FRANCESCO I d'Este, duca di Modena e Reggio
Nacque il 6 sett. 1610 da Alfonso III d'Este, futuro duca di Modena e Reggio, e da Isabella, figlia del duca Carlo Emanuele I di Savoia.
Alfonso, assunta la direzione dello Stato nel 1628, dopo la morte del duca Cesare, appena un anno dopo decise di abdicare: mossa inconsueta cui certo non fu estranea la scomparsa della moglie nel 1626, vista come segno provvidenziale da un'indole religiosa sino allo scrupolo. Il 24 luglio 1629 a Sassuolo lasciava la guida dello Stato all'allora diciannovenne F., primogenito maschio sopravvissuto, e si ritirava in Tirolo, vestendo l'abito dei cappuccini. F. aveva già compiuto il noviziato delle armi andando alla guerra di Fiandra: nel corso del 1628 era stato in Francia, nei Paesi Bassi e in Germania.
Il F. ereditava una situazione delicatissima, in un quadro politico generale drammatico in tutta l'Europa. Il Ducato era troppo angusto, dopo l'irreversibile cessione di Ferrara, per consentire una qualsiasi velleità di iniziativa politica; era concupito neppure troppo velatamente dal pontefice e, comunque, la sua natura giuridica di feudo imperiale imponeva di fatto limiti di fondo che nessun lavorio o abilità diplomatica poteva superare. In Europa, inoltre, era in pieno, drammatico svolgimento la guerra dei trent'anni e le sue propaggini italiane arrivavano a lambire i confini dello Stato estense: nel 1629, a pochi mesi dal suo avvento al trono, F. riuscì ad allontanare, dietro versamento di una grossa cifra, l'obbligo di alloggiare i lanzichenecchi del conte Rambaldo di Collalto, che premevano pericolosamente ai confini dello Stato, dopo avere distolta brevemente l'attenzione dal tragico assedio di Mantova. Purtroppo F. non riuscì, invece, a tenere lontano la peste che, al seguito delle truppe imperiali, fin dal 1629 era passata dalla Lombardia alla riva destra del Po. Il culmine del contagio si ebbe tra la primavera e l'autunno del 1630: la popolazione di Modena, falcidiata, dalle circa 20.000 anime del 1620 scese a poco più di 11.000 nel 1642.
Sarà proprio l'episodio della guerra per la successione di Mantova che, in quegli anni, segnerà la ripresa di una politica francese più attiva nella penisola.
A F., come agli altri principi italiani, restava l'opzione più difficile da gestire: cercare di sopravvivere stretto da due grandi potenze e la loro influenza in Italia, schierandosi di volta in volta con la più vicina, ma non precludendosi un ambiguo gioco con la controparte. Tattica minima e non priva di rischi che F. attuò, forte dell'alta coscienza di sé e del proprio casato che condivideva con gli altri lignaggi principeschi italiani e che lo portava a declinare persino un prestigioso legame matrimoniale della sorella Margherita con il principe Giovanni di Braganza, grande di Spagna e futuro re del Portogallo.
All'epoca F., solo ventenne, aveva netta coscienza di vantare nei confronti della Corona spagnola almeno una pretesa: i crediti accumulati con il mancato versamento dei 12.000 scudi annui e di alcuni stipendi accessori a militari concordati nel 1601 nell'importante capitolazione stabilita a Milano tra Pedro de Azevedo conte di Fuentes, allora governatore della città, il duca Cesare d'Este e Filippo III di Spagna. In realtà dal 1606 era cessato ogni pagamento dopo che due anni prima il debito era stato addossato alle finanze napoletane. Nel 1630 s'era cumulata, dunque, tra capitale e interessi, una notevolissima cifra che si andava a sommare alla tranche dotale di 100.000 scudi d'oro promessi e mai versati da Filippo III alla nipote Isabella di Savoia all'epoca del matrimonio con Alfonso d'Este.
