esprimere il suo parere in seno alla Congregazione speciale istituita da Innocenzo X per esaminare le 5 proposizioni di Giansenio denunciate dai vescovi francesi.
Nel 1656-57 uscì l’Istoria del Concilio di Trento ove insieme rifiutasi con autorevoli testimonianze un’Istoria falsa divulgata sull’istesso argomento da Pietro Soave Polano (Roma ), un «misto consapevole di storia e apologia» (Scotti, 1962, p. 26).
Fu Bernardino Spada, presidente della congregazione, a segnalare Pallavicino al papa come l’uomo più adatto all’incarico di confutare l’Istoria del Concilio di Trento di Paolo Sarpi. Egli subentrava nel compito a Terenzio Alciati, morto prima di finire il lavoro cui attendeva da 25 anni, durante i quali aveva raccolto la parte più cospicua della documentazione.
Malgrado l’uso di una imponente mole di documenti – oltre a quelli raccolti da Alciati, quelli messi a disposizione direttamente dai diversi monarchi – e l’adozione di uno stile ‘storico’ volutamente disadorno, l’opera non mirava a ricostituire la verità dei fatti del concilio ma a screditare l’attendibilità di Sarpi nel merito dei singoli episodi (362 gli errori principali che gli imputò) cosi da condurre una battaglia pubblicistica contro l’anticurialismo propugnato dal servita. Gli unici giudizi assertivi dell’opera riguardavano la superiorità del papato sul concilio e la fede nell’opera della Chiesa di Roma, intesa però esclusivamente come istituzione temporale e politica. L’opera, riedita nel 1664 con notevoli varianti formali, suscitò da subito aspre polemiche in campo protestante ma anche cattolico (primo tra tutti ancora Giulio Clemente Scotti). Il suo carattere ideologico ha a lungo orientato il giudizio della critica su Pallavicino. Benché, dai primi dell’Ottocento, avesse prevalso una tendenza a scindere il pensiero dallo stile, apprezzato se non ammirato, il severo giudizio espresso sull’Istoria da Francesco De Sanctis negli anni Settanta dell’Ottocento («voce leziosa e affettata dei riformatori», De Sanctis, 1958, p. 794) ha oscurato a lungo la sua fortuna, fino alla riscoperta del pensiero estetico di Pallavicino da parte di Benedetto Croce.
All’ascesa al soglio pontificio dell’amico Fabio Chigi, Alessandro VII (1655), Pallavicino entrò a fare parte del gruppo dei suoi intimi e consiglieri, anche prima di divenire cardinale. Riservato in pectore fin dalla prima promozione, ricevette il cappello cardinalizio il 10 novembre 1659, con il titolo di S. Susanna, commutato l’anno dopo in quello di S. Salvatore in Lauro. In questa veste egli fu tra gli ispiratori dei principali atti di governo del pontefice.
Nel 1656 era stato tra gli ispiratori della bolla sul nepotismo emanata il 12 maggio. In un parere teologico espresso su richiesta del papa (Biblioteca apostolica Vaticana, Chigi, C.III.70, cc. 156-159), Pallavicino aveva ammesso la chiamata dei nipoti entro determinati limiti: una dotazione discreta, l’elezione al cardinalato dopo una vita clericale, una vita morigerata e la liberazione per le creature dall’obbligo di obbedienza ai nipoti nei futuri conclavi. Nel 1656, sarebbe stato lui a dettare la linea del papa in relazione alla questione del lassismo, suggerendogli di non condannare la dottrina in blocco con una bolla, ma di colpire singole proposizioni lassiste, già denunziate o condannate in parte dall’Università di Lovanio e da vescovi belgi e francesi (come fece il S. Uffizio nel 1665 e nel 1666). Questa posizione ‘interlocutoria’ rispondeva ai suoi personali convincimenti: pur avendo insegnato il probabilismo (De actibus humanis, 1649), con gli anni si era andato persuadendo del contrario, come si evince dal carteggio. Avrebbe inoltre suggerito al papa anche lo spirito della bolla Sollicitudo omnium Ecclesiarum (8 dicembre 1661). La bolla, riconoscendo il peso della tradizione, rinnovava i decreti favorevoli al privilegio dell’Immacolata Concezione riconosciuto alla Vergine dai predecessori, ma proibiva, in attesa di una decisione della S. Sede, di incolpare coloro che sostenevano l’opinione contraria di eresia o peccato mortale. Nel 1665 fu con Francesco Albizzi l’ispiratore della bolla Cum ad aures, in cui il papa condannò gli orientamenti gallicani della Sorbona e del Parlamento di Parigi rinvigoriti