DORIA, Francesco Maria
Nacque a Genova il 28 ott. 1707 da Brancaleone e da Maria Giovanna Saluzzo e fu ascritto al Libro d'oro della nobiltà genovese il 15 dic. 1728. Non abbiamo notizia di una sua partecipazione alle cariche pubbliche fino al 1742, anno in cui venne nominato ministro plenipotenziario in Francia. "Abbiamo appreso onninamente necessario - sostenevano i serenissimi Collegi - che risieda a quella corte un nostro patrizio interessato nelle convenienze della Repubblica e fornito di fina oculatezza, profonda penetrazione, accertato contegno e robusto zelo" (Arch. di Stato di Genova, Arch. segreto, 2709).
Non erano formule di cortesia, perché la situazione internazionale era tale da indurre la Repubblica a mobilitare davvero le forze migliori, specie per una destinazione come Parigi. L'Europa era in guerra per la successione austriaca e sulla pur neutrale Genova incombevano pericoli gravi: "Il primo - secondo le istruzioni del D. approvate dal Senato il io agosto - [era] d'essersi ne' passati preliminari di pace del 1735 veduta all'impensata, con la concessione al re di Sardegna del Tortonese e de' feudi delle Langhe, formata una barriera al proprio dominio nella riviera di ponente e parte di tramontana, barriera che ben si scorge di quale soggezione sia, e più si è veduta spoliare delle ... cinque terre, cioè Rezzo, Alto, Caprauna, Bardineto e Carosio ... con quelle conseguenze di disturbi di confini, intersecazioni di strade, che rendono sempre più gravosa la perdita" (ibid.). In secondo luogo c'erano da temere le aspirazioni sabaude ad uno sbocco sul mare mediante l'acquisto di Savona o del Finale, richiamate nella "convenzione provvisionale" stipulata all'inizio del 1742 tra il re di Sardegna e Maria Teresa. Infine si nutrivano preoccupazioni che il Savoia si impadronisse dello Stato di Milano, nel qual caso la Repubblica "perverrebbe ... ad essere quasi per ogni parte nelle bracchia di si potente vicino" (ibid.). A tutti questi pericoli solo la Francia sembrava offrire riparo, e di qui nasceva l'importanza della legazione di Parigi.
Il D., ricevute in agosto istruzioni e credenziali, partì per la Francia il mese dopo. Arrivò a Marsiglia il 2 ott. 1742, "dopo vari giorni di noioso viaggio" e dopo aver fatto un brutto incontro con le navi inglesi presso Hyères. Il 12 ottobre era a Lione, ansioso di giungere a destinazione per dimostrare "capacità eguale al mio zelo"; il giorno 16 entrò a Parigi, il 22 presentò le credenziali. Una settimana dopo si incontrò con il cardinale A.-H. de Fleury per discutere le notizie circa le trattative fra Inghilterra Austria e Piemonte per la cessione di Savona al re sardo.
"Non fu difficile - scriveva il D. - il far comprendere a Sua Eminenza le luttuose conseguenze di tale perdita, ... la desolazione del nostro comercio, l'ingrandimento sempre più considerabile del re di Sardegna nell'acquisto della marina che unicamente gli mancava per renderlo indipendente dalle altre potenze, e l'interesse che aveva in ciò questa corte principalmente per il comercio del Mediterraneo che ne verrebbe sommamente pregiudicato" (Arch. di Stato di Genova, Arch. segr., 2223). Nei mesi seguenti le acque parvero calmarsi, consentendo al D. di volgere i propri colloqui su altri temi: la questione di Corsica, sempre delicata dopo gli avventurosi tentativi di re Teodoro e relativamente alla quale il rappresentante genovese tentava di convincere R-L. Voyer d'Argenson che la pace stava tornando nell'isola grazie alla clemenza del suo governo; o un'interminabile pratica doganale circa il commercio di vino dalla Francia alla Liguria, e le frodi fiscali che i comandanti francesi commettevano impunemente ai danni della Repubblica, che invano chiedeva il diritto di perquisire le loro navi.