Trattare il contenzioso economico e tenere presente la dignità della casa d'Este che chiedeva il conferimento del titolo regale di cui già si fregiavano i Savoia e i principi di Toscana, costituirono il delicato compito affidato al conte G.B. Ronchi in una celebre ambasceria a Madrid, protrattasi dal 1629 al 1633.
Quanto ai denari, le illusioni non durarono a lungo per la Spagna, avviata a un'inarrestabile decadenza, impegnata in una onerosissima e poco produttiva politica internazionale, con la corte divisa da rivalità intestine che rallentavano la rapidità di intervento e la prontezza di esecuzione anche per un ministro come il conte-duca di Olivares, "è tale la congiuntura de' tempi… - scriveva il Ronchi - che non v'ha modo di concertarne un aggiustamento" (Negri, p. 301). Non maggior successo ebbe l'assegnazione del titolo regio: agli occhi della Spagna ciò avrebbe provocato una serie di ripercussioni su analoghe richieste da parte di altre corti italiane, dando la stura a una serie di defatiganti contenziosi.
Più disponibilità trovò un progettato matrimonio dello stesso F. con una principessa austriaca, dietro il quale molti, non a torto, vedevano il rinascere di rivendicazioni che il giovane e ambizioso duca avrebbe potuto rinverdire nei confronti della perduta Ferrara. L'opposizione - prevedibile - di Urbano VIII, sospettato di simpatie francesi, e la tepidezza della corte viennese fecero in realtà tramontare il progetto e rompere gli indugi al giovane e realistico F.: nel 1630, dopo rapide trattative, sposava Maria Farnese, sorella di Odoardo, duca di Parma. Almeno si apriva qualche prospettiva per l'acquisizione del principato di Correggio, su cui si andavano concentrando gli appetiti di molti dopo il sequestro imperiale per una vecchia causa di adulterazione di monete imputata al principe Siro.
Ben poco, dunque, sul piano pratico, ottenne F. da questa prima sortita madrilena: denari, impossibile averne; titolo regio, negato; neppure molto ricavò in fatto di sistemazioni militari o assegnazione di pensioni ai congiunti Borso e Foresto e al principe Cesare; negato anche l'appoggio per un titolo cardinalizio al prediletto fratello Rinaldo, ottenuto solo nel 1641 grazie ai buoni uffici imperiali. L'Olivares si era impegnato, questo sì, a finanziare sostanziosamente la costruzione di una fortezza che F. avrebbe eretto in funzione antipapale; in cambio riusciva ad ottenere dallo spossato Ronchi, che nel 1633 morirà lontano dall'Italia, un atto di assenso alla dichiarazione di protezione spagnola sul duca.
Indubbiamente nella successiva tessitura politica del giovane F. resteranno ben presenti questa resistenze, questi appoggi solo verbali, l'arroganza nel trattare con gli alleati che nocque agli Spagnoli tanto quanto l'andamento negativo di molte campagne militari. Tanto più che, in ossequio al suo schieramento filospagnolo, F. si era mosso anche contro il cognato Odoardo Farnese, passato alla Francia, e aveva, per questo, dovuto subire un'invasione del suo Stato da parte dei Franco-Piemontesi. Persino nella questione di Correggio, vitale per F., situato com'era "nelle viscere" del suo Stato (Rombaldi, p. 19), più che il chiaro volere della Spagna - che ne aveva acquisito tutti i diritti dall'Impero nel 1634 - casualità e lunghi, graduali patteggiamenti assegnarono questa piazza agli Estensi, prima sotto l'ipoteca di una presenza militare spagnola e solo nel 1649 assegnata definitivamente al duca.
Nei primi dieci anni di governo gravitare entro l'orbita di Madrid fu quasi una necessità per F., che tuttavia cercò di fare pesare opportunamente i propri segnalati favori o anche solo la sua neutralità: è il caso dell'episodio della Lega di Rivoli (luglio 1635) tra Francia, Savoia e Parma, alleate per cacciare gli Spagnoli dalla Lombardia.
