LANDINI, Francesco (Francesco Cieco, Francesco degli Organi, Franciscus de Florentia)
Nacque a Fiesole nel 1335 circa, come documenta il pronipote e celebre umanista Cristoforo, da un casato di origine aretina; il nome di famiglia e il patronimico non compaiono mai nei manoscritti musicali, ove egli è indicato con una vasta gamma di appellativi (dall'essenziale Franciscus, all'onnicomprensivo magister Franciscus cecushorghanista de Florentia).
Il cognome Landini deriva dall'avo del L., Landino di Nato, originario di Pratovecchio nel Casentino, militare al servizio della Repubblica fiorentina, che si distinse contro gli Aretini nella celebre battaglia di Campaldino (1289). Costui sposò una tal Pia, dalla quale ebbe dieci figli, tra cui Jacopo, padre del L., più noto come Jacopo del Casentino pittore. La data di nascita di quest'ultimo, assai discussa, è stata stabilita al 1297, dal momento che i primi lavori dell'artista datano alla terza decade del XIV secolo. Alcuni storici dell'arte, specie in passato, pensarono tuttavia di poterla fissare al 1315, un terminus ante quem molto più accettabile in vista di una ricostruzione della cronologia landiniana. La posticipazione della nascita del L. attorno al 1335 risulterebbe, infatti, assai coerente con le tappe della formazione del compositore; la vecchia cronologia (1325) - tuttora più accreditata - vedrebbe le sue prime attestazioni intorno ai quarant'anni, un'età abbastanza avanzata nel percorso di una carriera artistica. Per quanto possa risultare incongruo rivisitare la biografia di Jacopo alla luce di quella del figlio, alcuni dubbi sulle date di entrambi potrebbero forse essere superati se si accettasse con minori riserve il fatto che, in epoca medievale, qualsiasi percorso professionale aveva di norma inizio prima dei vent'anni.
Il L., secondo l'uso del tempo, avrebbe dovuto seguire le orme del padre se, colpito dal vaiolo, non fosse rimasto cieco in giovanissima età. Narra il cronista Filippo Villani, al quale dobbiamo il maggior numero di notizie riguardanti il compositore: "Passato gli anni della infantia privato del vedere, cominciando a 'ntendere la miseria della cechità, per potere con qualche sollazo allegerare l'orrore della perpetua notte, cominciò fanciullescamente a cantare" (p. 462). La narrazione del Villani, che accenna al topos della musica come cura dell'anima, non deve distoglierci dalle più concrete motivazioni che poterono avvicinare il L. all'arte dei suoni; dobbiamo infatti ritenere che egli fosse subito indirizzato a tale disciplina con l'obiettivo di acquisire una solida posizione professionale: quello di strumentista era uno tra i mestieri ai quali, in passato, erano spesso avviati i fanciulli non vedenti. Il tipo di carriera, tenuto conto anche dell'ambiente famigliare di provenienza, non dovrà parere insolito; a quel tempo, non solo pittori, miniatori e musicisti appartenevano al medesimo ceto sociale, ma era facile trovare riunite queste competenze all'interno di un'unica famiglia: un fratello del L., Matteo, divenne infatti pittore, mentre un altro, Nuccio, fu musicista.
La famiglia del L. risiedeva a Firenze nel quartiere di S. Spirito - almeno fino a quando Jacopo non decise di rientrare a Pratovecchio per sfuggire alla peste -, in vicolo del Pozzo Toscanelli, sotto la parrocchia di S. Felicita. Alcuni documenti hanno messo in luce la fiorente attività musicale di quella chiesa, che ospitava un monastero di suore benedettine.
Non sappiamo come il L. si accostò alla musica; essendo il padre membro della corporazione dei pittori (S. Luca), non possiamo escludere che egli abbia potuto apprendere i rudimenti musicali all'interno di un simile contesto: nelle confraternite laicali, sin dal Duecento, vi era l'uso di intonare laudi durante le celebrazioni, e in alcuni casi di pagare maestri affinché le insegnassero. Si può anche ipotizzare che Jacopo, grazie ai frequenti rapporti di lavoro con committenti ecclesiastici, avesse potuto facilmente introdurre il figlio in una scuola per pueri cantores presso qualche chiesa; induce a pensarlo l'accenno del Villani al fatto che il L. cominciasse a cantare sin da piccolo. Quali comunque siano stati i suoi esordi, il L. ebbe sicuramente a frequentare anche studi di grado abbastanza elevato quanto a cultura generale, poiché nella sua vita si occupò, oltre che di musica, di lettere e filosofia: a lui sono da attribuire, salvo diversa indicazione, i testi poetici delle sue composizioni, ma anche qualche scritto in latino: un poemetto in esametri in lode del filosofo Guglielmo di Occam, ispirato al tema del sogno come viaggio ultraterreno, e alcuni versi moraleggianti contro i costumi corrotti della gioventù fiorentina.