Il problema sabaudo tornò in primo piano il 22 sett. 1743, giorno in cui il D. ricevette comunicazione ufficiale del trattato di Worms sottoscritto dieci giorni prima da Carlo Emanuele III e Maria Teresa, con il quale al re di Sardegna venivano accordati il marchesato di Finale e tutti i feudi imperiali posseduti dalla Repubblica. "Se questo si eseguisse - scriveva il diplomatico genovese - in poco tempo la Repubblica è perduta; qui si tratta dell'ultimo dei mali e per ciò conviene fare ogni sforzo per evitarlo" (ibid.). La salvezza poteva venire solo dalle potenze borboniche, che in passato si erano mostrate malfid (specie la Francia: "gli esempi di Corsica sono assai funesti e freschi..."), ma or avevano "tutto l'interesse d'aiutare Vostre Signorie serenissime". D'altronde la situazione era talmente disperata che non si poteva andare per il sottile: "Ne' casi estremi senz'azardare qualche cosa non può sperarsi salvezza" (ibid.). Il D. fece allora una scelta di campo definitiva a favore della guerra e fu tra coloro che più si adoperarono a persuadere il Senato in tal senso (viene così smentito il parere di Ange Goudar e di Franco Venturi, secondo cui le vecchie famiglie erano compattamente schierate per la neutralità: cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, p. 201).
Il 13 ottobre il D. fustigava l'inerzia genovese: "A già passato un mese da che l'iniquo trattato si è concluso in Worms, e Vostre Signorie serenissime ancora non anno aperta bocca: il tempo è prezioso" (Arch. segreto, 2223). La Francia non si sarebbe mossa per puro arpore di giustizia, bisognava che Genova desse prova di buona volontà e secondasse gli interessi dei Gallispani, anche a costo di qualche sacrificio: "Io so l'infelice situazione della Repubblica e le angustie del di lei erario, ma credo ancora assai di fermezza, di zelo e d'amore per la Patria non solo ne' patrizii, ma ne' cittadini tutti per contribuire tutti sino all'ultimo tutti li sforzi possibili per conservarla. Bisogna ben munire le loro fortezze con buona artiglieria, mettere a coperto dall'attacco degl'Inglesi la marina del Finale, far occupare dalle loro milizie sostenute da qualche numero di truppe pagate tutte le montagne per cui puonno tentare l'ingresso i Piemontesi, bisogna infine diffendersi sino all'ultimo, e diffendersi così lungamente che li interessati ad opporvisi possano arrivare in tempo di soccorrerci: se si ha da morire moriamo, e veda almeno l'Europa tutta che abbiamo fatto il nostro debito" (ibid.).
La dignità della Repubblica e la sua volontà di resistere alle prepotenze trovarono qui una felice espressione; eppure nulla come la guerra di successione austriaca mostrò la debolezza e l'anacronismo del piccolo Stato aristocratico. La Francia ne attizzava le paure per costringerlo ad armarsi, ma il denaro scarseggiava e la guerra risultava finanziariamente insostenibile. Peggio, non si riusciva neppure a pagare i diplomatici: il D. nel giugno 1744 prospettò al proprio governo la necessità di "seguitar Sua Maestà all'arrnata", ma avvertiva che "d'estenuata sua borsa" non poteva affrontare la spesa straordinaria. Ciò nonostante trovò il denaro per partire alla volta delle Fiandre e tra giugno e luglio del 1744 fu ad Arras, poi a Lilla ed a Warneton da dove seguì l'assedio di Ypres, a Dunkerque, a Saint-Quentin. Il 3 agosto era di nuovo a Parigi e di lì informò il suo governo che le cose volgevano al peggio per il re di Sardegna: "Vostre Signorie serenissime donque, se più n'è tempo, pensino a proffittarne per trarne qualche vantaggio, onde non venga limitato alla sola conservazione del Finale. Sono inconsolabile in pensare alla bella occasione che si è perduta di fare un convegno prima che venisse il caso del forzoso accomodamento del re di Sardegna, in seguito del quale partecipare allo spoglio a cui dovrà accomodarsi" (Arch. segreto, 2224).
