FRANCESCO I Sforza, duca di Milano
Nacque a San Miniato (allora San Miniato al Tedesco), tra Firenze e Pisa, il 23 luglio del 1401, dalla relazione tra il condottiero Muzio Attendolo, più noto come Sforza, e Lucia di Torsciano. Poco si sa della sua prima infanzia, parte della quale vissuta con la madre (che Muzio aveva fatto sposare all'amico Marco da Fogliano) a Ferrara sotto la protezione del signore della città, il marchese Niccolò (III) d'Este. Qui F. studiò insieme coi figli di quest'ultimo. Nel 1412 il padre lo chiamò a sé, prima a Perugia, dove si trovava al servizio del papa Giovanni XXIII, e quindi a Napoli, dove il condottiero si recò, al soldo di re Ladislao d'Angiò-Durazzo. Per ingraziarsi il nuovo capitano il sovrano, nel dicembre 1412, concesse all'undicenne F. la contea lucana di Tricarico. Con il titolo di conte, e il soprannome, dovuto alla giovane età, di "conticello", F. rimase presso la corte napoletana affidato alle cure del gran camerario Gabriele Felice.
Morto Ladislao, nel 1414 Muzio ebbe confermato dalla nuova sovrana Giovanna II d'Angiò-Durazzo l'incarico di gran conestabile. La posizione gli procurò l'inimicizia di Pandolfello Piscopo, detto Alopo, gran camerario e favorito della regina, che la convinse a imprigionare il condottiero e il figlio Francesco. La reazione delle milizie dell'Attendolo persuase però presto l'Alopo e la regina a decidere altrimenti. Nel marzo 1415 Muzio fu liberato e reintegrato nelle sue cariche con un appannaggio di 8.000 ducati e la concessione della signoria feudale su Benevento, Manfredonia e su altri luoghi nel Meridione. L'Attendolo giurò formalmente fedeltà alla regina lasciandole in ostaggio, per garanzia, alcuni dei figli - tra i quali F. - che aveva avuto da Lucia di Torsciano. Il "conticello" rimase così altri tre anni presso la corte angioina, uno dei quali in cattività.
Il 28 febbr. 1417 la regina concesse a F. il feudo di Ariano Irpino col titolo di conte, e, per ricompensare Muzio del suo operato, dichiarò legittimi i figli nati dalla sua relazione con Lucia di Torsciano (oltre a F., Giovanni, Alessandro, Lisa e Antonia), riconoscendo al "conticello" il diritto di primogenitura. Quando Muzio nel luglio 1417 lasciò Napoli al comando delle truppe inviate al soccorso del papa, insidiato da Andrea Fortebracci, detto Braccio da Montone, il sedicenne F. seguì il padre, che lo premiò per le prove di valore offerte conferendogli il cingolo militare e gli speroni d'oro, e nominandolo capitano per meriti di guerra.
Nello stesso periodo Muzio provvide a combinare per F. un proficuo matrimonio, in Calabria, con Polissena, figlia di Carlo (II) Ruffo, conte di Montalto. Costei, oltre a possedere un esteso patrimonio terriero, era stata anche investita da Giovanna II della capitaneria di Rossano. Le nozze di F. furono celebrate, proprio in Rossano, il 23 ott. 1418, ma ebbero breve durata. Nel 1419, in rapida sequenza, morirono prima Antonia, la figlioletta nata dall'unione, e quindi la stessa Polissena (v'è il sospetto che le due fossero state avvelenate da altri componenti la famiglia Ruffo per motivi interni al clan).
La scena politica e militare si animò in quegli anni per la questione della successione alla regina Giovanna II. Si trovarono a contendere Luigi d'Angiò, designato quale erede al Regno dal pontefice Martino V, e Alfonso d'Aragona che Giovanna II aveva prontamente nominato, in risposta all'iniziativa papale, proprio figlio adottivo e successore. Muzio si schierò con il pontefice e con l'Angiò, e intervenne nella contesa nel giugno 1420 incaricando F. e Micheletto Attendolo di occupare Acerra, mentre lui stesso si impadroniva di Aversa.
Proprio allora Luigi III inviò F. in Calabria, quale luogotenente, con il titolo di viceré. Stabilitosi in Cosenza, F. si impegnò a respingere gli attacchi aragonesi e a rafforzare, mediante alleanze con potentati locali, il fronte angioino. Una robusta offensiva consentì però ad Alfonso d'Aragona di occupare Napoli e di abbozzare una sortita in Calabria che, se pure non garantì la conquista della regione, riuscì a creare tali devastazioni e malcontento da generare una sollevazione delle popolazioni locali da cui anche F. fu gravemente minacciato. Con l'aiuto delle forze inviategli dal padre, F. riuscì infine a sconfiggere alcuni suoi capitani ammutinati. Giovanna II, assicuratasi la fedeltà di Muzio, adottò Luigi d'Angiò e ruppe con l'Aragonese, che occupò in risposta Castelcapuano. Mutavano così le alleanze: a fianco di Giovanna II venivano a trovarsi, oltre all'Angiò, il papa e il duca di Milano Filippo Maria Visconti, mentre Alfonso poteva contare sul condottiero Braccio da Montone.
Nel gennaio 1423 la città dell'Aquila si ribellò innalzando il vessillo angioino; ad essa Giovanna inviò Muzio in soccorso, ma questi, il 4 genn. 1424, impegnato ad aggirare le truppe di Braccio che assediavano il luogo, annegò nel fiume Pescara che tentava di guadare a cavallo. A capo della compagnia sforzesca venne così a trovarsi il ventitreenne F. (che già nel 1423 aveva lasciato la Calabria per riunirsi al padre), cui gli ufficiali di Muzio giurarono fedeltà dopo averlo eletto comandante supremo. Subito dopo egli si pose in viaggio per raggiungere Giovanna II perché questa legittimasse la sua nuova condizione. Dopo aver preso possesso di Benevento, allora centro della potenza sforzesca, e aver ottenuto dal pontefice la carica di governatore della città, raggiunse Giovanna II ad Aversa. La regina riconobbe la validità delle disposizioni testamentarie di Muzio che assicuravano a F. l'intero patrimonio di giurisdizioni feudali che l'Attendolo aveva acquisito in Italia meridionale (Benevento e poi Manfredonia, Troia, Quarato, Ariano e altri castelli; inoltre F. ereditava dal padre le signorie su Toscanella e Acquapendente nello Stato pontificio), nonché tutte le dignità e i privilegi da lei già concessi a Muzio e dispose che F. e i suoi discendenti prendessero come cognome il soprannome del capitano defunto, Sforza. F. da parte sua si impegnò a sostenere la regina di fronte alla minaccia aragonese.
La città di Napoli, controllata dagli Aragonesi, era già assediata dalla flotta viscontea. Il tradimento di Giacomo Caldora, che nell'aprile 1424, incoraggiato da F., aprì le porte del Castelnuovo al nemico, assicurò al giovanissimo condottiero il suo primo vero successo. L'assedio, ora condotto da più favorevoli posizioni interne alla città, determinò l'abbandono aragonese della capitale nel successivo agosto. In quello stesso 1424, riporta il Decembrio, F. sposò una figlia di Caldora, che però abbandonò subito dopo le nozze, in seguito annullate da papa Martino V.
F. era frattanto ritornato verso L'Aquila, città che ancora riusciva a difendersi dall'attacco di Braccio. Il 2 giugno 1424 le forze riunite aquilane e sforzesche riuscirono infine a debellare il nemico. La battaglia dell'Aquila non sancì tuttavia il successo completo della regina e degli Angioini, e non impedì agli Aragonesi, che disponevano ancora di ingenti forze e di un largo seguito tra i baroni, di continuare a fomentare disordini nel Regno di Napoli.