Nel campo specifico dell'arte dei suoni, non vi fu un aspetto della produzione musicale a lui estraneo: dopo avere appreso il canto, si dedicò alla pratica degli strumenti a corde e dell'organo, nel quale divenne così virtuoso da oscurare la fama di tutti gli organisti di cui si fosse conservata memoria. Sappiamo inoltre che progettò numerosi strumenti, tra cui uno di sua invenzione chiamato "syrena" e descritto come la combinazione di un liuto e di un "mezzo cannone" (un modello tipicamente italiano di salterio a forma trapezoidale).
Alcuni ritrovamenti archivistici documentano l'attività del L. - come organaro, organista e compositore - presso due importanti istituzioni.
Le prime testimonianze provengono da un libro di Ricordanze del monastero vallombrosano di S. Trinita (D'Accone, pp. 134s.): in data 26 maggio 1361 è riportato il pagamento per il trasporto di un organo dalla casa del L. al luogo di culto; a partire da quest'anno e per i due successivi, troviamo talvolta menzionato anche Nuccio, retribuito in alcuni casi come organista e in un'occasione come coadiutore del fratello ai mantici. Dalla documentazione superstite del monastero, sappiamo che esso fu un importante luogo di incontro per la vita musicale fiorentina; oltre al L., ne erano abituali frequentatori Niccolò del Preposto e Paolo tenorista, un compositore con il quale il C. ebbe forse contatti assai stretti.
A un paio d'anni al massimo da queste attestazioni si deve comunque collocare l'assegnamento del L. alla mansione che ricoprirà per gran parte della sua vita presso il capitolo di S. Lorenzo: nel 1365 lo troviamo per la prima volta registrato fra i cappellani, mentre fra i canonici figura il compositore Lorenzo di Masino; i due musicisti saranno attivi nello stesso luogo sino alla fine del 1372 o all'inizio dell'anno successivo, periodo in cui presumibilmente si colloca la morte di Lorenzo.
Per quanto sia problematico individuare possibili influssi del più anziano compositore sull'esordiente collega, data l'esiguità delle composizioni di Lorenzo, è comunque impensabile l'assenza di contatti fra due persone che, nello stesso luogo, erano parimenti interessate all'insolita attività di comporre musica polifonica. Unitamente ai pochi segni stilistici, che possono effettivamente accomunare alcune composizioni dei due musicisti, più significativa è la collaborazione di entrambi con diversi rimatori fiorentini dell'epoca: è probabile che sia stato proprio Lorenzo, che musicò testi di G. Boccaccio, N. Soldanieri, F. Sacchetti, a mettere in contatto il L. con quest'ultimo poeta.
Non è forse privo di importanza il fatto che il contratto stipulato tra il capitolo di S. Lorenzo e il L., peraltro volto a ufficializzare una situazione di fatto, sia stato stilato il 6 apr. 1373, nell'anno successivo alla presunta scomparsa del più anziano collega Lorenzo, quasi a sancire una sorta di passaggio di testimone tra i due nell'organizzazione della vita musicale della chiesa fiorentina. La scrittura fa espressamente riferimento alle condizioni fisiche del L. ("idem Francischus […] in suis facultatibus est impotens et cecus") e al fatto che il capitolo dovesse provvedere in tutto al suo sostentamento, pagandogli la somma di 60 lire l'anno e designandolo come "familiarem perpetuum" (Fiori, pp. 26s.).
L'atto notarile fa dunque svanire le ipotesi di un considerevole periodo lavorativo del L. al di fuori della sua città natale, formulate sulla base di alcune lacune documentarie. La presenza del L. è attestata sino a un mese prima della sua morte, e questo nonostante il risaputo scontento del musicista verso il suo incarico, provato da una lettera di Coluccio Salutati al vescovo di Firenze, al fine di sollecitare per l'amico una più adeguata sistemazione (cfr. Gallo, 1975).