F. fu sollecitato ad entrarvi anche in forza della stretta parentela che, in modi diversi, lo legava ai contraenti. In quell'occasione, nel corso del 1636, aveva difeso con energia il suo dominio dagli sconfinamenti delle truppe alleate e aveva mercanteggiato con la Spagna un suo più deciso schieramento in cambio di un notevole elenco di richieste per il suo casato; per sé richiedeva il titolo di altezza reale, Mirandola, il ritiro del contingente spagnolo da Correggio. Tramite delle sue richieste fu il poeta e diplomatico F. Testi, a Madrid dal marzo 1635 al dicembre 1636 e, poi, dal dicembre 1637 al maggio 1639.
Durante quest'ultima ambasceria si collocò il viaggio dello stesso F. in Spagna, tra l'agosto e il novembre 1638. Ne ricavò grosse soddisfazioni e prestigio personale: il sospirato titolo regale, quello di generale degli oceani con relativo appannaggio, svariate pensioni e incarichi militari per i fratelli e lo zio Borso. Assai prudente era stato, invece, F. nell'accettare l'incarico operativo di comandante militare e la ventilata prospettiva di una prestigiosa carriera internazionale in tal senso. Ben presto aveva collocato, infatti, in una più corretta prospettiva l'apparente generosità dell'offerta spagnola: Filippo IV gli avrebbe ben volentieri affidato la ribelle Catalogna in un momento assai grave per Madrid, costretta anche ad accettare nel 1640 il distacco del Portogallo; persino il padre Alfonso, ora fra Giambattista da Modena, che a dispetto dell'abito ecclesiastico volentieri interferiva negli affari pubblici del figlio, l'aveva capito, raccomandando di rinunziare con decisione a carriere onerose per le finanze personali e pericolose per lo Stato ereditario.
Certo F., ambizioso e portato a concepire grandi progetti, non perderà alcuna occasione nell'intento dichiarato di favorire la propria casata e in quello, neppure troppo occulto e anzi divenuto luogo comune per la diplomazia dell'epoca, di rientrare in possesso di Ferrara e Comacchio, perdute con la fatale cessione del 1598. Naturalmente l'intenzione di Urbano VIII Barberini era nettamente opposta, mirando a cercare una continuità territoriale tra Bologna e Ferrara, da un lato, e Parma e Piacenza, dall'altro, eliminando così i Ducati padani. Nel 1641 la situazione tra il vanitoso e impulsivo Odoardo Farnese e il pontefice precipitò nella guerra di Castro, dominio semindipendente del Ducato di Parma, appetito dagli stessi Barberini. F., in quest'occasione, non esiterà ad entrare in una lega con Firenze e Venezia, a esporsi militarmente e a muovere contro il papa nell'illusione di acquistare benemerenze internazionali da fare pesare in vista di un rientro nei possessi romagnoli.
Ma la pace di Ferrara, nel marzo 1644, non lasciava intravedere nulla di più di una generica buona attitudine da parte di Spagna e Impero a riesaminare la questione; è certo che poi fosse nelle volontà non confessate dei vicini - primi fra tutti Venezia - quello di continuare ad avere ai confini uno Stato papale discontinuo e lontano dal suo centro decisionale, piuttosto che quello estense, caratterizzato da una anche eccessiva vivacità e intraprendenza. La novità grossa fu però costituita dalla Francia, insinuatasi abilmente nelle cose italiane e divenuta garante degli accordi.
L'operazione di avvicinamento diplomatico alla Francia, in realtà, sarà lunga, mercanteggiata, non priva di esitazioni e doppi giochi sino alla fine. In questo processo uno dei passaggi senz'altro salienti dell'intera operazione sarà la concessione da parte del Mazzarino della protezione della Francia al cardinale Rinaldo, il 15 luglio 1645.