Proseguiva intanto lo scontro, in Italia centrale, tra Viscontei e Fiorentini. Rimasto libero da impegni dopo la vittoria momentanea di Giovanna II, F., dopo aver servito brevemente il pontefice riducendo a obbedienza il signore di Foligno Corrado Trinci, passò infine al servizio di Filippo Maria Visconti, nell'estate del 1425, con il consenso di Martino V e della regina napoletana. Nello stesso anno Firenze riuscì a coinvolgere nel conflitto la Repubblica di Venezia. All'alleanza, ratificata il 3 dic. 1425, aderirono in seguito il marchese Niccolò (III) d'Este, Gianfrancesco Gonzaga, signore di Mantova, il marchese di Monferrato Giangiacomo Paleologo, e nel luglio 1426 Amedeo VIII, duca di Savoia. La schiera dei contendenti si faceva così più numerosa e lo scontro prendeva una piega tutta diversa, visto che la Repubblica veneta si impegnava ormai con decisione verso la Terraferma. La guerra veneto-viscontea che ne scaturì si sarebbe conclusa solo nel 1454 con la pace di Lodi; dal lungo confronto bellico la vita di F. fu fortemente influenzata.
Nell'estate del 1426 le truppe viscontee, parte delle quali condotte da F., dopo una vana resistenza al primo urto nemico, dovettero lasciare alla Serenissima l'intero distretto bresciano. Anche se F. e Niccolò Piccinino, l'altro comandante visconteo, avrebbero voluto subito lanciarsi al contrattacco dopo la bruciante sconfitta, finì col prevalere l'opinione di Angelo Della Pergola che preferì anzitutto riorganizzare le schiere. Il trattato di Venezia del 30 dicembre di quell'anno riuscì a determinare solo una pausa delle ostilità, che subito dopo si riaccesero. La battaglia di Maclodio del 12 ott. 1427 - F. e Piccinino avevano avuto questa volta la meglio sul prudente Della Pergola - sancì nuovamente la supremazia veneziana. Con la pace di Ferrara, nell'aprile del 1428, il duca di Milano dovette cedere il Bergamasco alla Repubblica di Venezia.
Nel dicembre 1427 F. era intanto caduto in disgrazia presso il Visconti. Inviato da questo a presidiare l'inquieta Genova, F., nella marcia di avvicinamento alla città, era caduto in un agguato tesogli da fuorusciti genovesi sull'Appennino. Le sue forze furono sbaragliate ed egli stesso salvò fortunosamente la vita. Filippo Maria Visconti, già deluso per le alterne prove fornite da F. nel conflitto contro Venezia, lo inviò a Mortara, ufficialmente per riorganizzare le truppe, ma sembra che il soggiorno si tramutasse per qualche tempo in effettiva prigionia e in seguito (il fermo durò due anni) in una sorta di confino. Quando infine Paolo Guinigi, signore di Lucca, chiese aiuto al Visconti contro i Fiorentini, il duca milanese, che aveva interesse ad alimentare la confusione nella regione per staccare Firenze dai Veneziani, senza però esporsi direttamente, mandò F. in Toscana dopo averlo formalmente licenziato nel tentativo di nascondere le proprie responsabilità. L'intervento di F., nel luglio 1430, riuscì a salvare Lucca dall'attacco fiorentino. Subito dopo il duca di Milano, con una delle sue abituali acrobazie politiche, si accordò con Antonio Petrucci, cancelliere dei Guinigi, per scacciare questi ultimi dal potere: ciò avvenne la notte del 15 agosto, con la partecipazione di F. che arrestò Ladislao Guinigi, figlio di Paolo. In seguito F. ripartì per l'Italia settentrionale, dopo aver riscosso a Firenze 50.000 fiorini che costituivano un vecchio debito della città nei confronti di Muzio. Aveva così successo l'ennesima trama del Visconti. Il ritiro di F. attirava nuovamente l'interesse dei Fiorentini su Lucca distogliendoli dal fronte padano.
Nel 1431 riprese il conflitto veneto-visconteo, e l'ormai riabilitato F., con Niccolò da Tolentino e Niccolò Piccinino, fu posto a capo delle truppe milanesi. Il 16 marzo 1431 riuscì a sorprendere presso Soncino le forze veneziane guidate da Francesco Bussone detto il Carmagnola, e poco dopo partecipò alla vittoria viscontea vicino Cremona. L'improvvisa diserzione del Tolentino subito dopo fu un vero colpo per Filippo Maria. Per rafforzare il legame con F. il duca gli promise in moglie la figlia naturale (poi legittimata) Bianca Maria, che allora aveva soltanto sei anni; non solo, dopo averlo dichiarato proprio figlio adottivo, e avergli così concesso il cognome Visconti, gli concesse i feudi di Castellazzo, Bosco e Frugarolo. I cronisti Cragnola e Simonetta sostengono che il matrimonio fu celebrato il 23 febbr. 1432. È invece certo che in quel giorno fu stipulato soltanto il contratto nuziale; le nozze avvennero in Cremona il 25 ott. 1441.
In agosto F. invadeva il Marchesato del Monferrato, dopo che Giangiacomo Paleologo si era schierato dalla parte di S. Marco. Ma la Serenissima riuscì infine a ribaltare le sorti del conflitto, che fu interrotto dalla pace stipulata in Ferrara il 26 apr. 1433.
Il trattato riconosceva a Venezia il possesso di Brescia e Bergamo, e ratificava la supremazia della Repubblica nella regione padana. Gli altri potentati vedevano ciò come una seria minaccia, e così Filippo Maria Visconti provò a contrastare la nuova situazione ampliando lo scenario dello scontro. Approfittando dell'indebolimento papale conseguente alla partenza da Roma dell'imperatore Sigismondo e al conflitto con il concilio riunito a Basilea, il duca milanese portò le sue truppe, parte delle quali guidate da Niccolò Fortebraccio, entro lo Stato pontificio. In particolare spinse F. a invadere la Marca d'Ancona che fu occupata nello spazio di tre settimane; da qui egli entrò in Umbria, e quindi nella Tuscia romana. Posto alle strette, papa Eugenio IV riconobbe il concilio e nel marzo 1434, in un estremo tentativo di evitare la rovina, nominò F. marchese perpetuo di Fermo, vicario per cinque anni di Todi, Toscanella, Gualdo e Rispampani, nonché gonfaloniere della Chiesa. Filippo Maria giudicò questo accordo un tradimento e indirizzò subito contro F. il Piccinino. Intanto la rivolta della stremata popolazione romana provocò, il 29 maggio 1434, la fuga del papa a Firenze. Mentre F., nella difficile e confusa situazione, evitava prudentemente il nemico, pensando a conservare i propri possessi, Venezia si schierò con decisione dalla parte di Eugenio IV e ciò portò a una nuova e cruenta fase di conflitto tra la Repubblica e il Visconti.
La pace di Ferrara, nell'agosto 1435, garantì solo una tregua per un conflitto che si riaprì l'anno successivo in una scena generale resa ancora più instabile dal riaprirsi prepotente della questione della successione a Giovanna II. Il 12 febbr. 1435, infatti, la regina moriva e a contendersene il dominio si trovavano ora Alfonso d'Aragona e Renato d'Angiò (il precedente pretendente angioino, Luigi III, era morto nel novembre 1434).
Il 29 maggio 1436 si definiva a Firenze un'alleanza tra Genova, Firenze e Venezia diretta esplicitamente contro il duca di Milano che sembrava poter aspirare al dominio d'Italia dopo aver sconfitto nella battaglia di Ponza (5 ag. 1435) Alfonso d'Aragona. Ma Filippo Maria, che aveva cercato di negoziare un accordo con Renato d'Angiò, decise infine di stipulare un'intesa con Alfonso perché si era convinto che una vittoria di Renato avrebbe determinato un pericoloso rafforzamento dell'influenza francese in Italia.
Nel conflitto che seguì ebbe parte determinante F., nominato capitano generale dell'alleanza antiviscontea (aveva comunque esitato a lungo prima di accettare il comando), che sconfisse Piccinino in Garfagnana.
