LANDI, Francesco
Nacque a Napoli il 13 ott. 1792 da Antonio, ufficiale dell'esercito in ritiro, e da Raimonda Buonocore, figlia di un ufficiale. Come altri quattro suoi fratelli fu avviato alla carriera delle armi e il 1° ott. 1806 fu ammesso, come alunno, nella R. Accademia militare. Si trattava del primo corso tenuto in quella scuola durante il Decennio francese. Nel marzo del 1809 fu destinato al 3° reggimento fanteria di linea come volontario e, dopo una breve permanenza nei gradi di caporale, sergente e sergente maggiore, l'11 nov. 1809 fu nominato sottotenente. Venne distaccato, con il suo reggimento, in Calabria, dapprima per la fallita spedizione contro la Sicilia, poi per la repressione del brigantaggio. Promosso tenente il 26 apr. 1812, fu trasferito nel luglio del 1813 all'8° reggimento di linea "Principe Luciano", con il quale, sul finire dell'anno, entrò nelle Marche e prese parte tra il 17 gennaio e il 14 febbr. 1814 al blocco e all'assedio della cittadella di Ancona, difesa dagli Italo-Francesi. Alla vigilia della caduta della cittadella il L. fu promosso capitano e con tale grado prese parte, l'anno successivo, alla campagna contro gli Austriaci del re Gioacchino Murat, nel frattempo uscito dall'alleanza antifrancese. Fu alla battaglia di Tolentino il 2 e 3 maggio, riuscendo poi a raggiungere Napoli dopo aver meritato la croce di cavaliere dell'Ordine delle Due Sicilie. In applicazione del trattato di Casa Lanza, Ferdinando I gli confermò il grado con decreto del 13 ag. 1816 e lo destinò al 3° reggimento fanteria di linea "Regina" di stanza a Bari. Nel 1821 prese parte alla disgraziata campagna contro gli Austriaci, nel corso della quale il comportamento degli uomini del suo reggimento, specie quello dei richiamati, fu caratterizzato da diserzioni e ammutinamenti.
Chiusa la parentesi costituzionale, Ferdinando I sciolse l'esercito e sottopose gli ufficiali a uno scrutinio sulla loro condotta negli anni successivi al 1799. Cancellato dai ruoli e posto in ritiro con un terzo della paga nonostante le sue buone note caratteristiche, il L., che nel 1818 si era sposato con Raffaella De Marinis e l'anno successivo aveva avuto il primo figlio, si ritirò a vita privata, a ciò indotto anche dalla possibilità di usufruire delle rendite di una sua tenuta sita a Campagna.
Con l'avvento al trono di Ferdinando II nel 1830 e il progressivo richiamo in servizio degli ufficiali congedati nel 1821, anche il L., nel dicembre 1832, fu riammesso nell'esercito e assegnato alla terza classe, quella degli ufficiali in attesa di destinazione. Fu però soltanto nel 1837, in occasione dell'epidemia di colera, che ricevette un primo incarico come comandante provvisorio dell'ospedale succursale della Cristalliera, a Napoli. In seguito, secondo la prassi, venne dapprima assegnato ai servizi sedentari e poi, finalmente, alle unità operative.
Così tra il luglio del 1838 e il gennaio del 1839 fu addetto alla compagnia di dotazione di Ponza, composta da abitanti dell'isola e destinata alla sua difesa, per passare poi al reggimento veterani, quindi, dal 27 maggio 1840, al deposito della fanteria di linea, e infine, dopo una breve permanenza nel 13° reggimento di linea "Lucania" di nuova costituzione, al II battaglione cacciatori (10 sett. 1840).
In questo battaglione il L. rimase otto anni, per essere assegnato il 25 apr. 1848 al 3° reggimento di linea "Principe", sempre come capitano e quand'era ormai cinquantaseienne (quasi in linea, però, con l'elevatissima età media degli ufficiali borbonici). Con il 3° di linea partecipò alla repressione della rivolta calabrese nell'estate di quell'anno, ricevendo la croce di cavaliere dell'Ordine di Francesco I, e, finalmente, il 22 apr. 1849, la promozione a maggiore e il trasferimento al 1° reggimento di linea "Re". Dal 1° di linea il L. passò al comando del IX battaglione cacciatori come tenente colonnello, lo stesso grado con cui nel marzo del 1856 fu destinato al 6° reggimento di linea "Farnese", di cui assunse il comando, come colonnello, nel marzo successivo.
In tutti questi anni la sua famiglia si era accresciuta di numero e i suoi figli maschi avevano tutti intrapreso la carriera militare o ne frequentavano gli istituti preparatori (due di costoro erano infatti stati ammessi nella compagnia delle reali guardie del corpo a cavallo, il che dovrebbe denotare il favore del re nei riguardi della famiglia Landi).