Un altro documento - una nota di spese compilata dal frate musicista e compositore Andrea dei Servi -, appartenente alle carte del convento fiorentino della Ss. Annunziata, testimonia, accanto agli importi versati per la costruzione di un nuovo organo, due pagamenti al L. per l'accordatura dello strumento e cinque mottetti (Taucci, p. 32). Questa fonte è importante in quanto reca l'unica prova che il L. abbia prodotto musica, verosimilmente sacra o celebrativa, su commissione, e che questa avesse anche una redazione scritta. Nonostante il suo incarico di organista cappellano, infatti, non possediamo alcuna intonazione di brani sacri di sicura paternità landiniana.
Una delle ultime notizie riguardanti il L. ci tramanda la sua collaborazione, nel 1387, al progetto del nuovo organo della cattedrale fiorentina.
Un episodio rilevante, ma anche controverso, della carriera del L. è il presunto conferimento della corona d'alloro a Venezia, narrato dal Villani e ripreso da altri storiografi: "donde seguitò che per comune consentimento di tutti e musici, a lui concedenti la palma di quella arte, che a Vinegia publicamente dallo illustrissimo re di Cipri […] fu coronato d'alloro" (Villani, p. 462).
Facendo coincidere alcune occorrenze, possiamo circoscrivere il fatto a due possibili momenti: le feste indette dal doge Lorenzo Celsi in celebrazione del riconquistato dominio su Cipro (giugno 1364) o, con più probabilità, la terza visita del re di Cipro Pietro Lusignano nella città lagunare, nel corso del primo anno del dogato di Andrea Contarini (settembre 1368). Anni fa E. Li Gotti respingeva l'autenticità degli avvenimenti narrati dal Villani, sulla base di due motivazioni: innanzitutto F. Petrarca, presente ai primi festeggiamenti, non accenna minimamente al certame musicale nelle sue Epistole; se lo scarso interesse per gli eventi sonori, assai comune tra i cronisti dell'epoca (per quanto autorevoli), può esser chiamato in causa per questa omissione, assai più grave, a parere di Li Gotti, sarebbe la mancata citazione del titolo da parte degli intellettuali fiorentini ammiratori del Landini. A sciogliere l'enigma non ci può aiutare nemmeno il dato iconografico: dei due ritratti che possediamo del L., uno, la sua pietra tombale, lo riproduce senza corona, mentre l'altro, la miniatura che appare nel codice Squarcialupi (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Med. Pal., 87) attesta l'importante onorificenza. Bisogna nondimeno segnalare la distanza temporale tra le due immagini - la prima effettuata poco tempo dopo la morte del compositore, la seconda verso il 1420, probabilmente presso lo scriptorium di S. Maria degli Angeli - e il fatto che l'effigie presente nel manoscritto musicale abbia potuto trarre ispirazione dal Villani stesso. Per chiudere tuttavia il cerchio, proprio la simultaneità della cronaca fiorentina con l'esistenza in vita del L. potrebbe provare la sua attendibilità: appare improbabile che Villani inserisse notizie non vere nella sua cronaca, con il rischio di essere sconfessato dai contemporanei.
Indipendentemente dal fatto che fosse o meno musicista "coronatus", il L. fu ampiamente celebrato dai suoi contemporanei: una fortuna toccata, in vita, a ben pochi artisti. Gli elogi a lui tributati trovano una matrice comune nella sua collocazione nella schiera dei personaggi, reali o fittizi, per i quali si voleva che la mancanza della vista avesse favorito l'affinamento di altre facoltà di esame e conoscenza.