I rapporti tra i collegati erano però ambigui: i Fiorentini intendevano soprattutto approfittare del conflitto - e delle prestazioni di F. - per realizzare il vecchio sogno dell'acquisizione di Lucca (cui F. a partire dal giugno '37 pose l'assedio); i Veneziani intendevano invece ingaggiare lo scontro in pianura Padana in primo luogo per difendere e poi per rafforzare il proprio dominio di Terraferma. Tali divergenze d'intenti favorirono a loro volta l'atteggiamento ambiguo di F. che, nell'ottobre 1437, dopo che il Visconti gli aveva ripresentato l'offerta di sposare la figlia, si era improvvisamente ritirato dalla mischia e aveva posto il campo prima a Reggio e poi a Pisa. Un nuovo accordo matrimoniale fu infine siglato il 28 marzo 1438: Bianca Maria avrebbe recato in dote 100.000 fiorini e la signoria su Asti e Tortona. F. poteva continuare a prestare servizio per Firenze, ma non avrebbe dovuto combattere contro i Viscontei, i quali, a loro volta, si impegnavano a non insidiare la città toscana. Quest'ultima, scontenta ora dell'alleanza con i Veneziani, si dichiarò disposta ad accettare l'accordo tra il duca milanese e F., e il 30 marzo 1438 firmò una tregua separata col Visconti, senza peraltro abbandonare formalmente l'impegno con Venezia.
Gli avvenimenti successivi rappresentano uno dei più brillanti esempi di quella politica fondata sulla furbizia e sul raggiro in cui eccelse il Visconti. Niccolò Piccinino, fingendosi indignato con il duca milanese per i favori accordati a F., avanzò in Romagna offrendo le proprie prestazioni al papa per recuperare allo Stato pontificio le Marche che erano sotto il controllo di F., e nello stesso tempo si schierò dalla parte di Alfonso d'Aragona che aveva intanto ripreso l'iniziativa nel Regno. Contemporaneamente Filippo Maria inviava F. in soccorso di Renato d'Angiò, rivale di Alfonso, e riusciva così a sostenere entrambi i concorrenti della contesa meridionale. Eugenio IV finanziò con 50.000 ducati l'impresa del Piccinino nelle Marche, ma questi, facendosi gioco del pontefice e sventolando a sorpresa la bandiera viscontea, si impadronì di Bologna dilagando poi nello Stato pontificio. Ciò provocò il precipitoso arrivo in Italia centrale di F., che proveniva dal Meridione (dove si trovava al fianco di Renato d'Angiò); egli riuscì a riconquistare Assisi, Norcia e Foligno, ed entrò negli Abruzzi dove impose l'obbedienza a re Renato. La situazione era più che mai confusa; l'iniziativa del Piccinino costituiva per F. un serio pericolo, perché minacciava non solo il suo ruolo politico-militare nel regime visconteo, ma anche i suoi possedimenti nell'Italia centrale. Aggiungendosi a ciò la sostanziale reticenza del signore milanese nel consentire la definitiva unione di Bianca Maria con F., quest'ultimo si risolse infine ad accettare, nel febbraio 1439 (le trattative erano iniziate già nell'estate 1438), l'offerta veneziana e fiorentina di porsi al comando della lega antiviscontea con condotta di cinque anni, 1.300 lance, 1.300 fanti, 17.000 fiorini al mese, garanzie per i suoi domini nella Marca e promessa di acquisizione diretta di quello che si sarebbe conquistato sulla sponda destra del Po, esclusa Parma, già promessa agli Este. Nel novembre F. fu aggregato al patriziato veneziano e ricevette in dono un palazzo cittadino.
Solo il 20 giugno 1439 F., capitano generale della lega, raggiunse Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, comandante delle armi venete, a Conche, presso Padova. Il 23, con 14.000 cavalli e 8.000 fanti, i due cominciarono la marcia verso il nemico. La situazione militare era al momento difficile per la lega: da un anno i Viscontei stringevano d'assedio Brescia e la stessa sorte interessava ormai anche Verona. Il 20 novembre, dopo uno scontro infausto per i Veneziani sul Garda, controbilanciato però da una vittoria di F. sul Piccinino a Tenno, le truppe della lega debellarono in Verona i Viscontei, che erano riusciti solo pochi giorni prima a entrare in città. La cittadinanza veronese, spinta dal provveditore veneziano Andrea Donà, si impegnò a premiare i due condottieri vittoriosi, F. e Gattamelata, rispettivamente con 10.000 e 3.000 ducati. Ma prima della pausa invernale Piccinino riuscì a sconfiggere F. ad Arco. Nei mesi successivi però il comandante visconteo si spinse in Toscana per alleggerire il fronte lombardo e subì una rovinosa sconfitta presso Anghiari, il 29 giugno 1440. F. ebbe quindi buon gioco, con Gattamelata, a liberare definitivamente Brescia dall'assedio milanese; nel novembre 1440 i Viscontei erano stati cacciati dall'intero territorio bresciano.
Per contenere il disastro politico e militare, Filippo Maria Visconti sembrò in un primo momento voler riproporre a F. l'antica prospettiva matrimoniale; poi offrì in sposa la figlia anche a Lionello d'Este, probabilmente col duplice intento di spingere F. a una decisione più rapida e per avere un'utile alternativa in caso di un suo rifiuto. Ma la guerra in Lombardia si faceva sempre più difficile per il duca milanese e sempre più arduo risultava per lui resistere alle richieste ricattatorie dei suoi capitani (Piccinino prese a chiedergli Piacenza, Luigi Dal Verme aspirava a Tortona). Il duca offrì così nuovamente a F. la figlia, poi presentò analoga prospettiva agli Este, e quindi ai Gonzaga. Il 1° ag. 1441 l'agente visconteo Antonio Guidobono ripresentò al condottiero le profferte matrimoniali - la dote era costituita dalle città di Cremona e Pontremoli -, giustificandole, questa volta realisticamente, con la gravissima situazione in cui si era venuto a trovare il duca. F. stavolta accettò con prontezza, e ciò determinò nei giorni successivi, grazie a un massiccio sforzo diplomatico milanese, un nuovo accordo di pace - pubblicato il 10 dic. 1441 - i cui termini vennero discussi nella località di Cavriana. Il trattato, formalmente, si presentava nella forma di un arbitrato pronunciato dallo Sforza. Il 24 ott. 1441, frattanto, a Cremona, F. aveva sposato Bianca Maria Visconti.
Le nozze finalmente concluse non avvicinarono tuttavia il duca e F., che - contrariamente alla richiesta del suocero - non lasciò la condotta della lega, cui era vincolato fino al 1443, e si trasferì con la moglie in territorio veneziano. Né pare, per di più, che F. riscuotesse molti consensi nella corte viscontea o che il Piccinino avesse cambiato atteggiamento nei suoi riguardi.
La situazione politica generale era peraltro più che mai complessa, soprattutto, come sempre, a causa delle iniziative del duca milanese che non rinunciava ai suoi progetti egemonici, e che favorì la formazione di una nuova alleanza, proprio con l'intento di colpire gli interessi sforzeschi. Il Visconti avviò infatti trattative con Eugenio IV, promettendogli appoggio per il recupero dei domini di F. in Umbria e nelle Marche, e a tal fine il pontefice, il 6 giugno 1442, nominò il Piccinino generale della Chiesa.
Il fronte ostile a F. era destinato ad allargarsi. La contesa per il Regno meridionale si stava infatti risolvendo in favore di Alfonso d'Aragona, che il 2 giugno 1442 entrava in Napoli. Le forze di Renato d'Angiò, sempre appoggiato da F., che voleva difendere i suoi possedimenti in Italia meridionale, erano costrette a ripiegare verso l'Abruzzo. In quello stesso, cruciale mese di giugno si prospettò la possibilità di un accordo tra F. e re Alfonso, che aveva improvvisamente rotto con il pontefice (il patto prevedeva tra l'altro le nozze tra Sforza Maria, figlio di F., e Maria, figlia naturale di Alfonso), ma il 30 nov. 1442, una nuova poderosa alleanza coronava l'intenso sforzo diplomatico visconteo: il duca di Milano, il re aragonese ed Eugenio IV univano le proprie forze per risolvere definitivamente a favore di Alfonso il conflitto meridionale e per recuperare al papa i domini sforzeschi nella Marca. Proprio lì si combatté la guerra tra F. e Piccinino. F. più volte debellò le forze del rivale, poi, nell'estate 1443, dopo che le truppe viscontee erano state rinforzate dall'arrivo delle schiere aragonesi, egli fu costretto ad abbandonare precipitosamente il campo e a rifugiarsi a Fano presso Sigismondo Malatesta che aveva sposato sua figlia Polissena.
