GRITTI, Francesco
Nacque a Venezia nella notte tra l'11 e il 12 nov. 1740, secondogenito dei patrizi Giannantonio di Domenico e Cornelia Barbaro di Bernardo.
I Gritti di questo ramo, soprannominati Scombro ("sgombro"), erano confinati nella fascia inferiore della piramide patrizia da una condizione economica alquanto precaria (il G. beneficiò poi d'un posto nell'Accademia dei nobili alla Giudecca, riservata ai membri delle case patrizie prive di beni stabili) e da un rango politico marginale. Il padre del G. percorse una tipica carriera da "barnaboto" (patrizio povero): un'alternanza di uffici urbani di poco conto e reggimenti in cittadine di terz'ordine. Per di più, nel 1757 fu relegato "per malcostume" (di inclinazioni omosessuali, aveva per amante un avventuriero amico di G. Casanova e, stando a una voce raccolta da quest'ultimo, aveva avuto rapporti contro natura con gli stessi suoi figli) nella fortezza di Cattaro, dove sarebbe morto nel 1768. Anche la madre del G. usciva da una casa barnabota, distintasi per un'inesauribile vena poetica. Poeta il nonno materno Bernardo, poetessa Cornelia (nonché amica, talvolta molto stretta, di poeti quali C.I. Frugoni e G. Baffo), poeta un fratellastro di Cornelia, l'abate Angelo Maria.
Nell'Accademia dei nobili, dove seguì un corso di studi analogo a quello dei collegi dei gesuiti, il G. ebbe quali maestri i somaschi S. Balbi (lettere) e L. Fabris (filosofia). Oltre alle materie curriculari "studiò con sommo ardore le lingue viventi" (Meneghelli), tra le quali certamente il francese. Il 17 nov. 1760, in occasione della Barbarella, il G. estrasse la balla d'oro e poté così essere ammesso a far parte del Maggior Consiglio cinque anni prima dell'età canonica. L'anno seguente fece l'ingresso ufficiale in piazza S. Marco accompagnato, come voleva la regola, da sei patrizi, tra i quali L. Manin, il futuro ultimo doge della Serenissima.
Il precoce debutto nella vita politica veneziana non fu però seguito da una carriera altrettanto fortunata. In effetti per più di quindici anni egli non andò al di là di "alcune minori magistrature solite conferirsi a' più giovani" (G. Dandolo), tutte del "giro" del Maggior Consiglio. In alcune stanze scritte quasi certamente verso la fine del 1767 in risposta a un sonetto dello zio abate Barbaro, che lamentava di essere "sordo, mez'orbo, con sie denti in boca", il G. dipinse un quadro nerissimo della condizione politica e sociale sua e degli altri barnaboti. Non era sordo come lo zio, ma non sentiva "intorno che miserere", aveva "i denti sani, ma no val un corno / se per magnar qualcun no me dà bezzi". Per procurarsi "del pan" "no val / che cosi storti, basi, ipocrisie / che un insolente titolo bestial, / che un fetido paluo pien de pazzie, / che un abito da veri Pantaloni / e una boria più sgionfa dei baloni". Il G. era talmente stanco di questo "fetido paluo" che arrivava a scongiurare "la publica clemenza / a dar[gli] un pan, e a torse indrio 'l celenza", l'"insolente titolo" che spettava ai patrizi. La verità era che "el Libro d'oro no xe donca d'oro / per tutti quei, che ghe sta scriti dentro; / per i richi xe un utile decoro, / per i poveri un nobile tormento". Il "bernaboto" G. - come si autodefiniva in calce alla poesia indirizzata allo zio - diventava con questi e altri icastici versi (si veda la confessione: "sono un povero ladro aristocratico / errante per la veneta palude / che per aver un misero panatico / il cervello mi stempro sull'incude, / il piè mi slombo, e nel seder mi snatico, / ballottando la fame e la virtude, / prego, m'arrabbio, mi compiango, adulo, / ed ho me stesso, e la mia patria in c…") il crudo cantore del destino miserabile della plebe patrizia.
Il barnaboto G. non si limitò a piangere sulla sua triste sorte, ma cercò di partecipare alla lotta politico-costituzionale tra i "richi" e i "poveri" in corso in quei decenni. Nella canzonetta, probabilmente scritta, come il sonetto Pagarave un ducato, e una petizza (filippica contro la plutocrazia patrizia: "quanto più i ghe n'ha più i se ingaluzza"), in occasione della correzione delle leggi del 1774 e intitolata No s0n savio, no son matto, il G. sostenne la tesi che il Maggior Consiglio dovesse ricuperare i poteri che aveva trasferito al Senato e agli altri "corpi delegai". La costituzione veneziana riconosceva al Maggior Consiglio il titolo di "Paron della Repubblica", ma di fatto questa "ampla, e piena facoltà" rimaneva sulla carta. "Sto Patrone cussì assoluto", era la domanda retorica che il G. rivolgeva alla Signoria, ai vertici dello Stato marciano, "sarà schiavo dei fattori / senza gnanca esser istrutto / dove vaga i so tesori?".