Già da tempo i due fratelli estensi guidavano di comune accordo la politica del Ducato, essendosi ciascuno ritagliato funzioni e tattiche diverse, complementari tra loro e attagliate alle diverse personalità: impulsiva e azzardata quella di F., più riflessiva e portata alla diplomazia quella del cardinale. Di fatto da questo momento i contatti con la Francia li tenne Rinaldo e l'esito, ufficializzato nell'agosto 1647, coincise con una nuova fase armata progettata da Mazzarino e facilitata dalla rivolta di Napoli, che tenne impegnato l'esercito spagnolo.
La campagna franco-modenese del 1647-48 contro lo Stato di Milano, partita a stagione troppo inoltrata, dopo un avvio spedito si arenò a Casalmaggiore nelle piogge d'autunno e, probabilmente, nel reciproco sottinteso - del Mazzarino e di F. - che si trattasse di una mossa diversiva, una esibizione un po' da parata che la Francia voleva fare pesare sulla pace che si stava trattando a Münster. Dopo le paci di Vestfalia, in Italia le ostilità ripresero e, mentre la situazione interna francese e la ribellione della Fronda rendevano più tiepido l'intervento della penisola, ricominciava inevitabilmente il doppio gioco di F. tra Madrid e Parigi. Il 27 febbr. 1649 si arriverà a un accordo definitivo tra Spagna e Modena: F., accanto al rifiuto di fare lega con la Francia, si vedrà sancito il possesso di Correggio, ma vi dovrà tollerare la presenza di un contingente spagnolo; il fratello cardinale Rinaldo avrebbe dovuto rinunciare alla protezione della Francia e alle relative pensioni.
A riannodare le fila dei contatti estensi a Madrid fu inviato, nell'aprile 1651, il conte F. Ottonelli, genero del Testi, in una ambasceria che intendeva basare le sue possibilità di successo sui supposti timori spagnoli davanti alle imprese militari di Francesco. In realtà proprio l'intraprendenza militare e l'affronto subito con l'invasione della Lombardia avevano irritato profondamente il governo di Madrid. F. non tardò a capire l'inutilità del suo ambasciatore, salvo mantenerlo lì - sempre più debole e screditato - per avvalorare la sua dichiarata amicizia, libero di cercare altrove sbocchi alla sua indomita ambizione.
Frattanto, parallele alla politica ufficiale si collocavano le scelte matrimoniali degli Estensi. F. stesso, rimasto vedovo nel 1646 di Maria Farnese, da cui aveva avuto due soli maschi, Alfonso (1634) e Almerico (1641), e poi della cognata Vittoria Farnese, sposata nel 1648 e morta l'anno seguente di parto, aveva dal 1653 intavolato trattative per riavvicinarsi a Roma ai nemici di sempre, riuscendo, nel contempo, a ottenere una forte dote in contanti. Infatti, nel maggio 1654, soppesando le opportunità offertegli da Chiesa, Spagna e Francia, aveva deliberato di appoggiarsi "…più che si possa al Papa e coltivando l'amicizia dei Preti, vivendo particolarmente nelle speranze dei vantaggi di un futuro conclave" (Rombaldi, p. 77). Anche per questo Lucrezia Barberini, pronipote di Urbano VIII e nipote diretta del potentissimo card. Antonio, sposerà F. nel 1654, imparentandolo con una delle famiglie più potenti nei conclavi papali.
Il matrimonio, decisamente mal visto dal Mazzarino a causa di precedenti screzi con la casata romana sulla stessa materia, ebbe l'effetto immediato di far cadere l'ambiziosa candidatura di Isabella, una delle due figlie di F., a consorte del giovane Luigi XIV. Dal 1652 Mazzarino aveva saldamente ripreso le redini del potere e guardava con attenzione a Roma, dove si riteneva ormai imminente la morte di Innocenzo X e la Francia intendeva giocare tutte le sue carte per avere una successione favorevole. Invece oramai andava in porto - mésalliance e pedaggio ritenuti inevitabili - dopo un fitto scambio di ritratti, clausole dotali, ripulse e patteggiamenti, il contratto nuziale del primogenito ed erede al Ducato di Modena, Alfonso, con Laura Martinozzi, una delle numerose nipoti di Mazzarino, nata a Roma nel 1633 e sposata all'Estense il 3 giugno 1655 con cerimonia per procura svoltasi a Compiègne. La sposa sarebbe arrivata a Modena, accompagnata dalla madre e dal giovane cognato Almerico, il 16 luglio 1655. Ad accoglierla c'era il ventunenne marito e festeggiamenti un po' in sordina.
