MALETTA, Francesco
Figlio di Antonbono, nacque probabilmente a Mortara prima del 1420. Per quattro anni fu commissario ducale a Trezzo d'Adda (Arch. di Stato di Milano, Reg. Missive, 25, c. 229). Nel 1447 consegnò certe munizioni a Francesco Sforza, genero del defunto duca Filippo Maria Visconti. All'inizio del 1448 fu inviato a Parma, costituitasi in Repubblica, per collaborare con le autorità cittadine al governo delle genti d'arme sforzesche e milanesi. Il suo operato energico suscitò scontento e i Parmigiani chiesero allo Sforza di allontanarlo; il conte lo destinò ad altri incarichi, ma molti uffici locali, negli anni successivi, finirono nelle mani dei suoi più stretti parenti. Due fratelli si accasarono vantaggiosamente in città e lo stesso M. sposò la nobile Bianca Arlotti.
Nel 1451 il M. fu posto a capo della cancelleria ducale dei Benefici ecclesiastici vacanti che si occupava anche della riscossione della tassazione del clero. L'indulto papale del 1451 dava facoltà al duca di Milano di esercitare sostanziosi poteri in questa materia, ma non era opportuno calcare troppo la mano e si cercò di rassicurare il papa: era stata nominata una persona discreta e onesta, che avrebbe riferito puntualmente al principe ogni provvedimento adottato. Il M. ricoprì questo incarico fino all'aprile 1459, quando la cancelleria del M. fu soppressa e la materia beneficiale affidata a un prelato di alto profilo.
Il M. non mancò di trarne parecchi vantaggi privati. Nel 1456 ottenne per esempio dal monastero pavese di S. Lanfranco l'investitura di una tenuta di 1500 pertiche di prato irriguo e attorno al 1460 ebbe dal vescovo di Lodi una possessione dove si allevavano numerosi capi di bestiame da latte. Il fratello Battista, abate di Chiaravalle piacentina, passò nel 1452 alla ricca abbazia di Morimondo. Oltre ai vantaggi, il M. subì qualche incomodo: gli oratori milanesi chiesero a papa Callisto III di concedergli l'assoluzione per tutte le pratiche svolte per ordine del duca, comprese le esecuzioni contro ecclesiastici e chiese.
Successivamente il M. fu impiegato in numerosi incarichi e nel grande corpus di carte sforzesche, dal 1450 al 1479, il suo nome compare con impressionante frequenza. Dal 1461 si occupò a più riprese degli affari di Genova, dove il duca di Milano Francesco Sforza sosteneva segretamente gli Adorno e i Fregoso contro i Francesi, e nel 1462 fu nominato commissario di Piacenza mentre esplodeva una preoccupante rivolta contadina contro l'esosa fiscalità ducale. Torme di contadini assaltavano le case degli esattori delle tasse e il M. cercò di acquietare i capi della rivolta promettendo alleggerimenti fiscali, ma ogni intervento fu inutile: la ribellione si estendeva e i fondamenti del nuovo Stato ducale si rivelavano drammaticamente fragili. Ai primi di giugno il M., recatosi presso un castello del conte Onofrio Anguissola che aveva preso la direzione della rivolta, si trovò circondato da centinaia di contadini minacciosi e fu messo in salvo dall'arrivo di una squadra ducale; nella scaramuccia che seguì molti soldati furono uccisi. Solo in autunno il moto fu sedato mediante dure misure repressive. Il M. era ancora a Piacenza verso la fine del 1463, alle prese con quotidiani problemi di prelievo fiscale e di ordine pubblico, e di nuovo fu prescelto per un incarico scomodo e pericoloso, in qualità di governatore della Corsica.
Gli Sforza avevano recentemente acquistato la Corsica dal Banco di S. Giorgio, ma si erano trovati a fronteggiare i disordini suscitati dai leader locali e le iniziative di alcune potenti famiglie genovesi, fra le quali spiccavano i Fregoso nella figura di Tommasino, che aspiravano al dominio sull'isola e controllavano le principali piazzeforti. Prima di partire il M., conscio del pericolo, fece testamento (istituendo erede il cognato Carlo Arlotti) e giunse in Corsica in settembre, accompagnato da 300 fanti armati, con pieno mandato di concedere investiture e stipulare convenzioni; fu abbastanza fortunato, perché i capi locali, stanchi di guerre e discordie, si sottomisero, i Fregoso si ritirarono e le principali fortezze si arresero. Tuttavia i soldati reclamavano il soldo e già iniziavano a rubare e devastare; c'era forte malcontento per la taglia imposta dai Milanesi e per gli alloggiamenti di soldati nelle campagne. Temendo per la propria vita, il M. ottenne di essere richiamato, ma fu sottoposto a sindacato per dare un segnale positivo ai notabili locali.