A partire dal 1767 lo spirito eversivo, l'insofferenza, se non la rabbia, "classista" del barnaboto trovarono espressione e sublimazione nell'ambito letterario. Il primo incontro del G. col pubblico ebbe luogo, come avrebbe ricordato un terzo di secolo più tardi nella favola L'aseno e mi, in occasione della rappresentazione della "comedia / De l'aqua alta, celebre / anca per quela cabala, / che m'à obligà a fischiarmela / per prudenza, anca mi". In effetti L'acqua alta ovvero Le nozze in casa dell'avaro, "commedia veneziana in versi sciolti" rappresentata al teatro di S. Luca verso la fine del Carnevale di quell'anno, si rivelò una prova modesta di un epigono di Goldoni. "Nel comico mar la nave infranse", avrebbe scritto di sé in terza persona a ridosso dell'evento nel poema Fossa-Lovara, "e di cordoglio vi lasciò i capegli; / nessun lo sollevò, né lo compianse, / tutta la patria sua la berta diegli / che la sua patria ha d'odiar costume / chi nel buio comun esce col lume". Uno scacco che in ogni caso metabolizzò rapidamente: nel 1769, quando pubblicò anonima la commedia presso l'editore veneziano Giammaria Bassaglia, fece riprodurre nell'antiporta una vignetta raffigurante un teatro accompagnata dai versi "dove mai xestu povero Goldoni! / Che sono! che commedia! che poeta! / I nostri bezzi indrio calè baroni".
L'acqua alta fu stampata con una dedica "A Sua Eccellenza il C0nte di ABCDEFG Marchese di HILMNO Barone di PQRSTUVZ" e una "Prefazione piena zeppa d'istorielle e di fole vuote affatto di buon senso, di grazia e di sale", che denunciavano fin dal titolo il nuovo corso letterario, tra parodia e satira, abbracciato dopo il fiasco della commedia. Tra l'altro "l'editore" spiegava al dedicatario, che dipingeva "assorto in un vortice di piaceri tutti metafisici, come il giuoco, il bordello e la crapula", di essere "nel numero di coloro che si dicono letterati", che avevano, cioè, "una furiosissima fame": barnaboto o letterato che fosse, la sua condizione miserabile non cambiava ma, mentre il barnaboto era costretto a nuotare nel "fetido paluo" della politica, il letterato poteva togliersi la soddisfazione di invadere il "campo enorme" dell'"umana follia", prendendosi a sua volta gioco delle convinzioni letterarie tramite una ricerca di effetti paradossali. L'espressione più persuasiva di questo indirizzo fu il romanzo La mia istoria, ovvero Memorie del signor Tommasino scritte da lui medesimo, opera narcotica del dottor Pifpuf, edizione probabilmente unica, di cui pubblicò, sempre sotto il velo dell'anonimato (ma in una nota indicava "il vero autore di questa fola" in "un certo Strega-crifticon", anagramma del suo nome) e sempre presso Bassaglia, le due prime parti nell'autunno del 1767 e la terza nel 1768. Se il titolo del romanzo era una parodia di quelli sfornati dall'abate P. Chiari, in quegli anni l'autore italiano di maggior successo sul fronte della "fiction", quanto alla forma esso era - come sottolineava l'abate A. Fortis dalle colonne del Magazzino letterario - un "libro capriccioso quanto la Vita di Tristano Shandy" di "monsignor Sterne", mentre nei contenuti e nell'ispirazione illuministica ricalcava il più celebre dei contes philosophiques di Voltaire (il "Dottor Pifpuf somiglia un poco al Dottor Pangloss e al metafisico Candido"). Romanzo corale, La mia istoria faceva intervenire anche alcuni lettori, che glossavano il testo con note stranianti del tipo "eccoci alla solita burrasca: uno dei più frequentati luoghi comuni de' romanzieri antichi e moderni" e, più spesso, sottolineavano la "qualità primaria" dell'opera, la sua "soporifera efficacia", con reiterate richieste di tazze di caffè. Dal contesto precipitavano nel testo anche lo stampatore e perfino il correttore di bozze, che assicurava di aver fatto il suo lavoro "con una esatessa increddibile". All'influenza di L. Sterne si possono mettere in conto i titoli di parecchi "articoli" del romanzo ("avvenimento notturno, che spesso accade di giorno" oppure "che pare espressamente scritto perché si legga, ma che poi non merita di essere letto") e soprattutto la struttura aperta della Mia istoria, una successione di scatole cinesi priva di un baricentro. La dedica del romanzo "al mio buon amico il signor Carlo Sackville Inglese" segnala non solo il più probabile canale della fortuna di Sterne presso il G., ma consente anche di mettere a fuoco l'ambiente culturale da lui frequentato. Come si sa, Sackville aveva fatto conoscere i canti di Ossian a M. Cesarotti e lo aveva aiutato nella traduzione del poema di J. Macpherson. Non meraviglia, quindi, che in una nota della Mia istoria il "celebre signor abate Melchior Cesarotti" fosse elogiato "per questa e per tante altre opere della sua elegante, energica e gentilissima penna". Numerosi indizi fanno ritenere che nella genesi e probabilmente anche nella redazione del romanzo avesse avuto un ruolo importante Fortis, ex allievo di Cesarotti assai vicino per estrosità culturale e ispirazione illuministica a colui che chiamava, in un sonetto Al signor Giuseppe Giupponi, "il Gritti mio, germe d'eroi, / nato in Citera, ed allattato in Gnido".