Mancava F., impegnato nella nuova campagna militare che lo vedeva operare - a quell'epoca oramai passato decisamente ai Francesi - tra Lombardia e Piemonte. Non per niente i denari freschi arrivati con la dote della sposa e le milizie francesi che la scortavano furono immediatamente dirottati a rafforzare l'offensiva.
Questa fase della guerra aveva preso le mosse fin dal '51. Le vicende diplomatiche nel periodo di più grave debolezza interna del Mazzarino e del dilagare della Fronda avevano visto F., pronto come sempre ad allearsi con il più forte, tentare di riallacciare le antiche relazioni con la Spagna. Proponendo una lega tra Stati italiani, chiese favori alla corte di Madrid con il tono e il piglio del vincitore, non certo di un principe titolare di un territorio irrilevante, sproporzionato comunque all'intraprendenza politica di chi lo guidava.
Al fondo delle richieste, ancora una volta, l'investitura definitiva di Correggio e le mire, mai sopite, sulle terre ferraresi, perché la casa d'Este - avvertivano le istruzioni all'Ottonelli - "…continuamente andrà meditando ogni possibile mezzo per arrivare in qualche maniera al sollievo di sì ingiusta oppressione" (Simeoni, p. 146). Questa volta il duca, però, ottenne un rifiuto brutale, immediato e diretto: la Spagna trovava certo stupefacente che colui che - unico fin'allora - aveva osato muovere un attacco ai domini italiani della Corona inoltrasse ancora e solo richieste.
F. poi, non domo e in cerca perenne di occasioni per estrinsecare il suo protagonismo politico sino quasi a rasentare il millantato credito, dal 1652 tentò una mossa ancora più fantasiosa in concomitanza con la ripresa dell'attività politica internazionale francese. Nel 1653, ponendosi a capo di una lega di principi italiani, si propose come alleato di Venezia, impegnata nella costosa e defatigante guerra di Candia, l'unica grossa vertenza internazionale del momento che non vedesse direttamente coinvolte Francia e Spagna, le quali tuttavia sarebbero state costrette a prendere F. in seria considerazione in caso di un suo successo.
La proposta, giustamente valutata da Venezia poco seria, fu alla fine lasciata cadere, e F., sempre convinto che "senza azzardo non si avanza" (Simeoni, p. 162), era frenato nella sua solitaria ambizione dal fratello Rinaldo, che gli consigliava prudenza.
Il 1654 fu un anno di stasi, di reciproco spionaggio tra le varie potenze, diffidenti nei confronti di Francesco. Qualche mese dopo la situazione subiva una brusca accelerazione: nel gennaio 1655 moriva Innocenzo X, innescando aspettative e tensioni in vista del conclave. Il governatore di Milano, marchese L.B. di Caracena, ruppe gli indugi, si accampò sul Po vicino alle terre estensi e nell'aprile attaccò per primo occupando Brescello, entrò nel Modenese e invase il Ducato di Reggio, portando F. al consolidamento delle sue posizioni filofrancesi, dopo la contemporanea conclusione dei matrimoni familiari e con la mai rifiutata protezione francese del fratello. Bisognoso di urgenti rinforzi, F. sorvolò sulle infinite questioni di "precedenza" tipiche dell'epoca e accettò che il comando delle forze franco-estensi fosse assegnato a Tommaso di Savoia.
Il clamoroso fallimento dell'assedio di Pavia, ritenuta erroneamente sguarnita, il ferimento di F., la malattia del Savoia, che poi ne morirà, portarono a un'indubbia caduta di prestigio di Francesco d'Este. Il Mazzarino, pure riconoscendo che F. si era comportato da "…buon soldato e… gran capitano" (Rombaldi, p. 81), vide confermata l'opinione di scarsa attendibilità dei principi italiani; inevitabile conseguenza fu l'ulteriore ridimensionamento dei già centellinati aiuti militari concessi dalla Francia.