dalle prese di posizione pontificie contro il giansenismo. Personalmente contrizionista (De virtute et sentimento penitentiae, 1651), nella controversia scoppiata nei Paesi Bassi, Pallavicino consigliò invece moderazione verso l’attrizionismo in ragione del seguito che esso incontrava, influendo, probabilmente, sul decreto del S. Uffizio del maggio 1667 che imponeva il silenzio alle parti in attesa di una decisione della Chiesa. Nella discussione sorta durante il pontificato Chigi a proposito della sede legittima di residenza del papa, egli espresse una posizione più flessibile del suo oppositore, Luca Olstenio, assecondando con ciò le inclinazioni di Alessandro VII. Contro Olstenio, il quale affermava che solo a S. Pietro il papa poteva davvero essere fedele alla sua principale missione pastorale, Pallavicino approvava la residenza in Quirinale, per ragioni disciplinari, canonistiche e logistiche, data la perifericità del Vaticano rispetto all’asse di insediamento della popolazione. Tra il 1657 e il 1660 si adoperò a favore della Repubblica di Venezia per ottenere dal papa aiuti in denaro e in armi a sostegno della guerra contro gli Ottomani per il controllo su Cipro, malgrado nel 1658 i Riformatori dello Studio di Padova e il senato ratificassero il decreto di espulsione della sua Istoria dal territorio della Serenissima. Il suo atteggiamento non intendeva nuocere alla posizione della Compagnia di Gesù, da poco riammessa sul territorio veneto.
Alessandro VII, invecchiando, cedette sempre più ai nipoti, con dolore di Pallavicino. Una consuetudine storiografica, oggi superata, anzi, attribuisce proprio alla sua amarezza per questo voltafaccia la ragione dell’interruzione nel 1659 nella stesura della Vita di Alessandro VII, cui attendeva fin dal 1656. Più verosimilmente, essa fu dovuta alla sua nomina cardinalizia e all’aumentare delle incombenze.
La biografia, attentamente revisionata dal papa in corso d’opera, doveva essere nelle intenzioni di Pallavicino un’opera di edificazione per i cattolici, attraverso il ritratto delle virtù del vicario di Cristo in terra. Rimase manoscritta fino all’edizione del 1839 (I-II, Prato), allestita sulla copia, meno buona, presente nella biblioteca Albani. L’originale, infatti, era stato lasciato in eredità dal cardinale a Flavio Chigi e da questi alla biblioteca di famiglia (oggi in Biblioteca apostolica Vaticana, Chigi E.I.1-15). Nell’Ottocento, dalla copia Albani furono stralciati e pubblicati singolarmente anche i racconti di due tra i maggiori successi politici del pontificato Chigi: la vittoria della Congregazione della sanità sulla peste del 1656 (Descrizione del contagio che da Napoli si comunicò a Roma nell’anno 1656 ..., Roma 1837) e la residenza romana di Cristina di Svezia (Descrizione del primo viaggio fatto a Roma dalla Regina di Svezia Cristina Maria ..., ibid. 1838), entrambi oggi tra le principali fonti su quegli eventi. Alla corte romana di Cristina, peraltro, Pallavicino ebbe un ruolo di primo piano, essendo stato accostato dal papa alla neoconvertita come guida spirituale e morale, oltre che come tramite informale con la Curia.
Durante il pontificato di Alessandro VII, fu anche «il perno intellettuale del circolo chigiano» (Montanari, 1998, p. 136), mentore e ispiratore della ‘Pleiade alessandrina’ dei versificatori latini della corte.
A essi propose come motivo letterario la celebrazione di Gian Lorenzo Bernini, al quale lo legava un’amicizia risalente al pontificato Barberini, divenuta con gli anni più stretta. Egli stesso si adoperò per amplificarne e perpetuarne la fama, inserendo in tutte le sue opere, dai Fasti sacri all’incompiuto trattato sulla Provvidenza, riferimenti a lui nel contesto di una teoria dell’arte sviluppata in un ampio contesto filosofico, teologico o teorico letterario. Il corpus di aneddoti, topoi e terminologie con cui Pallavicino si riferisce a Bernini nelle sue opere compare anche nelle prime Vite del Bernini, che Pallavicino contribuì molto a vedere realizzate (Montanari, 1997). In questo repertorio, condiviso anche da altri testi coevi (Bellini, 2009), è stato visto di recente uno specchio della teoria d’arte – ‘arte dell’espressione’ finalizzata alla salvezza – propria della Roma barocca (Delbeke, 2012).