Fu Filippo Maria Visconti, preoccupato ora dai successi del sovrano aragonese, a salvare F.: lo invitò a trattare con il papa e informò Alfonso di essersi pacificato con lui. Di fronte all'incredulità e ai sospetti del re, il duca di Milano nel settembre 1443 giunse al punto di concludere un'alleanza con Venezia per assumere la difesa e la protezione dello Sforza. Inoltre stringeva alleanza con Genova per attaccare dal mare il Regno napoletano.
Si era creata una situazione paradossale: mentre il Piccinino, insieme con Alfonso, attaccava F., Filippo Maria si alleava con Venezia e Genova, sue vecchie nemiche, per far guerra al sovrano aragonese. Il Visconti mandò aiuti al genero che era assediato in Fano dal Piccinino e invitò pure Renato d'Angiò a riprendere l'iniziativa nel Regno. F. riuscì a sottrarsi all'assedio e affrontò infine vittoriosamente le truppe nemiche a Monteloro l'8 nov. 1443. Poco dopo, a Fermo, nella rocca di Girifalco, Bianca Maria, il 14 genn. 1444, partoriva il suo primogenito: il primo figlio legittimo di F. (dei trentacinque figli attribuitigli, solo undici sono infatti legittimi). Filippo Maria Visconti volle che il nipote portasse il nome di Galeazzo Maria, per ricollegarlo alla propria tradizione familiare lasciando così intendere che F. potesse essere escluso dalla successione nel Ducato.
La rottura tra il Visconti e il re d'Aragona era ormai completa, mentre sempre più andava rafforzandosi il legame tra Filippo Maria e Francesco. A ciò si opponeva il papa, deciso a recuperare il possesso della Marca. Perciò il 14 apr. 1444 scomunicò F. e Sigismondo Malatesta. Contemporaneamente il Piccinino si recò a Milano per convincere il duca ad abbandonare l'atteggiamento di tutela nei confronti del genero. Quest'ultimo il 16 agosto sbaragliò a Montolmo le forze del capitano rivale, guidate ora da Francesco Piccinino (figlio di Niccolò), che fu preso prigioniero insieme col vicario generale della Marca il cardinale D. Capranica. Il successo obbligò alla trattativa il papa, che si impegnò a riconoscere a F. il possesso, col titolo di marchese, di tutti quei luoghi della Marca che egli fosse riuscito a recuperare nello spazio di dodici giorni. Tale tempo fu sufficiente a F. per riprendere il controllo di quasi tutta la regione. Alfonso d'Aragona si ritirava intanto nel Regno, mentre il 15 ottobre moriva a Milano Niccolò Piccinino.
Questo trionfo gli rivolse immancabilmente contro il duca milanese: F. era di nuovo troppo potente, e sempre maggior rilievo acquistava la questione della successione al Ducato milanese. Così, Filippo Maria Visconti si collegò col papa e con il re aragonese contro il genero. Anche Sigismondo Malatesta gli si schierò contro, adirato perché il fratello di F., Alessandro Sforza, era riuscito a convincere l'altro Malatesta, Galeazzo, a conferirgli, o meglio vendergli, la signoria di Pesaro. Soltanto quest'ultimo e Federico da Montefeltro si dichiararono per F.; Firenze e Venezia, che pure parteggiavano per lui, rimasero formalmente neutrali. Fallì così il progetto di F. di puntare direttamente su Roma; nella primavera del 1446 era rimasta al condottiero, nella Marca, soltanto la città di Jesi, nella quale si rinchiuse con Bianca Maria e il figlio. Filippo Maria inviò allora Francesco Piccinino alla conquista di Pontremoli e Cremona, città che Bianca Maria aveva recato in dote a F., ma la presa di questa venne impedita dai Veneziani, improvvisamente impegnatisi nella mischia, che con l'aiuto dei Fiorentini allontanarono poi le minacce viscontee anche da Pontremoli. Le forze antiviscontee annientarono quindi le schiere del Piccinino nei pressi di Casalmaggiore e si diressero verso Milano. Nell'autunno 1447 i Veneziani avevano ormai consolidato le proprie posizioni oltre l'Adda. Filippo Maria, senza più esercito, chiese aiuto al re Alfonso d'Aragona, che nel dicembre riuscì a far arrivare sue forze (cui si aggregarono truppe papali e malatestiane) in Milano. F. da tutto questo si tenne in disparte, per motivi non del tutto chiari, e restò impegnato, malgrado gli appelli veneziani e come se nulla fosse, nell'assedio della rocca di Gradara, occupata da Sigismondo Malatesta.
Stretto da tutti i lati il Visconti cercò il negoziato con la Serenissima, ma la trattativa si interruppe bruscamente il 27 dic. 1447 perché i Veneziani stimarono insufficienti le sue offerte. Filippo Maria tentò così, come ultima carta, di accordarsi con Francesco. Questi, temendo che la Repubblica di S. Marco potesse impadronirsi dell'intero Ducato milanese, accettò la nomina a capitano generale della lega antiveneziana, che veniva "pubblicata" il 1° febbr. 1447 e riuniva, al fianco di Filippo Maria e di F., il re Alfonso e il papa; v'era inoltre la concreta speranza che al trattato aderissero anche i Fiorentini spaventati dalla prospettiva di un successo veneziano nel Milanese. Il Visconti si procurò anche l'alleanza del re di Francia Carlo VII e promise al delfino come ricompensa la città di Asti.
La morte del papa Eugenio IV il 23 febbr. 1447 mutò all'improvviso la situazione. Il successore, Niccolò V, si dichiarò prima favorevole a una pacificazione generale, poi accettò di partecipare all'impresa contro Venezia, ma solo a condizione di ricevere da F. Jesi. Ciò determinò un atteggiamento ambiguo in F., incerto com'era se garantire fedeltà a un'alleanza che gli avrebbe in qualche modo nuociuto oppure se cercare un accordo con la Serenissima.
Nel maggio 1447 i Veneziani si trovavano alle porte di Milano; ma nell'agosto, fallito il primo assalto alla città, le schiere di S. Marco erano costrette a ritirarsi sulle precedenti posizioni. F. invece era venuto a trovarsi in una condizione di assoluto isolamento, in urto oltre che con i Veneziani, anche con i suoi formali alleati: con il papa (per la questione di Jesi), con il re Alfonso (per antica rivalità), con il duca di Milano (per l'ennesimo suo mutamento di strategia). Il Visconti, che sentiva la sua posizione rafforzata dal sostegno assicuratogli dai Francesi, cercò infatti di liberarsi del genero cercando di favorirne una rottura definitiva con la lega fidando sul probabile rifiuto di F. di cedere Jesi al papa. La speranza del duca rimase delusa: nel giugno 1447, sorprendendo tutti, F. si accordava con Niccolò V, cedendogli la città contesa per 35.000 ducati, da adoperare nel conflitto in corso. Il 13 ag. 1447 moriva Filippo Maria Visconti, e a Milano si costituì la Repubblica Ambrosiana con l'obiettivo di ricostruire nella città il libero Comune. F. in quel momento si trovava in viaggio da Jesi verso Milano. Il 22 era a Cremona.
Il viaggio era stato costellato da continui incontri diplomatici: messi di tutti i potentati italiani raggiunsero F. per tentare di condizionare le sue scelte; gli si presentavano due alternative: porsi al servizio della Repubblica Ambrosiana contro Venezia, oppure impadronirsi dello Stato milanese alleandosi con la Serenissima. Infine si risolse ad accettare l'offerta che a nome di Milano gli presentò Giacomo Trivulzio: avrebbe condotto la guerra contro Venezia con la carica di capitano del Comune ricevendo un soldo di 20.000 ducati al mese; le sue conquiste sarebbero spettate alla Repubblica Ambrosiana, tranne Brescia o Verona che avrebbe potuto tenere per sé.