Nel gennaio 1656 F. fu in visita ufficiale a Parigi con relativo - e costoso - seguito di persone e doni per gli ospiti: di lì a poco sarebbe, per successione naturale, divenuto generalissimo delle truppe francesi in Italia alla morte del Savoia, in un quadro generale che si prospettava tutt'altro che favorevole.
L'imperatore Ferdinando III, infatti, aveva deciso di inviare un grosso contingente in Italia, espressamente in funzione antiestense: 4.000 soldati arriveranno a questo scopo nel Milanese. Quanto al nuovo papa, Alessandro VII Chigi non vedeva bene l'iperattivismo dell'Estense, convinto non a torto che il duca cercasse i favori di una grande potenza per ritornare a premere sulle vecchie rivendicazioni antiromane. Inoltre, anche se non vistosamente, egli era più vicino alla Spagna e, comunque, ostile al Mazzarino, visto che consentiva la presenza a Roma di uno dei nemici più temuti e potenti di quello, P. de Gondi cardinale di Retz, capo influente della Fronda, arcivescovo di Parigi, giunto in Italia dopo una fuga rocambolesca dalla prigionia di Vincennes, in cui era stato costretto per quattordici mesi tra il 1653 e il 1654.
Nel 1656 il papa, probabilmente d'accordo con la Spagna, si propose come mediatore di pace tra le due grandi potenze europee. Il progetto non andrà in porto se non con la pace dei Pirenei (1659), ma i riflessi su F. non poterono che essere negativi proprio nell'anno in cui egli si apprestava a porre con decisione sul piatto della bilancia il peso determinante dei suoi successi militari, come la presa di Valenza avvenuta il 7 settembre.
La fede francese di F. veniva messa indubbiamente a dura prova e già nell'ottobre 1656 gli era stato suggerito dal suo ambasciatore a Parigi E. Manzieri un riavvicinamento alla Spagna, meglio contrattabile sull'onda dei successi militari. La stessa forte tentazione di pace separata si ebbe nel corso del 1657, durante l'assedio posto da F. ad Alessandria, nell'anno che aveva visto la morte senza eredi diretti di Ferdinando III e con essa l'alleggerimento della pressione imperiale sul feudatario ribelle. In quest'occasione le indiscrezioni, divulgate ad arte, sulle trattative segrete tra F. e Madrid, dovevano servire ad ottenere finanziamenti più decisi dalla Francia in quel continuo gioco di bascule che aveva da sempre connotato l'azione di Francesco I. Quando, nell'estate 1658, varcato il Ticino, egli pose l'assedio a Trino e Mortara, inviando il suo secondogenito Almerico in scorrerie tanto d'effetto quanto ininfluenti sino nei pressi dell'imprendibile Milano, l'oggetto delle trattative col Mazzarino si era di gran lunga ridimensionato. Dai neppure tanto occulti progetti di ampliamento territoriale per casa d'Este di pochi anni prima si era arrivati a chiedere un improbabile governo dell'Alvernia e un matrimonio con una doviziosa ereditiera per il figlio Almerico.
Contratta la malaria durante la campagna del 1658 nella pianura Padana, F. morì a Santhià, presso Vercelli, il 14 ott. 1658.
Lasciava la guida dello Stato al ventitreenne Alfonso IV, cagionevole di salute, fragile di personalità; con lui, di lì a poco, Mazzarino avrebbe avuto la strada spianata per liquidare la vertenza italiana in vista di quella pace generale con la Spagna che da tempo oramai era nell'aria. Le ultime resistenze dell'orgoglio iberico erano venute meno dopo un avvenimento che - ancora una volta - esulava di molto dai confini e dalle possibilità italiane: la pace del novembre 1655 tra Francia e Inghilterra che, sancendo la definitiva rinuncia di Mazzarino alle Fiandre, poneva solide promesse per una reale, pericolosa - questa sì - alleanza in funzione antispagnola. Così la diversione italiana che prima era stata ritenuta significativa da Parigi allo scopo di allentare la pressione proprio sulle Fiandre perdeva immediatamente interesse.