Ritornato in patria, più di una volta il M. sopportò con pazienza vessazioni e piccoli torti da parte del principe: trasferito, nel marzo 1466, da Piacenza alla commissaria di Lodi, chiese e ottenne una sorta di attestato di aver ben operato, ma già nell'estate dell'anno successivo si parlava della sua sostituzione con un anziano consigliere. Il M. si adeguò come sempre e cercò piuttosto di cogliere le opportunità che via via si presentavano: nel 1468 ebbe in dono il reddito del pedaggio del ponte sul Po di Piacenza e altri remunerativi offici per i suoi parenti. Alla fine del 1471 fu scelto per un'altra missione impegnativa: le relazioni tra Milano e Napoli si erano deteriorate e occorreva un ambasciatore energico e capace di fronteggiare le intimidazioni di re Ferdinando I d'Aragona.
Il M. aveva fama di uomo duro e severo, anzi i più avversi lo giudicavano malvagio, astuto e privo di scrupoli. In tre anni di legazione, produsse una corrispondenza ricca di informazioni e di analisi politiche e si dimostrò adatto al compito, e nel luglio 1472 poté essere rinnovata l'alleanza, grazie al suo incarico, tra Milano, Firenze e Napoli. Non erano però superati i dissapori: il duca desiderava recuperare le città conquistate da Venezia negli anni Venti mentre Ferdinando teneva un atteggiamento ambiguo con la Serenissima e denigrava l'alleato milanese alle corti di Francia e di Borgogna. Su una patina di formale amicizia, da entrambe le parti venivano sferrati attacchi e simulazioni, di cui a volte il M. fu vittima. Nel novembre 1473 si aprì una crisi di successione nell'isola di Cipro e il M. diede ascolto a un rappresentante delle fazioni locali che proponeva al duca di Milano di diventare re e di estromettere Ferdinando, i cui emissari operavano per il controllo dell'isola. Conoscendo l'ardente desiderio di Galeazzo Maria Sforza di ottenere il titolo regio, il M. avviò segretamente dei negoziati, ma entrambi i contendenti furono messi fuori gioco dalla conquista veneziana. A provocare la definitiva rottura tra le corti di Milano e Napoli, nel 1474, fu la crisi di Città di Castello, in cui lo Sforza e Lorenzo de' Medici trovarono una più forte unità di intenti, mentre l'Aragonese ordiva macchinazioni a Piombino e nella Riviera genovese a favore dei Fregoso. Quando in agosto 1475 il M. fu richiamato a Milano, i rapporti formali tra le due potenze si interruppero per un lungo periodo.
Sul principio del 1476 il M. fu nominato consigliere segreto, la più alta magistratura dello Stato, ma il duca gli chiese di restare ancora per un triennio a Lodi con il solito salario. L'assassinio del duca nel dicembre di quello stesso anno fece piombare il dominio in una grave crisi politica e nel luglio 1477 il M. fu nuovamente trasferito a Piacenza, dove due commissari erano stati rimossi nel giro di pochi mesi. La città era travagliata da divisioni interne, dalla prepotenza dei magnati e dalla penuria di risorse finanziarie, a cui si aggiunsero le conseguenze di guerre, carestie, epidemie e persino di alluvioni e danni del maltempo. Nel 1478 il M. fu impegnato nelle difese dall'attacco svizzero alla Val Leventina e coinvolto nella drammatica rotta di Giornico. Tornato a Milano nel marzo successivo, era pronto a indossare le vesti di consigliere e grazie ad altri doni ducali si accingeva a sistemare degnamente la sua abitazione in città, quando si presentò l'ennesima situazione critica. Il pontefice, Sisto IV, aveva colpito con un interdetto la città di Novara sia per punire il clero cittadino, già protagonista di dissidenze per questioni beneficiali, sia per dare un segnale ostile alla reggenza milanese e al potente segretario ducale Cicco Simonetta, che aveva conseguito a Milano un'autorità grandissima. Mentre a Roma operavano agenti ducali, il M., accompagnato da un robusto nucleo di fanteria, si stabilì a Novara e riuscì a indurre i canonici della cattedrale, che avevano proclamato l'astensione dalle pratiche del culto, a tornare alle loro funzioni. Instancabile, nonostante l'età avanzata, in agosto era già in Lomellina per le operazioni militari contro i fratelli Ascanio e Ludovico Sforza ribelli allo Stato, che riuscirono però a prevalere ed entrarono trionfalmente a Milano cacciando il Simonetta dal governo.
L'arresto del primo segretario dovette essere un duro colpo per il M., che ne aveva sempre ricevuto onori e remunerazioni. L'autunno del 1479 vide le ultime fatiche di una vita spesa tutta in incarichi impegnativi e talvolta rischiosi, anche se risarciti da cospicui vantaggi materiali.
Morì prima del 20 dic. 1479, data in cui la reggente duchessa Bona di Savoia confermò alla vedova gli stipendi del marito.
Mancando eredi diretti nacquero liti per l'eredità, che fu suddivisa tra il fratello Giangiacomo, il cognato e due nipoti pavesi, Nicolò Maletta e Antonio Beccaria. Nell'esercizio delle numerose commissarie che rivestì, il M. seppe alternare durezza e severità e toni più concilianti, stabilì utili contatti con i potenti locali e soprattutto agì sempre sostenuto dal principe, evitando sconfessioni e rimproveri.
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