F. Villani così introduce il concittadino: "Severior illi occasio corporalia abstulit lumina, sed interioris hominis oculos speculatio linceos fecit" (p. 150). Ispirandosi a un topos letterario assai sfruttato, qual era il viaggio nell'aldilà, invece, il poeta Jacopo del Pecora, nella sua Fimerodia (prima del 1397) finge un incontro con le ombre di insigni fiorentini, al termine del quale giunge alla visione di tre seggi destinati ad accogliere C. Salutati, F. Villani e il L.: "qui siederà la fonte e 'l fiume, / quel Francesco degli Organi, che vede / con mente più che con corporal lume". Se il poeta e letterato Cino Rinuccini riprenderà la stessa immagine ("E accioché nelle arti liberali niuno savio ci manchi, avemo in musica Francesco, cieco del corpo, ma dell'anima illuminato"), C. Salutati sceglierà una similitudine tolta dal mondo classico, descrivendo il compositore "più che Argo provvisto di occhi" ("oculatus") e celebrandolo come colui che, cieco, aveva dato nuova luce (ma anche prestigio: "lumen") alla città e alla Chiesa fiorentina (Lanza). Il madrigale Mostrommi amor già fra le verdi fronde, musicato dal L., descrive invece un falcone al quale era stata impedita la vista - secondo la pratica venatoria medievale -, nell'atto di volersi liberare, e si conclude con i versi: "Allor conobbi ben che per natura / tendeva di volare in grand'altura". Benché il precedente di questa similitudine sia da rintracciare nella Commedia dantesca (Purgatorio, XIII, 71), ove gli invidiosi hanno gli occhi cuciti "come a sparvier selvaggio", è altrettanto vero che i versi del madrigale sono da intendersi come ennesima celebrazione del musicista cieco.
Il L. morì a Firenze domenica 2 sett. 1397. Due giorni appresso fu tumulato nella chiesa in cui aveva forse lavorato per più di 25 anni; 9 giorni dopo, l'11 settembre, nello stesso luogo si tenne una cerimonia commemorativa. Giovanni Mazzuoli, che forse era stato suo allievo, gli succedette nelle mansioni presso il capitolo. Ancora grazie alla documentazione di S. Lorenzo, si sa che "Francesco degli organi", che intestò alla chiesa un lascito di 300 fiorini per obblighi di suffragi, continuò a essere commemorato per molto tempo (Gallo, 1975, p. 63).
La sua lastra tombale, rinvenuta a Prato nel 1888, è ora conservata su una parete della navata destra della chiesa fiorentina. La figura intera a bassorilievo del musicista è sormontata da due angeli musicanti, uno con la viella, l'altro con il liuto, e dallo stemma della famiglia: una piramide con sei palle d'oro in campo azzurro e tre rami d'albero sporgenti. Tutto intorno, un fregio riporta l'epitaffio, scritto forse da C. Salutati: "Luminibus captus Franciscus mente capaci / Cantibus organicis, quem cunctis Musica solum / Pretulit, hic cineres, animam super astram reliquit".
Un'immagine toccante degli ultimi anni di vita del L. è nell'opera di Giovanni Gherardi da Prato che va sotto il titolo Il Paradiso degli Alberti, scritta fra il 1425 e il 1426; una fonte significativa, per quanto non storica in senso stretto, poiché ritrae il compositore nella cerchia intellettuale che era solito frequentare: i componenti della brigata che soleva riunirsi nella casa di Antonio di Niccolò degli Alberti, detta appunto villa Paradiso. Il L. - cui si affiancano personaggi quali Coluccio Salutati, Cino Rinuccini, Luigi Marsili, Biagio Pellacani - figura a ragione tra i colti frequentatori della villa, in quanto estimatore di Dante e sostenitore della filosofia occamista.
Il poemetto latino in esametri in lode di Guglielmo di Occam, che il L. dedica ad Antonio pievano di Vado, maestro di Giovanni Gherardi, rappresenta un caso letterario assai dibattuto, in quanto vera e propria invettiva contro un personaggio della vita culturale fiorentina lasciato anonimo. Varie ipotesi sono state formulate sull'oggetto di questi animosi versi: Salutati, Marsili, Niccoli e Francesco Petrarca. Quale che ne fosse il destinatario, esso è probabilmente destinato a rimanere sconosciuto; di molte persone appartenenti al circolo delle frequentazioni landiniane potrebbero difatti essere scomparse completamente le tracce.
Il L. è il polifonista medievale italiano di cui possediamo maggiori opere; anche a livello internazionale la sua produzione di musica profana si colloca in una posizione considerevole (seconda solo a quella di G. de Machault). Di lui possediamo 141 ballate, 12 madrigali, una caccia e un virelai, scritti per due e tre voci. Tra le opere dubbie da attribuirsi con più sicurezza all'autore sono la ballata a tre voci Cosa non è (un unicum esemplato nel ms. in Londra, British Library, Add. Mss., 29987), i mottetti frammentari Principum nobilissime (Padova, Biblioteca universitaria, Mss., C.1106) e Florencia mundi speculum / Parce, pater pietatis (presente nel disperso frammento Egidi e nel ms. palinsesto in Firenze, Archivio di S. Lorenzo, Mss., 2211); infine la melodia di un Sanctus, usata per la produzione di un contrafactum (Guardiagrele, già chiesa di S. Maria Maggiore, ms. trafugato).