F., ultimo Estense a concepire alte ambizioni politiche, irrealistico estimatore delle proprie capacità diplomatiche e militari, si pose con una indubbia, peculiare grandezza al culmine della tradizione di principe rinascimentale, del quale possedeva tutte le caratteristiche allora ormai inattuali.
Pesantemente ridimensionato e dal potenziale economico certo ridotto, dopo la cessione di Ferrara lo Stato estense aveva evidenziato la disomogenea struttura delle sue parti, acquisite in tempi e modalità diverse, mai riformate al fine di renderle più organiche. Così i binari su cui - per necessità ma anche per scelta - procedettero le direttive interne di F. furono l'appoggio nei confronti del ceto feudale a scapito talvolta della rete dei governatori, le imposizioni fiscali soprattutto su contadini e Comunità, la tassazione diretta dei consumi di prima necessità, l'istituzione di monopoli da appaltare anche a stranieri, protezionismi vari tutti tesi a incrementare gli introiti della Camera ducale.
Pure da ascriversi a una concezione familiare dinastica è l'intensa, appassionata, prestigiosa attività di committente d'arte, a partire dalla ristrutturazione edilizia di Modena, con l'obiettivo di farne una vera capitale dopo la perdita di Ferrara. In quest'ottica si collocò la realizzazione del progetto del nuovo palazzo ducale, che avrebbe dovuto migliorare la vecchia fortezza risalente a Obizzo (II). Nel 1631 venne incaricato G. Rainaldi, nel 1632 fu chiamato da Roma l'architetto B. Avanzini: i lavori effettivi iniziarono in realtà nel 1634, furono interrotti nel 1658 alla morte del progettista per riprendere poi con l'allievo di quello, A. Loraghi e per proseguire con andatura più o meno celere sino alla fine del secolo. Datano ugualmente tutti agli anni '30 del secolo gli inizi delle grandi opere edilizie: notevoli la realizzazione di una cittadella fortificata e, dal 1639 al 1651, la ristrutturazione radicale della rocca di Sassuolo, residenza frequentata e amata dal duca dove lavorò l'Avanzini. Ma l'interesse e il contributo più giustamente celebri di F. sono da collocarsi nell'ambito delle arti figurative. Già i primi anni di regno lo videro anzitutto sistemare il patrimonio artistico salvato, sotto il padre Alfonso III, dal palazzo dei Diamanti della perduta Ferrara e, poi, dare spazio alle prime committenze rivolte soprattutto ad autori della scuola bolognese.
Ma sarà solo in seguito al viaggio di F. in Spagna nel 1638 che la Galleria, di cui egli è considerato a buon diritto il fondatore, assunse respiro internazionale. Data a quell'occasione l'incontro con il grande pittore di corte D. Velasquez, già in Italia nel 1629 e divenuto ben presto consulente e procacciatore artistico del suo sovrano. È suo il celebre, vivissimo ritratto a mezzobusto di F. - ora alla Galleria di Modena - per cui ancora nel 1639 F. Testi era impegnato in una defatigante contrattazione economica col pittore, riconoscendo che "egli è caro, ma fa bene" (Venturi, p. 202). Introdotto, comunque, con l'occasione madrilena in un mercato d'arte ben più ampio di ciò che potesse offrire l'Italia, da quel momento F. moltiplica le disposizioni ai suoi ambasciatori per acquisti dei più diversi generi artistici, dagli arazzi ai vasi, ai manufatti in argento, agli amatissimi e ricercati quadri. Accumulo - tenendo un occhio ai costi, ovviamente - che costituiva certo un piacere ma anche un investimento prestigioso e sempre rivalutato, da usare all'occorrenza come merce di scambio per pagare debiti o come doni di apprezzato valore in luogo di moneta contante, eterno problema delle casse statali. Prova ne fu il gustosissimo episodio dell'eternamente itinerante Velasquez - questa volta in veste di esattore - di nuovo in Italia nel 1649 e a Modena nel dicembre 1650, dirottato con un pretesto dalla Galleria ducale, dove certo avrebbe adocchiato qualche pezzo per il suo re, al palazzo di Sassuolo, dove gli affreschi appena terminati non rischiavano di essere asportati dai muri.