Il 19 apr. 1860, nel quadro dei tardivi e parziali tentativi di snellimento e di svecchiamento intrapresi dal nuovo re Francesco II, il L. ottenne, nei giorni in cui il suo reggimento era impegnato a soffocare i primi moti di rivolta in Sicilia, le ambite spalline da brigadiere generale. Proprio per reprimere questi moti disarmando le popolazioni e disperdendo le bande di insorti, il 6 maggio 1860 partì da Palermo alla testa di una colonna formata da quattro compagnie di fanteria, uno squadrone di cacciatori a cavallo e quattro pezzi d'artiglieria. Le operazioni di disarmo vennero portate a termine, con una certa lentezza, a Partinico e Alcamo. Qui, il pomeriggio del 12, gli pervenne notizia dello sbarco di Garibaldi a Marsala nonché l'ordine di muovergli contro insieme con altri reparti che lo avrebbero raggiunto a Calatafimi. Si portò quindi in questa località, ove si collegò, il giorno 13, con un battaglione di cacciatori e, il giorno successivo, con uno di fanteria. Assunto il comando di tutte le truppe, la mattina del 15 maggio il L. seppe che i garibaldini e le bande muovevano contro di lui da Salemi e, contemporaneamente, ricevette da Palermo l'ordine di ripiegare su Partinico, dato che il comando borbonico intendeva concentrare nei dintorni del capoluogo le truppe in colonna mobile.
Indeciso sul da farsi, il L. distaccò invece da Calatafimi, in esplorazione, tre colonne di forza disuguale, rimanendo in paese con le truppe residue. Una delle colonne - sei compagnie dell'VIII cacciatori e un plotone di cavalleria - avvistò il nemico dal colle dove oggi sorge l'ossario di Pianto del Romano e, sottovalutando l'avversario, a fine mattinata iniziò l'attacco. L'esito del combattimento, protrattosi sino a metà pomeriggio lasciò Garibaldi padrone del terreno.
Durante lo scontro il L. continuò ad adottare mezze misure, rinforzando in maniera inadeguata le truppe impegnate e trattenendosi in paese con almeno sei compagnie, che sarebbero invece state utilissime sul campo di battaglia. A parziale spiegazione del suo comportamento indeciso (e di là dalle successive sottolineature relative all'età e alla salute malandata che non gli permettevano di montare a cavallo) c'è da osservare che l'uso parsimonioso dei rincalzi e il mancato utilizzo delle riserve derivarono dalla presenza intorno al campo di battaglia, e fin presso Calatafimi, di formazioni di insorti che potevano minacciare di accerchiamento l'intera colonna.
Fu soprattutto questa presenza - sottolineata nella richiesta di soccorso inviata dal L. a Palermo ("le masse di Siciliani uniti alla truppa italiana sono di immenso numero") - che lo spinse a ordinare la ritirata senza cercare di difendersi nell'abitato di Calatafimi. Ingannato il nemico con fuochi di bivacco, la colonna si mosse nella notte per raggiungere Palermo all'alba del giorno 17 dopo aver superato in più punti la decisa resistenza degli insorti, con accaniti scontri ed eccessi da ambo le parti. Sul momento il comando borbonico non mosse alcun addebito alla condotta del L., che rimase a Palermo partecipando alla difesa della città. Fu soltanto dopo il suo sgombero, al ritorno sul continente, che egli, insieme con gli altri generali reduci dalla Sicilia, fu sottoposto al giudizio di una commissione d'inchiesta. Attribuendo quanto era successo in Sicilia a circostanze eccezionali, le conclusioni della commissione furono favorevoli nei riguardi di tutti gli imputati e, quindi, anche nei confronti del L., che, subito dopo, chiese e ottenne il ritiro. Non era dunque più in servizio quando, a settembre, Garibaldi fece il suo ingresso a Napoli, dove il L. morì di lì a pochi mesi, il 2 febbr. 1861.
Dopo la sua morte, negli ambienti borbonici corse la voce - raccolta poi da alcuni autori - che avesse tradito per denaro, anzi che fosse stato pagato, per il suo tradimento, con un titolo di credito per 14.000 ducati falsificato e che fosse morto di crepacuore alla scoperta della truffa di cui era stato oggetto. Uno dei suoi figli, allora ufficiale dell'esercito italiano (tutti vi erano passati, chi prima e chi dopo la caduta di Gaeta), ottenne una lettera di smentita di Garibaldi, così da salvaguardare l'onore del padre.
Fonti e Bibl.: Nei due dettagliatissimi studi di G. Landi, Il generale F. L.: un ufficiale napoletano dai tempi napoleonici al Risorgimento e Carteggio della colonna mobile del generale L. da Palermo a Calatafimi (5-15 maggio 1860), pubblicati nella Rass. storica del Risorgimento, rispettivamente XLVII (1960), pp. 162-202, 325-366, e L (1963), pp. 529-544, è riportata tutta la bibliografia relativa al L. apparsa sino ad allora. Successivamente, cenni sul L. si trovano in: R.M. Selvaggi, Nomi e volti di un esercito dimenticato. Gli ufficiali dell'Esercito napoletano del 1860-1861, Napoli 1990, pp. 84 s., 106, 114; e G.C. Boeri - P. Crociani - M. Fiorentino, L'Esercito borbonico dal 1830 al 1861, I, Roma 1998, p. 40.