Il 31 agosto F. lasciava Cremona con 6.000 cavalli e 2.000 fanti. La sua avanzata ebbe un momento significativo in Pavia. La cittadinanza lo nominò conte della città prestandogli formale giuramento di fedeltà. La spontanea dedizione gli servì a giustificare la presa di possesso del luogo di fronte alle immediate proteste della Repubblica Ambrosiana. Infatti, la presa della città veniva vista in Milano come una conquista personale non prevista dal trattato di alleanza, che si rivelava ora in tutta la sua pericolosità. Ciò finì con lo spingere i Milanesi a tentare un accordo con Venezia: quest'ultima però pretese, in cambio della pace, il riconoscimento - inaccettabile per Milano - del possesso di Lodi e Piacenza. La conquista di questo ultimo luogo, avvenuta nel novembre, dopo un assedio di un mese, a nome stavolta della Repubblica Ambrosiana, finì col rafforzare ancor più la posizione di Francesco.
Dopo un nuovo, vano, tentativo di accordo dei Milanesi con la Serenissima, nel febbraio 1448 il conflitto riprese in tutta la sua intensità.
In breve F. riconquistò tutti i luoghi, tranne Lodi, che i Veneziani avevano occupato sulla riva destra dell'Adda. Il 15 settembre distruggeva le schiere di S. Marco a Caravaggio. La sconfitta poneva ora Venezia in gravi difficoltà: non solo ne frenava l'offensiva, ma rendeva anche difficile la difesa di Bergamo e Brescia con i relativi distretti. Ma dell'esito dello scontro di Caravaggio neppure potevano gioire i Milanesi, a causa del conseguente rafforzamento di F., che andava ormai convincendosi di avere il controllo della situazione e di potersi rivolgere direttamente contro la Repubblica Ambrosiana.
Un segretissimo trattato, siglato con i Veneziani a Rivoltella il 18 ott. 1448, parve consentirgli definitivamente la conquista dello Stato milanese. L'accordo prevedeva che la Serenissima avrebbe tenuto Brescia, Bergamo, Crema e la Ghiara d'Adda, riconoscendo in cambio a F. il diritto di acquisire il dominio ex visconteo; Venezia avrebbe sostenuto con milizie (4.000 cavalli e 2.000 fanti e altri 2.000 cavalli più 1.200 fanti poco dopo) e denaro (13.000 fiorini ogni mese) lo sforzo di Francesco. I Veneziani, costretti ad accettare l'intesa dopo l'esito catastrofico dello scontro di Caravaggio, respinsero però l'offerta fiorentina di partecipare al trattato: essi soli intendevano coglierne i frutti.
La notizia del tradimento di F. scosse Milano: la Repubblica Ambrosiana cercò aiuti, ma rifiutò quelli offerti dall'imperatore in cambio del riconoscimento della sovranità imperiale. Venne pure rigettata l'offerta di Ludovico di Savoia che voleva essere proclamato nuovo duca: dopo mesi confusi, in cui agli scontri sul campo tra Milano e F. si inframmezzarono tentativi di soluzione diplomatica, nel settembre 1449 il condottiero comparve alle porte della città. Tutto pareva deciso, ma il 24 settembre Venezia mutò improvvisamente rotta e si affrettò a concludere una pace separata, siglata in Brescia, con la Repubblica Ambrosiana. Non solo, la Serenissima invitò anche F., improvvisamente abbandonato dalle truppe venete, a partecipare all'accordo e a salvare così la Repubblica milanese. F., risolto il primo sconcerto, dopo aver riorganizzato le schiere in parte scompaginate dal ritiro dei Veneziani, riprese con foga il conflitto. Un secondo accordo tra Milano e Venezia fu siglato il 24 dic. 1449; in esso veniva fissato il fiume Adda come linea di confine tra i due Stati: a Venezia sarebbero spettate Crema e la Ghiara d'Adda. Per F., che poco prima di questo secondo trattato aveva tentato di accordarsi con la Serenissima, si rendeva ormai indispensabile occupare subito Milano, che egli peraltro aveva stremato con un duro assedio.
Il 25 febbr. 1450, infine, di fronte a un tentativo del governo del Comune di proclamare la dedizione cittadina alla Repubblica veneta (allo scopo di impegnare ancor più i Veneziani nella difesa della città) una rivolta popolare mise in fuga i capitani. Il comitato rivoluzionario che prontamente si insediò, senza dubbio già predisposto all'azione in tal senso - in esso si distingueva Gaspare da Vimercate, che aveva a lungo militato nelle milizie sforzesche - consegnò subito la città a Francesco. Questi, al suo primo ingresso in Milano, nel pomeriggio del 26 febbraio, bloccato da un gruppo di cittadini guidato da Ambrogio Trivulzio, rifiutò sdegnosamente la proposta di sottoscrivere una lista di capitoli di sudditanza. Sembra peraltro che tale primo ingresso di F. in Milano sia durato una sola ora: una vigorosa e asciutta dimostrazione di potere cui seguì il pronto ritorno al campo di Vimercate. Qui gli si presentarono a partire dal giorno successivo i sei delegati milanesi incaricati di sottoporgli, con correttezza formale, i capitula che F. poi accettò, sia pure ancora non in forma ufficiale, il 28 febbraio. Il 3 marzo venne esteso l'atto della traslazione definitiva del potere ducale nelle mani di F., provvedimento che venne poi ratificato l'11 marzo dall'Assemblea generale milanese. Solo il giorno 22 di quel mese, con la moglie e il figlio Galeazzo Maria, F. rientrò in Milano, ma ancora temporaneamente: in quest'occasione ricevette i simboli del potere cittadino e gli fu prestato il giuramento di fedeltà da parte della cittadinanza. Il 24 marzo tornò invece a Milano per restarvi.
L'articolato cerimoniale che accompagnò il rientro di F. era motivato dall'esigenza del nuovo signore, affermatosi a Milano grazie alle proprie indubbie "virtù" personali, ma sulla base di incerti diritti - quelli acquisiti grazie al matrimonio con Bianca Maria Visconti -, di legittimare formalmente il dominio conquistato. Il Ducato era infatti pure reclamato dagli Orléans, per via delle nozze, nel 1387, di Luigi d'Orléans con Valentina Visconti, e da Alfonso d'Aragona, in virtù di una presunta volontà testamentaria - di cui non si trovava però valida prova - di Filippo Maria Visconti in suo favore. Anche l'imperatore eletto Federico III, come si è visto, aveva mire sul Ducato, e per di più non sembrava affatto disposto a riconoscere la legittimità di un diritto di successione ottenuto per via femminile (impedimento che valeva anche per gli Orléans). F., infatti, non sarebbe mai riuscito, malgrado i ripetuti sforzi, a ottenere la ratifica imperiale del suo potere. Perciò, il Ducato milanese, pur saldamente nelle mani di F., sotto un profilo esclusivamente formale rimaneva vacante. Inoltre, nel periodo della Repubblica, un incendio aveva distrutto l'archivio visconteo, creando un grave vuoto giuridico, perché erano scomparsi gli originali di privilegi, diplomi, lettere emanati dal precedente regime. La Repubblica di Venezia, Federico III e il re di Francia Carlo VII non risposero pertanto alle lettere inviate loro da F. per annunciare il proprio successo.
Il 1° apr. 1450 F. otteneva invece da papa Niccolò V un "indulto" in materia di benefici ecclesiastici. Il provvedimento pontificio, più che per l'intrinseca rilevanza delle prerogative accordate dal papa al duca - il pontefice si impegnava a collazionare i benefici del Ducato che si rendessero vacanti a favore di chi gli avesse segnalato F. purché avesse potuto vantare i richiesti requisiti -, ebbe grande importanza perché rappresentò la prima significativa legittimazione del nuovo potere. Nell'"indulto" si diceva tra l'altro che F. era giunto al trono ducale con il consenso "comunitatum, universitatum, personarum seu maioris partis earum" del dominio e "concedente Altissimo". La bolla venne resa pubblica solo nei primi mesi del 1451, quando la situazione politica sembrò potesse nuovamente guastarsi.
Subito dopo aver ottenuto la formale dedizione della città F. ordinò la ricostruzione del castello di porta Giovia che la decaduta Repubblica Ambrosiana aveva distrutto perché simbolo di tirannide. Il 5 giugno 1450 fu posta la prima pietra del castello Sforzesco. La decisione creò un forte scontento in Milano: per Machiavelli la riedificazione del forte costituì una scelta disastrosa per il nuovo dominio (Il principe, XX).