Nel 1649 venne ammesso a corte il fiammingo J. Susterman, allora pittore di Ferdinando II granduca di Toscana, noto per essere "esquisitissimo nei ritratti", come scriveva M. Cimicelli, ambasciatore estense in Toscana (ibid., p. 212). Uno dei suoi primi ritratti ducali sarà inviato a Roma e servirà da modello per il busto marmoreo realizzato da G.L. Bernini tra il 1650 e il 1651, grazie alle insistenze del cardinal Rinaldo e al compenso generoso di 1.000 doppie; e sempre del fiammingo sono, tra le altre, le effigi della giovanissima Isabella, inviate in Francia a corroborare le proposte matrimoniali avanzate dall'ambasciatore E. Manzieri a Luigi XIV.
Ma la Galleria Estense, oltre che delle committenze contemporanee, si arricchì soprattutto di acquisizioni prestigiose e continue di lavori del passato, per cui F. si affidò sino al 1649 al pittore G. Balestrieri, profondo conoscitore ed erudito di storia dell'arte, e poi al segretario ducale G. Poggi, amico anche del Testi. Grazie all'opera di costoro, documentata da carteggi e scambi epistolari fittissimi, e al gusto e interesse di F., che per la sua passione prodigò somme ingenti seconde solo a quelle impiegate nell'attività militare, la Galleria Estense ebbe giustamente la fama di essere, per tutto il secolo, la più importante in Italia: patrimonio che solo le dissanguate finanze dei successori riuscirono a disperdere.
Fonti e Bibl.: Per i documenti relativi a F. I si vedano, in Arch. di Stato di Modena, i fondi Archivio segreto, Cancelleria - Estero Archivio segreto, Casa e Stato, Documenti spettanti a principi estensi, ad nomen; D. Gamberti, L'idea di un prencipe et eroe christiano in F. I d'E.…, Modena 1659; L.A. Muratori, Delle antichità estensi, II, ibid. 1740, passim; A. Venturi, Velasquez e F. I d'E., in Nuova Antologia, 1° sett. 1881, pp. 44-57; Id., La Reale Galleria Estense, Modena 1882, pp. 198-259; O. Raselli, La peste del 1630 in Modena, in Atti e mem. della Dep. modenese di storia patria, n.s., VII (1882), 1, pp. 189-240; P. Negri, Le relaz. italo-spagnuole nel secolo XVII, in Arch. stor. ital., LXXI (1913), 1, pp. 283-334; L. Simeoni, F. I d'E. e la politica ital. del Mazarino, Bologna 1922; F. Manzotti, La fine del principato di Correggio nelle relaz. italo-imperiali del periodo ital. della guerra dei trent'anni, in Atti e mem. della Dep. modenese di storia patria, s. 8, VI (1954), pp. 43-59; M.C. Nannini, Gli Estensi di Modena, Modena 1959, pp. 83-110; L. Amorth, Modena capitale, Milano 1967, pp. 55-120; L. Chiappini, Gli Estensi, Milano 1967, pp. 399-422; Storia dell'Emilia-Romagna, a cura di A. Berselli, II, Bologna 1977, ad Indicem; A. Namias, Storia di Modena, Bologna 1987, pp. 344-394; H. van Bergeijk, La prima metà del Seicento: dal castello al palazzo, in Il palazzo ducale di Modena, sette secoli di uno spazio cittadino, a cura di A. Biondi, Modena 1987, pp. 171-201; O. Rombaldi, Il duca F. I d'E., Modena 1992.