Il D., più che a difendersi, pensava ormai ad attaccare. Lasciata nuovamente Parigi fu a Metz verso la fine d'agosto; il 5 settembre ebbe un lungo colloquio col marchese d'Argenson, discusse con lui i termini di un eventuale impegno genovese nella guerra e avanzò pretese non solo sui feudi imperiali, ma anche su Alessandria e Tortona. Il 2 ottobre era a Lunéville, dove incontrò il re di Polonia; il io a Strasburgo, dove andava persuadendo tutti i suoi interlocutori "essere indispensabile l'abbassamento del re di Sardegna" (ibid.). Il 9novembre, di nuovo a Parigi, illustrò al d'Argenson i fondamenti storici delle pretese genovesi su Oneglia; il 22 febbr. 1745 riferì preoccupato le voci "di qualche maneggio della Francia con il re di Sardegna"; ma il 6 maggio tornò a sollecitare la Repubblica perché rompesse gli indugi e si impegnasse a fianco dei Borboni in una guerra che era, sì, rischiosa, ma rappresentava l'ultima risorsa: se pericolo c'era, era "assai remoto, e in ogni caso non paragonabile alla certezza ... di vedersi presto o tardi spogliare del Finale e del resto" (ibid.). Raccomandazione ormai inutile, perché Genova il 1º maggio 1745 aveva firmato con Spagna, Francia e Napoli il trattato di Aranjuez, in base al quale le monarchie borboniche garantivano l'integrità del territorio ligure in cambio dell'intervento genovese contro il Piemonte. Il D. vide cosi coronate le proprie aspirazioni e per ciò stesso la sua missione andò perdendo rilievo. Il 30 maggio si trasferì di nuovo in Fiandra al seguito del re: fu a Lilla sino al 1º luglio, poi a Gand e a Oudeenarde. Tornò a Parigi, anzi a Versailles, il 13 settembre e vi rimase fino a tutto dicembre 1745. Il 26 febbr. 1746 scadeva il termine della sua legazione, ma fu invitato a trattenersi sino all'arrivo del successore, Gian Francesco Pallavicini. Restò infatti sino al 1º maggio, quando ebbe l'udienza di congedo, e rientrò in patria giusto per restare coinvolto nella controffensiva austrosarda e nella resa del 6 sett. 1746.
Liberata la città grazie all'insurrezione popolare del 5-11 dicembre, si pensò nuovamente al D. per una missione presso Sua Maestà britannica. Il governo genovese era ansioso di dimostrare a re Giorgio II "l'innocente sua condotta" e di coltivare l'amicizia di quel sovrano, e a tal fine destinò a Londra l'ex ambasciatore di Parigi, che aveva dato buona prova di sé. Il D. partì verso la metà di gennaio, giunse a Marsiglia il 26, ebbe un colloquio con il maresciallo Ch.-L.-A. Belle Isle al quale rappresentò, senz'esser preso troppo sul serio, "l'estrema angustia di contanti" in cui versava il governo di Genova (Arch. segreto, 2227). Poi, ossequiato l'infante don Filippo, proseguì il viaggio alla volta di Parigi per ricevere i passaporti necessari e trasferirsi a Londra. Arrivò nella capitale francese il 9 febbr. 1747 e il 19, a Versailles, vide in udienza privata Luigi XV, al quale illustrò la situazione critica della Repubblica, implorando "la pronta assistenza di Sua Maestà con soccorsi di truppe e de denari", senza cui era "innevitabile la rovina" (ibid.).
Il 10 febbraio un dispaccio da Londra del ministro G. B. Gastaldi comunicò al D. il rifiuto del governo inglese di riceverlo, ed egli si rassegnò a fermarsi in Francia, dove il serenissimo governo lo lasciò sino al principio del 1748 a perorare stancamente la causa della Repubblica con scarse istruzioni ed ancor più scarsi appannaggi: "Mi veggo tuttavia differiti i mezzi e provvedimenti - scriveva l'8 genn. 1748 - senza de quali né io posso continuar qui il mio soggiorno, né condurmi alle conferenze di Aix-la-Chapelle, allorché sciolte tutte le difficoltà si vengano ad aprire"; e ribadiva "le necessità in cui mi son trovato di ricorrere ad espedienti per poter sussistere" (Arch. segreto, 2230). Ad Aquisgrana fu effettivamente destinato nel successivo mese di marzo per seguire le conferenze di pace; ma riuscì a trasferirvisi solo ad aprile, grazie a 12.000 franchi prestatigli da un amico.
Vi trovò un clima difficile. Le potenze trattavano i propri interessi poco curandosi della piccola Repubblica, anzi mirando ad escluderla dalle conferenze che non la riguardassero direttamente, o a stipulare accordi alle sue spalle. Ed erano sempre vivi i timori che il Savoia riuscisse a vanificare il trattato di Aranjuez, ottenendo "non solo l'adempimento del contratto di Worms, ma l'usurpazione di Savona o di altra parte del nostro Dominio" (Arch. segr., 2772). Lo stesso governo genovese complicava i negoziati col pretendere ingrandimenti nei feudi imperiali.