Sul piano interno, in un primo momento, F. premiò quella nobiltà che nella recente crisi aveva favorito la sua ascesa; mostrò moderazione nei confronti dei fuorusciti e represse le molestie e angherie della soldatesca nei confronti della popolazione. In un tempo di poco successivo passò a favorire i settori produttivi della città e dello Stato: li gratificò con agevolazioni ed esenzioni e in linea di massima curò che il contenzioso giuridico riguardante le corporazioni venisse risolto a favore di queste ultime. Nel 1452, di fronte a una crisi del settore produttivo che stava provocando un deciso esodo di artigiani, F. emanò due "gride" in cui si decretava che nessuno di essi potesse essere molestato da creditori e che fosse condonato ogni debito per il tempo di quattro anni per quegli artigiani che, dopo essersi allontanati a causa di tal genere di pendenze, avessero recuperato il proprio posto. F. si mostrò sempre sensibile agli umori del popolo: nel '52, di fronte alle proteste dei sudditi, annullò senza esitare l'aumento della gabella del sale imposto poco prima per urgenti necessità finanziarie. Tale suo atteggiamento favorevole ai ceti produttivi gli procurò presto l'ostilità dei feudatari, le cui giurisdizioni separate e i cui privilegi si apprestò subito peraltro a erodere per rafforzare il potere centrale. La sua accorta politica sociale - oltre che la precaria condizione in cui si trovava lo Stato dopo decenni di guerre ininterrotte e dopo la recente, confusa, esperienza repubblicana - gli rese però sempre difficile reperire il denaro necessario a finanziare le sue iniziative. Sarebbe stato questo l'impedimento maggiore durante gli anni della sua leadership: impedimento grave che influenzò anche fortemente i suoi atti di governo.
Sul piano istituzionale F. non ebbe motivo di introdurre radicali innovazioni rispetto al periodo visconteo. La sua attività organizzativa si attuò innanzitutto nella ricostituzione e riforma del Consiglio segreto, che era insieme tribunale e organo politico, già dichiarato decaduto dalla Repubblica Ambrosiana. A tale organo si affiancava, nella direzione amministrativa del Ducato, come già sotto i Visconti, il Consiglio di giustizia. Il magistrato alle Entrate, composto da referendari e razionatori, sovrintendeva alle finanze, e il tesoriere generale amministrava il pubblico denaro. Per il disbrigo dei suoi affari il duca si avvaleva della Cancelleria segreta, i cui ufficiali erano legati al signore da un giuramento di fedeltà, e il cui operato era regolato da norme meticolose e severe. Ispiratore del (parzialmente) nuovo corso amministrativo del Ducato, e suo garante quotidiano, fu Cicco Simonetta, da anni prezioso collaboratore di Francesco. Nel campo dell'organizzazione militare, il duca si avvalse del personale amministrativo della sua compagnia, che era la maggiore tra le italiane, contando da 4.000 a 5.000 unità, il che costituì una tappa importante del processo di creazione di un'amministrazione militare stabile.
La scena politica generale, per quanto assai tesa, dato che la conquista del Ducato aveva semmai aumentato i motivi di discordia tra F., Venezia e re Alfonso d'Aragona, si trovava intanto in una fase di stallo. Ognuno dei contendenti attendeva le mosse del rivale. Il 2 giugno 1451 il duro provvedimento della Serenissima, attuato in contemporanea anche a Napoli, con cui si espellevano i mercanti fiorentini - provvedimento che avrebbe dovuto spingere Cosimo de' Medici a rinunciare all'intesa con F. -, generò l'effetto opposto di legare Milano a Firenze in una formale alleanza i cui capitoli vennero "pubblicati" il successivo 15 agosto. Il 4 novembre a tale alleanza aderì anche Genova, che cercava in tal modo di garantirsi dalle ambizioni di re Alfonso. Non solo, il 21 febbr. 1452 Firenze, sempre attivissima sul piano diplomatico, stringeva alleanza anche con il re di Francia.
Effetto dirompente ebbe la ratifica ufficiale dell'alleanza tra F., Firenze e Carlo VII nel febbraio 1452. L'accordo rese inevitabile il conflitto, che divampò nel successivo maggio. Le motivazioni dello scontro erano molteplici: alle contese territoriali tra Milano e Venezia, si aggiungevano i contrasti tra Firenze e Venezia in materia di presenza di mercanti toscani nei mercati orientali e le mire di re Alfonso su Genova (il che preoccupava anche i Francesi) e sulla Toscana meridionale. Ma la guerra, di fatto, finì poi con il coinvolgere soprattutto Milano e Venezia.
Le ostilità divamparono improvvise: il 16 maggio 1452 i Veneziani passarono il confine sorprendendo i Milanesi; a Occidente attaccò il marchese di Monferrato, sostenuto dal duca di Savoia; a Sud del Ducato si mossero i da Correggio. La sconfitta subita a Cerreto, nei pressi di Lodi, da Alessandro Sforza, fratello di F., indebolì subito la posizione milanese, e il periodo che andò dall'agosto all'ottobre 1452 si rivelò per il duca di particolare durezza. Mentre Parma, Lodi e Alessandria minacciavano di ribellarsi, F. si fermò a Quinzano, tentando di preservare dallo scontro con il nemico il grosso delle proprie forze, ancora stordite dal primo urto. Nell'ottobre si poté assistere a una ripresa dell'iniziativa milanese verso il Bresciano, ma all'inizio del 1453 le truppe ducali erano ancora sulla difensiva. I Veneziani parvero poi poter dilagare: si impadronirono di Castiglione delle Stiviere, quindi attaccarono Quinzano. Unico sollievo per F. fu l'appoggio fornitogli da Renato d'Angiò, il quale non solo minacciò di marciare su Napoli per impadronirsi del Regno, ma riuscì anche a convincere il marchese del Monferrato, nel settembre, a ritirarsi dalla contesa.
Il 15 ag. 1453 i Milanesi riportarono a Ghedi un'importante vittoria sui Veneziani che ribaltava di fatto le sorti del conflitto. In ottobre F. otteneva finalmente gli aiuti fiorentini a lungo solo promessi, e alla fine di quel mese riuscì a recuperare la piazza bresciana di Pontevico. Entrò poi nel Cremonese e in breve i Veneziani si videro costretti nei soli capoluoghi Crema, Bergamo e Brescia. Proprio in quel mese, tuttavia, anche a causa delle gravi notizie che giungevano da Costantinopoli, cominciarono trattative segrete tra Milano e Venezia per risolvere il conflitto. Fu soprattutto la difficile situazione economica e sociale dei due Stati a determinare, il 9 apr. 1454, il raggiungimento dell'accordo, siglato a Lodi. Nel trattato, al quale erano invitati ad aderire gli altri Stati italiani, si garantiva libertà di commercio ai sudditi delle due parti e si stabiliva che i Veneziani avrebbero mantenuto tutte le acquisizioni dell'ultima fase della guerra (nel Cremasco, Bresciano e Bergamasco), restando però a F. la Ghiara d'Adda.
Gli Stati italiani respinsero all'inizio l'accordo, ma l'iniziativa milanese e veneziana era destinata a ben altro, e un intenso sforzo diplomatico portò il 25 marzo 1455 alla "pubblicazione" di quella Lega italica che avrebbe dovuto garantire per venticinque anni la pace nella penisola. I firmatari, che contraendo il patto riconoscevano la legalità del dominio di F., si impegnavano a salvaguardare la situazione esistente. La dottrina dell'"equilibrio", alla cui affermazione F. molto contribuì, sostituiva l'inaridita dottrina della forza, che aveva causato in Italia decenni di guerre e distruzioni senza però consentire ad alcun potentato di avere definitivamente la meglio sugli altri.
Tra i contraenti della Lega il meno convinto era re Alfonso che non aveva rinunciato ad alcuna delle sue antiche ambizioni. Oltretutto il sovrano disponeva al momento del condottiero Giacomo Piccinino, il quale, staccatosi da Venezia, cercava ora di emulare F. e di procurarsi uno Stato. Puntando sulle proprie milizie e sull'appoggio di Alfonso, che se ne serviva per creare sconcerto tra i suoi concorrenti, Piccinino attaccò con decisione nel Senese, dove occupò il castello di Cetona. Nella notte tra il 24 e il 25 marzo 1455, morì papa Niccolò V, cui succedeva Callisto III (Alonso Borja).