Pallavicino rimase sempre un attento osservatore degli sviluppi del discorso scientifico. Ne recepiva, però, le nuove acquisizioni all’interno di una cornice teorica aristotelico-tomistica, adottando tutti gli escamotages di repertorio tra i gesuiti per farle convivere: l’ipoteticità dei sistemi cosmologici, la separazione tra fisica e cosmologia, da un lato, matematica e meccanica dall’altro. Questa stessa chiave di lettura – sperimentalismo aggiornato e quadro filosofico aristotelico – fu quella che indirettamente suggerì anche agli editori dei Saggi di naturali esperienze del Cimento, un testo che rivide foglio a foglio prima della stampa, per ripulirne la lingua (Bertoloni Meli, 1998).
Nel 1665 uscì a Roma l’ultimo suo testo, l’Arte della perfezione cristiana, un’opera di edificazione in due libri: una disamina dei vizi che dominano l’animo umano e un prontuario di rimedi per purgarsene e indirizzare l’animo al desiderio dei beni eterni.
Morì a Roma il 4 giugno 1667, a pochi giorni da Alessandro VII, di un’infezione intestinale.
Non riuscì a occupare la stanza che gli era stata preparata per il conclave da cui sarebbe riuscito eletto Giulio Rospigliosi. Le sue ultime ore di vita sono documentate in dettaglio grazie alla relazione stesa dall’allievo Silvestro Mauro, sopravvissuta in numerose copie. Oltre che un esempio di buona morte, il testo fu diffuso per fugare dubbi su una sua eventuale circonvenzione da parte della Compagnia, che Pallavicino aveva nominato sua erede universale, e per rendere nota l’istanza di riforma moralizzatrice della prassi nepotista che egli avrebbe dovuto far valere in conclave anche a nome di altri cardinali.
Esposto, dopo l’autopsia, nella chiesa del Gesù, fu sepolto per sua espressa volontà nella chiesa del noviziato di S. Andrea al Quirinale. Nel testamento, steso il giorno stesso della morte, destinava la maggior parte dei suoi libri alla biblioteca comune dei lettori del Collegio Romano. All’amico Stefano Pignatelli lasciava i manoscritti, tra i quali i 5 libri inediti dei Fasti sacri e un’opera incompiuta in forma di dialogo di argomento filosofico-morale, Della Provvidenza, edita però solo nell’Ottocento da Ottavio Gigli. Le lettere, che voleva fossero distrutte, vennero invece pubblicate dal suo segretario Giovanbattista Galli Pavarelli già nel 1668. Nel testamento distribuì tra gli amici anche i doni di Gian Lorenzo Bernini: al cardinal Girolamo Casanate un ritratto a penna di Alessandro VII del 1665; ancora a Pignatelli, un crocifisso in bronzo simile a quello realizzato per il re di Spagna e conservato presso l’Escorial (Montanari, 1997).
Fonti e Bibl.: Oltre alle fonti indicate nel testo e a quelle presenti nel catalogo elettronico Manus on-line (http://manus.iccu.sbn.it), si segnalano: Arch. di Stato di Terni, sez. di Orvieto, Arch. del governatore, sez. Cancelleria criminale, B. 111, 1 (1632-42), sez. processi, B. 69 B 1 (1636); Arch. di Stato di Roma, 30 notai capitolini, uff. 11, 27 giugno 1657; Auditor Camerae, sez. 44, prot. 21; Misc. famiglie, b. 133; Roma, Arch. Storico del Vicariato, S. Apollinare, Battesimi, I, c. 77r; Ibid., Arch. Romanum Societatis Iesu, Epp. NN. 96, cc. 146-176; Fondo Gesuitico, 431, c. 245; 499, cc. 428-433; 657, cc. 547-640; 658, c. 55v; 664, c. 252; 666, cc. 191-193, 877; 1010; Hist. Soc. c. 5, cc. 145-147; Instit. 135, cc. 163 s.; Instit. 56e, c. 772; Opp. NN. 270-278; Rom. 131 II, cc. 512-523; Rom. 186, cc. 155-168; Bibl. apostolica Vaticana, Barb. Lat. 6474, c. 44r; Barb. Lat. 6550; Barb. Lat. 8788; Urb. Lat. 1625-1628. A. Chacon, Vitae et res gestaePontificum Romanorum et S.R.E. 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