Il 15 luglio 1748 le istruzioni del D. insistevano per i massimi vantaggi territoriali, pur accettando risultati più modesti se le potenze non avessero inteso cedere. Essenziale era che tutti i contraenti garantissero l'integrità della Repubblica per parare ogni futura pretesa del re di Sardegna e che si ottenesse dagli Austrosardi sia la restituzione delle artiglierie ed attrezzature trafugate dai forti liguri, sia gli indennizzi ai privati per evitare che costoro fossero costretti ad avviare uno spiacevole contenzioso con le corti presso le quali avevano piazzato i propri capitali. Il D., che era stato tra i più decisi a volere la guerra, si mostrava ora niente affatto conciliante: protestava perché il Ducato di Massa era destinato agli Este "precludendo per sempre alla Repubblica ogni strada di farne acquisto"; sollecitava i Collegi a pretendere "gli onori regi ... che alla Repubblica serenissima sono dovuti per tanti titoli, e specialmente per quello del singolar valore e fermezza dimostrata in questa guerra" (ibid.). Soprattutto non tollerava d'esser tenuto in disparte: "Egli è indecente che un loro patrizio, incaricato della loro plenipotenza, viva dagl'altri plenipotenziari segregato. Un giurisperito potrà forse essere loro più utile per ciò che resta ancora a farsi , io che qui non fo che rovinarmi ed annoiarmi, e che comincio a perdervi la salute, suplico Vostre Signorie serenissime ... ad accordarmi il mio congedo" (ibid.). Ebbe quasi una crisi di coscienza, sentendo minacciata e tradita la sua piccola patria, e il 18 ott. 1748 acconsentì a firmare il trattato generale di pace, che riteneva ingiusto, solo per evitare mali peggiori. Ma subito dopo rimise agli altri ministri una nota di protesta perché nel trattato stesso la Repubblica risultava menzionata dopo il duca di Modena, ciò che poteva pregiudicarne il rango.
Restò ad Aquisgrana sino ai primi di dicembre, poi tornò a Parigi da dove il 17 di quel mese implorava il rimborso delle molte spese straordinarie sostenute. Infine rientrò a Genova, con la fama di abile diplomatico e di "cavaliere di molta letteratura", tanto che fu attribuita a lui la Storia di Genova dal trattato di Worms fino alla pace d'Aquisgrana, che era invece opera di Gian Francesco Doria. Negli anni successivi ne perdiamo le tracce fino al 28 apr. 1754, allorché si sposò con Livia Maria Gentile, dalla quale ebbe due figli, Brancaleone eCesare, nati rispettivamente il 19 maggio 1755 ed il 2 genn. 1760. La sua carriera politica non ebbe impennate, muovendosi nei binari di una normale partecipazione alle cariche di governo: fu nominato senatore il 30 dic. 1754 ed il 16 giugno 1766, procuratore il 18 dic. 1775, inquisitore di Stato nel febbraio 1778.
Il D. morì a Genova il 1º maggio 1784.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Genova, Archivio segreto, 2223-2225 (Lettere ministri, Francia, 1742-1746); 2227-2228 e 2230 (Lettere ministri, Francia, 1747-1748); 2709 (Istruzioni a ministri, Francia, 1698-1796); 2772 (Corrispondenza col M. Francesco Maria Doria circa il trattato di pace di Aquisgrana, 1748); 2849/107, 2853/69, 2855/41 (Nobilitatis); Genova, Bibl. univers., mss. B. I. 50: Cataloghi di dame e cavalieri..., cc. 90v, 94r, 97v; B. VI. 9: Famiglie e notiziediGenova, cc. 40, 185, 191, 200, 706; C. IX. 20: A. Della Cella, Famiglie di Genova..., II, cc. 25v, 28r; [G. F. Doria], Della storia di Genova dal trattato di Worms fino alla pace d'Aquisgrana libri quattro, Leida [ma Modena] 1750, pp. 26, 238 s.; [F. M. Accinelli], Compendio delle storie di Genova dalla sua fondazione sino all'anno 1750, II, Lipsia [ma Massa] 1750, pp. 272, 274 s.; Avvisi [di Genova], n. XLIV, 31 genn. 1778, p. 259; M. Staglieno, Lo storico Giovanni Francesco Doria e le sue relazioni con Ludovico Antonio Muratori, in Giorn. ligustico, XI (1884), pp. 401 s.; V. Vitale, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, in Atti della Soc. ligure di storia patria, LXIII (1934), p. 151; Id., Breviario della storia di Genova, Genova 1955, I, pp. 338 s., 360 s., 388, 419; V. Spreti, Enc. storico nobiliare ital., App., II, p. 36.