Mentre il Piccinino muoveva pericoloso in Italia centrale, F. cercò di avvicinarsi all'Aragonese. Il tentativo si realizzò, in questa fase, in due accordi matrimoniali: Ippolita Sforza e Sforza Maria, secondogenita e terzogenito di F., avrebbero sposato rispettivamente Alfonso ed Eleonora d'Aragona, entrambi figli di Ferdinando, duca di Calabria. Seguì l'intesa del 31 maggio 1456, siglata anche con l'appoggio del papa, nella quale F. e l'Aragonese dichiaravano esplicitamente una volontà di avvicinamento; Alfonso si impegnava anche a bloccare il Piccinino nella sua pericolosa impresa toscana - che si stava ora rivolgendo direttamente contro lo Stato pontificio - e ad accogliere il pericoloso uomo d'armi nel Regno.
Le possibilità di un'effettiva intesa tra F. e Alfonso erano però di fatto ancora poche. Soprattutto divideva i due la questione di Genova, città che l'Aragonese non aveva mai nascosto di voler acquisire e cui ambivano anche i Francesi che F. voleva evitare a tutti i costi fossero coinvolti nello scenario italiano. Dopo un lungo periodo di incertezza, il 7 febbr. 1458, con un trattato siglato ad Aix, in Provenza, il doge Pietro Fregoso concedeva a Giovanni d'Angiò la Repubblica di Genova con il titolo di luogotenente generale e governatore. La situazione sembrò allora precipitare: Alfonso meditò di appellarsi ai potentati della Lega italica, poiché il trattato contravveniva ai principî sanciti nel 1455, mentre F. fomentava in Genova l'opposizione all'Angiò. Ma il 27 giugno il re aragonese moriva.
Nel regolare la successione, Alfonso, dopo aver a lungo provato quanto fosse arduo reggere un dominio tanto esteso, lasciò il Regno napoletano al figlio naturale Ferdinando e quello d'Aragona e Sicilia al fratello Giovanni, re di Navarra. Il compito di Ferdinando si rivelò subito difficile: i baroni del Regno presero a premere perché il sovrano sospendesse l'opera di centralizzazione iniziata dal padre e per essere reinvestiti dei loro precedenti privilegi. A complicare il tutto era anche intervenuta la voce che papa Callisto III intendeva dichiarare decaduti gli Aragonesi e investire del Regno napoletano il nipote, Pier Luigi Borgia. F. si schierò con decisione al fianco di Ferdinando - si disse però che avesse per un istante considerato la possibilità di prendere per sé il Regno napoletano -, sia di fronte alla minaccia baronale, sia a quella papale. Si vociferò anzi che l'improvvisa morte del pontefice (6 ag. 1458) fosse in qualche modo da collegare al duro colloquio avuto da Callisto con l'inviato sforzesco Giovanni Caimi. Il nuovo papa Pio II (Enea Silvio Piccolomini) subito concesse il 17 ottobre l'investitura del Regno a Ferdinando.
Riprendeva intanto l'iniziativa del Piccinino, che prese senza alcuna difficoltà Assisi, Bevagna, Gualdo e altri luoghi nello Stato pontificio. Con l'immediato schierarsi di F. al fianco del papa - il che obbligò Piccinino a restituire dopo breve le sue conquiste - si consolidava quell'asse tra Milano e la S. Sede che avrebbe significativamente caratterizzato per qualche tempo la politica italiana. Tale legame si rafforzò ulteriormente con il congresso di Mantova del 1459, voluto dal pontefice per organizzare la risposta bellica cristiana all'attacco turco in Oriente. Fu solo il solenne, personale, intervento di F., il 17 sett. 1459, a risollevare le sorti della languente conferenza: il 1° ottobre le potenze italiane si impegnavano a condurre la guerra al Turco e a rispettare ogni indicazione che in tal senso fosse provenuta dal papa.
Si aggravava frattanto la situazione nel Meridione. Alla fine del marzo 1460 il Piccinino, schierato dalla parte dei ribelli, penetrò nel Regno napoletano, dove già F. aveva inviato in aiuto del sovrano alcune schiere guidate dal fratello Alessandro. In estate le forze di Ferdinando subirono una serie di rovesci, culminati poi nella sconfitta di Sarno del 6-7 luglio. La situazione sembrò allora poter precipitare, sia, ovviamente, per quel che riguardava il sovrano, sia per gli alleati di quello, in primo luogo il papa. Il Piccinino si diresse infatti con decisione verso l'Abruzzo, che sottomise in gran parte, poi sembrò pronto, a metà ottobre, a puntare su Roma. Passato il primo sconcerto, le truppe pontificie, capitanate da Federico da Montefeltro e quelle milanesi, guidate da Alessandro Sforza, riuscirono a respingere la grave minaccia. Nel gennaio 1461 il Piccinino era costretto a ritirarsi in Puglia.
Nel frattempo il re di Francia Carlo VII inviò nel luglio 1460 a Firenze e a Venezia un'ambasceria per organizzare una lega che si contrapponesse all'alleanza che riuniva Ferdinando, il papa e Francesco. Il tentativo non solo non diede i risultati sperati, ma determinò le trattative tra F. e il delfino Luigi, in grave disaccordo con il padre, che portarono all'intesa del 6 ott. 1460 nella quale F. prometteva a Luigi ogni aiuto per impadronirsi del Regno di Francia, e il delfino a sua volta si impegnava ad appoggiare le sue iniziative.
Nella prima metà del 1461 Genova si ribellò ai Francesi, che riuscì infine a scacciare anche grazie agli aiuti inviati da Milano. La disputa che seguì l'insurrezione, tra gli Adorno e i Fregoso sostenuti da F., si risolse a favore di questi ultimi. Ma mentre sembrava che stessero per realizzarsi felicemente tutte le strategie di F., il 22 luglio di quell'anno moriva Carlo VII. Il figlio e successore Luigi XI mostrò subito di voler seguire le orme del padre, con cui si era a lungo scontrato, considerando superata l'intesa con F. dell'ottobre 1460. Oltre a voler recuperare Genova, il re doveva sostenere le pretese degli Angiò sul Regno meridionale e quelle degli Orléans (ma ciò non veniva esplicitamente dichiarato) sullo stesso Ducato milanese. Il 4 febbr. 1462 giungeva a Milano un'ambasciata d'Oltralpe in cui si richiedeva al duca aiuto per recuperare Genova; e inoltre di abbandonare l'alleanza con Ferdinando, di consentire le nozze tra Ippolita Sforza e Giovanni d'Angiò; di sostenere quest'ultimo nella sua lotta nel Meridione. Un'ambasceria d'analogo tenore raggiunse il papa, nell'evidente tentativo di annullare l'alleanza tra Roma e Milano, vera chiave di volta dell'equilibrio italiano. Ma anche con Pio II l'iniziativa francese, che si rinnovò poi in una serie di minacce più che con altri tentativi di negoziato, cadde nel vuoto.
In tale complesso scenario, nel dicembre 1461, F. fu colpito, stavolta in forma assai grave, da una ripresa di quell'idropisia e gotta che già l'avevano tormentato l'estate precedente. Mentre Bianca Maria faceva fronte a tutte le incombenze derivanti dall'emergenza, la falsa notizia della morte del duca, che si diffuse d'improvviso alla fine del gennaio 1462, provocò un'agitazione di contadini nel Piacentino. Mentre Luigi XI inviava milizie ad Asti, pronto ad approfittare di eventuali, favorevoli, sviluppi della situazione, F., miracolosamente, come si disse tra il popolo, si riprese dal male: agli inizi di febbraio era già in grado di accogliere personalmente un'ambasceria francese.