Sono cinque i manoscritti che tramandano in modo consistente l'opera musicale del L.; spiccano, per il grande spazio dedicatagli, due sillogi fiorentine: il Panciatichi 26 della Biblioteca nazionale di Firenze - che contiene 86 opere del L., fra cui 6 unica - e il già citato codice Squarcialupi.
In quest'ultima fonte la sezione landiniana rappresenta una fra le più grandi operazioni di raccolta e cernita compiute per un musicista medievale: le 144 intonazioni dell'autore qui raccolte, tra cui 48 unica, sono solo dieci in meno rispetto al totale di quelle a noi note, rappresentando il 40% dei brani del manoscritto e un quarto della consistenza dell'intero volume. La popolarità del L., tuttavia, rese presenti i suoi brani in un numero assai più vasto di raccolte italiane ed europee (attualmente 22) - giunte a noi in forma più o meno integra - oltre a un loro frequente riutilizzo in veste di "cantasi come" e di contrafactum. Alcuni brani - tra cui i famosi Donna, s'i' t'ho fallito, Gran pianto a gli ochi, Questa fanciulla, Amor ch'al tuo sugetto, Che pena è questa, S'i' ti son stato e voglio essere fedele - presentano fino a 9 concordanze.
È questione assai delicata definire uno stile landiniano, tracciando i punti di contatto con la tradizione e isolando gli elementi di novità: possiamo infatti asserire che fu proprio il L. il principale fautore e interprete dell'affermazione, in ambiente toscano, della ballata polifonica, e che prima di lui essa si manifestò in modo così episodico da rendere pressoché vana l'individuazione di un debito con il passato. Egli piegò questa forma a nuove soluzioni musicali, svincolandola dai clichés di mediocrità che l'avevano caratterizzata fin dal secolo precedente e dal suo retaggio popolareggiante e laudistico. Anche rispetto al madrigale il ruolo del L. non fu tuttavia trascurabile, in quanto trait d'union tra i primi polifonisti italiani, che in esso avevano trovato espressione preponderante, e gli ultimi, probabilmente influenzati, nel recupero di questa forma, proprio dalle opere del grande maestro fiorentino.
La ballata landiniana si caratterizza per il perseguimento di un rigoroso equilibrio formale, che trova un'ampia gamma di soluzioni: oltre alla simmetria quantitativa fra le due sezioni musicali (ritornello e strofa), l'avveduta disposizione dei melismi a incorniciare le parti sillabiche; la replica, identica o modificata, di motivi e schemi cadenzali; la ripresa letterale di intere sezioni di un brano o, al contrario, la diffusione di brevi cellule melodiche riproposte in tutte le loro possibili combinazioni.
Una componente importante della tecnica compositiva del L. è rivestita dall'aspetto ritmico, nel passaggio dal sistema italiano a quello francese che investì la notazione musicale proprio negli anni in cui fu attivo il compositore. L'acquisizione delle innovazioni mensurali francesi - che consentivano una maggiore duttilità della condotta melodica e la costruzione di periodi più estesi - determinò da parte del L. l'impiego consapevole ed evoluto di questa differente grammatica; egli, anzi, ne sfrutterà al meglio le potenzialità, facendole coincidere con alcuni dei suoi tratti peculiari.
Nelle ballate a due voci il rapporto fra l'estensione delle voci è quasi sempre costante; di norma il cantus è più ampio del tenor. Le composizioni a tre presentano maggiore varietà nell'impiego delle parti: non sempre il contratenor ha il ruolo di voce intermedia con le caratteristiche che, per esempio, lo qualificheranno nella musica di epoca poco più tarda; nella produzione del L., anzi, le composizioni in cui l'estensione del contratenor si colloca a metà fra le altre due rappresentano una porzione minoritaria: è molto più frequente che condivida la stessa tessitura del tenor (nella prevalenza dei casi) o del superius.
Un aspetto singolare dell'opera del L. è la varietà della tradizione manoscritta rispetto alla scrittura delle voci inferiori, dal momento che alcuni brani esistono parimenti a due e a tre voci. Un altro elemento rilevante è la presenza del testo nella voce (o nelle voci) inferiori, un fattore che pone questioni di carattere analitico e performativo, riguardo alla destinazione esecutiva delle parti prive di testo.