La situazione generale si ripresentava all'improvviso nuovamente favorevole per il duca di Milano. Ferdinando d'Aragona si sollevava infatti dalle sue difficoltà con la battaglia di Troia, che il 18 ag. 1462 pose sostanzialmente fine alla lunga guerra napoletana. I baroni venivano domati e le aspirazioni angioine represse. Luigi XI e Giovanni d'Angiò dopo la disfatta chiesero a Ferdinando una tregua di quattro mesi che questi, col consiglio anche di F., rifiutò, sì da potere sbaragliare del tutto il nemico. Uno smacco per il duca milanese fu invece l'inaspettata cessione di Cervia operata dagli indeboliti Malatesta di Rimini, coinvolti nella disfatta degli alleati angioini, a favore dei Veneziani. L'acquisizione veneta rischiava di stravolgere il delicato equilibrio in Italia settentrionale, già turbato, a partire dal 1461, dalle manovre antimalatestiane di Pio II. Il pontefice intendeva annettere Rimini al dominio papale per poi infeudarla al nipote, Antonio Piccolomini. F. era però contrario al progetto, che oltre ad assorbire milizie ben più utili nella mischia meridionale, ora nel suo momento cruciale, rischiava di provocare un intervento veneziano nella regione adriatica, conseguente al rafforzamento pontificio in quelle zone cui la Serenissima da tempo ambiva.
Ma importanti novità giungevano per F. dalla Francia. Luigi XI, in seguito alla disfatta italiana e alla difficile situazione interna del Regno, minacciato anche dalla condotta aggressiva di Filippo, figlio del duca di Savoia, propose a F. nel maggio 1463 di cedergli Savona se lo avesse sovvenuto nel difficile momento. Il 22 dicembre l'accordo, assai ampliato, veniva finalmente ratificato: F. si alleava al sovrano francese che gli concedeva in feudo Genova e Savona; inoltre il duca milanese negoziò con Luigi XI le nozze del primogenito Galeazzo Maria con Bona di Savoia, figlia del duca Ludovico e cognata del re francese.
Nei primi mesi del 1464 F. curò di dare realizzazione pratica al trattato con il re francese, ma se non incontrò difficoltà nell'acquisizione di Savona che ottenne il 6 febbraio, più arduo si rivelò l'ingresso in Genova. F. non intendeva ricorrere alla forza, ma presentarsi come il pacificatore delle lotte fra le fazioni. Perché ciò fosse possibile il duca doveva essere invitato a intervenire almeno da una parte significativa della cittadinanza. Lo schierarsi al suo fianco del Banco di S. Giorgio gli garantì, alla fine di marzo, le dimissioni del doge Paolo Fregoso e il conseguente ingresso in città di Gaspare da Vimercate il 13 aprile.
Nei mesi seguenti, le morti di Cosimo de' Medici, 1° agosto, e di Pio II, tra il 14 e il 15 agosto, scomparsa quest'ultima che fece accantonare definitivamente il progetto della crociata antiturca, mutarono in modo significativo l'equilibrio generale e determinarono un'improvvisa instabilità. A Cosimo successe infatti il debole figlio Piero che si trovò a fronteggiare una situazione interna di malcontento dovuta alla crisi economica; a Roma il 30 agosto veniva eletto Paolo II, il veneziano Pietro Barbo, che sembrò in un primo momento voler privilegiare il legame con la madrepatria e abbandonare la tradizionale intesa con Milano (che già peraltro aveva dato segni di cedimento vivente Pio II). Un tentativo veneziano, peraltro fallito, di impadronirsi di Rimini, provocato dalla falsa voce della morte di Sigismondo Malatesta, provvide poco dopo, per fortuna di F., a determinare un raffreddamento dei rapporti tra il papa e la Serenissima.
Il 12 ag. 1464 Giacomo Piccinino, che dopo la disfatta angioina in Meridione si era accordato con re Ferdinando e con F., sposava a Milano Drusiana, figlia naturale del duca di Milano. Nella primavera del 1465 il Piccinino partì poi per Napoli, dove il re l'aveva attirato con la promessa della nomina a viceré degli Abruzzi. Accolto con ogni onore il 4 giugno, il mese successivo il condottiero veniva imprigionato da Ferdinando, e il 14 luglio moriva in circostanze misteriose. La morte del Piccinino fu da tutti addebitata alla cinica, congiunta volontà del sovrano napoletano e di F. - che avrebbe dato il suo assenso alle nozze con la figlia al solo fine di consentire la congiura e di coprire le proprie responsabilità nella stessa - di liberarsi di un uomo ambizioso, pericolosissimo per l'equilibrio italiano. La secondogenita di F., Ippolita, era intanto in procinto di raggiungere la corte napoletana per sposare il duca di Calabria, figlio del re Ferdinando. Il duca di Milano sembrò per un istante volerla fermare, per dimostrare - o per fingere - il proprio sdegno verso il sovrano meridionale per la fine del Piccinino; poi, però, autorizzò la ripresa del suo cammino.
Luigi XI di Francia si trovava frattanto alle prese con la rivolta dei feudatari capeggiati da Carlo il Temerario e da Giovanni d'Angiò. Il re chiese aiuto a F. che gli inviò come supporto una forza composta da 1.000 fanti e 2.000 cavalli capeggiata dal primogenito Galeazzo Maria. Le schiere sforzesche ebbero una qualche parte nel conflitto, che si interruppe il 5 ottobre grazie a una tregua firmata tra Luigi XI e il duca di Borgogna. Il re ne usciva rafforzato, ma soprattutto l'intervento milanese costituiva un risultato di prestigio per F., capace ormai di intervenire anche al di là dei confini della penisola.
Fu l'ultimo suo grande successo, mentre in Italia venivano a crearsi o a minacciarsi nuovi sconcerti. A Firenze, dove si indeboliva la posizione di Piero de' Medici e si parlava di un riavvicinamento della città a Venezia; nel Regno, perché sembrava che il sovrano intendesse richiedere al papa Terracina e Benevento; nello Stato pontificio per il desiderio non celato di Paolo II di impadronirsi di Bologna.
L'8 marzo 1466, F., dopo un nuovo attacco di idropisia, morì a Milano.
F. fu uno dei personaggi più significativi del Rinascimento italiano, l'"uomo nuovo" capace di raggiungere la vetta valendosi delle sole sue virtù, della sua sagacia politica, delle sue doti militari. Formatosi come condottiero alla scuola del padre Muzio, del quale seguì l'insegnamento divenendo il campione di una condotta ispirata all'azione prudente e accorta più che alla ricerca dell'offensiva violenta, proprio alla sua abilità di uomo militare, "per essere armato", F. dovette, per Machiavelli, la sua ascesa (Il principe, XIV). A differenza però di tanti altri valorosi, e altrettanto ambiziosi, capitani che agirono nel suo tempo, F. non solo fu un uomo d'armi, ma anche un politico accortissimo, capace di districarsi, nell'attuazione del suo personale progetto, tra le insidie di una situazione generale eccezionalmente dinamica e complessa. L'idea, realizzatasi nell'articolata intesa seguita all'accordo di Lodi, di una pace nella penisola - che avrebbe potuto essere assicurata solo dall'equilibrio tra le forze in campo - fu il suo contributo più rilevante alla scena italiana del tempo: ponendosi come garante di tale equilibrio riuscì a mantenere "con poca fatica", ciò "che con mille affanni" e con "li debiti mezzi e con una gran virtù" "aveva acquistato" (Il principe, VII).
Malgrado i pressanti impegni politici e militari che caratterizzarono l'intera sua esistenza, F. non mancò di una reale sua sensibilità umanistica. Protettore di letterati (tra cui Francesco Filelfo, che gli dedicò la Sforziade) e artisti, curò con vivo interesse l'ampliamento della biblioteca del castello di Pavia, iniziata dal Visconti: a tal fine nel 1459 scrisse personalmente al mitico prete Gianni d'Abissinia perché gli procurasse copia delle opere di Salomone. Tra le sue più importanti realizzazioni a beneficio della città e dello Stato si ricordano la costruzione (1457-1460) del naviglio della Martesana, che convogliava le acque da Trezzo a Milano, il castello Sforzesco e soprattutto l'ospedale Maggiore di Milano. Un complesso, quest'ultimo, unico nel suo genere - fu il primo degli ospedali laici - la cui fondazione fu decretata con diploma del 1° apr. 1456. Ne diresse i lavori inizialmente il Filarete, poi Guiniforte Solari. Il 9 dic. 1458 papa Pio II emanava in una bolla le autorizzazioni canoniche necessarie alla costituzione del nuovo ente.
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