L'opera del L. è fortemente caratterizzata da una costante rispondenza fra testo e musica: una prerogativa che molti studiosi ancora negano alla musica medievale, per il fatto che le composizioni di quest'epoca sono generalmente forme chiuse. Tale rapporto deriva verosimilmente dal fatto che il L. stesso sia stato, nella maggior parte dei casi, anche l'artefice dei versi da lui musicati; fra questi, solo otto, infatti, appartengono ad altri poeti: Franco Sacchetti (4), Cino Rinuccini (1), Pandolfo Malatesta (1), Niccolò Soldanieri (1), Stefano di Cino (1), e Bindo d'Alesso Donati (1). Anche sotto questo aspetto la produzione del L. si propone come un fenomeno degno di nota. Le rime intonate dal L. non sono solo presenti nei manoscritti musicali, ma anche in alcuni canzonieri letterari, in forma più o meno completa. Il tema maggiormente frequentato è naturalmente quello amoroso, ma non mancano - caso assai raro nella produzione poetica per musica coeva - versi moraleggianti o filosofici. Volendo accennare ai debiti con altri poeti, ricorderemo qui innanzitutto l'ammirazione per Dante; in particolare alcuni versi mostrano reminiscenze contenutistiche con la Vita nova dantesca.
Un unico testo può essere collocato cronologicamente con una certa sicurezza: Una colomba candida e gentile è un madrigale legato alla simbologia celebrativa viscontea, e più precisamente a Isabella di Valois, andata in sposa a Gian Galeazzo nel 1360. Un elemento degno di attenzione per la contestualizzazione dei testi letterari è rappresentato dall'uso dei cosiddetti senhals: l'occultamento, nei versi poetici, del nome della persona a cui questi erano rivolti. Tale consuetudine - nata dalla poesia trobadorica, ma estesa anche alla produzione medievale italiana - aiuta talvolta a far luce su aspetti importanti quali la committenza o le frequentazioni dei compositori. Nelle opere del L. i versi che contengono senhals ricevono un particolare risalto sonoro in più della metà dei casi; anzi, grazie alla specificità del loro trattamento musicale, è stato possibile individuare altre citazioni sinora sfuggite agli studiosi. Il L. condivide i senhals "Alessandra", "Cosa" (Niccolosa), "Lena" (Maddalena), "Orsa", "Petra" con altri compositori più giovani (Paolo tenorista e Andrea dei Servi): tale comunanza fa datare questi brani alla parte più avanzata della sua carriera. Ulteriori nominativi gli sono del tutto peculiari, alcuni già noti agli studiosi, alcuni affatto sconosciuti: tra i primi collochiamo Marsilia, Giulia, Oretta, Selvaggia, Contessa; tra i secondi ipotizziamo Costanza e Angiola. Se della Niccolosa celebrata dal L. in un ciclo di 5 ballate è probabilmente destinata a rimanere sconosciuta l'identità (possiamo solo ipotizzare la presenza della donna nel ritrovo di villa Paradiso), i versi dedicati ad Alessandra (3 ballate del L., una di Paolo e alcuni testi anonimi la cui musica è andata dispersa) costituiscono un vero e proprio caso letterario. Un brano il cui incipit - S'a le' s'andrà le lagrime e sospiri - ricalca assai da vicino l'esordio landiniano A le' s'andrà lo spirto e l'alma mia è riportato nel canzoniere 1154 della Biblioteca Riccardiana di Firenze con l'indicazione dell'autore ("ser Nicolò Tenuci" [Tinucci]) e la seguente didascalia: "fata per miser Ruberto Adimari ad instanza de Piero di Paci e per l'Alesandra de miser Pala degli Stroci". Per concludere, un uso dispregiativo del senhal pare contrassegnare la celebre ballata Che pena è questa al cor, ove attraverso particolari condotte musicali l'autore sembrerebbe voler mettere in luce i nominativi di alcuni fra i suoi più diretti concorrenti (Niccolò del Preposto, Rosso da Collegrana).
Edizioni: The works of F. Landini, a cura di L. Ellinwood, Cambridge, MA, 1939 (ristampa New York 1970); The works of F. Landini, a cura di L. Schrade, in Polyphonic music of the fourteenth century, IV, Monaco 1958.
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