A. Meneghelli, primo biografo del G., avrebbe giudicato Il naufragio della vita nel Mediterraneo della morte, una "tragedia" tuttora inedita scritta dal patrizio a ridosso della Mia istoria, "la più ridevole delle [sue] produzioni". La "tragedia" era in effetti una parodia delle favole esotiche del reazionario C. Gozzi, che il G. aveva infiorato di nonsense spesso scurrili e di trovate goliardiche, a partire dall'elenco degli attori ("Nabucco Imperador del Mogolle", "Chicchibio Infante di Parma suo figlio", "Brighella Ambasciatore del Prete Gianni" ecc.) e dalle indicazioni di scena ("stanza reale; da una parte il diluvio universale in veste da camera; dall'altra l'orbe terracqueo in gelatina, Vitruvio e Scannabue come sono, e chi più v'aggrada nel mezzo"; "Atrio del Palazzo reale; Agrippina in bergonzon, Telemaco col signor Fenelon sulle spalle, […] Cesarotti che legge, spettatori che ridono di dolore"). Il naufragio della vita testimoniava la persistenza di un interesse per il teatro, che intorno alla metà degli anni Settanta doveva tradursi, oltre che in alcuni versi dedicati a comici e ballerini (tra i quali un sonetto, Vestito Viganò da Pulcinella, all'altezza del miglior Baffo), nella pubblicazione di una serie di traduzioni dal francese. Dopo un isolato Amleto, rifacimento di J.-F. Ducis della tragedia di Shakespeare tradotto dal G. "in versi italiani" e pubblicato - prima opera a stampa a riportare il suo nome nel frontespizio - nel 1775 a Parma, l'anno successivo fu la volta del Teatro tragico francese ad uso de' teatri d'Italia, ovvero Raccolta di versioni libere di alcune tragedie francesi, due volumi editi a Venezia (ristampati nel 1788 in quanto Versioni delle migliori tragedie francesi): contenevano le traduzioni di sei tragedie transalpine, tra le quali la Merope di Voltaire e il Gustavo Wasa di A. Piron.
Nel 1777 il G. ottenne un duplice riconoscimento, politico e letterario: divenne pastore arcade con il nome di Melisso Cipridio e, ciò che certamente apprezzò maggiormente, riuscì a conquistare un posto, di fatto a vita - l'avrebbe conservato praticamente senza soluzione di continuità fino alla caduta della Repubblica - nel Consiglio dei quaranta, con la conseguente garanzia di uno stipendio mensile decoroso. Fu eletto per la prima volta membro della Quarantia civil vecchia su proposta del cugino Bernardo Gritti, ma, stando a un sonetto della madre, fu decisivo l'appoggio di "quel nume, / che su l'alta tua patria avvien, che imperi", vale a dire, con ogni probabilità, di A. Tron, il "paron" della Repubblica marciana che era anche il marito di Caterina Dolfin, la protettrice di A.M. Barbaro.
Negli anni Settanta il G. entrò in rapporti con una ricca "dama polacca" (come la chiamò in una lettera non datata ad A. Svajer), Giovanna Giuliana Berg-Kzapski (questa la grafia del cognome secondo Meneghelli), una vedova con tre figli che divenne sua moglie prima dell'aprile 1781, quando il patrizio redasse in un caffè delle ottave "per sodisfare alla curiosità dei signori di Vicenza" nei suoi confronti. In quell'occasione si presentò nelle vesti di poeta e di "filosofo" libertino: "credo tutto cio, ch'è naturale. / La pace ed il piacer son la mia meta". Non stupisce che frequentasse i testi dei philosophes più congeniali alla sua vena parodico-licenziosa, dal Voltaire della Pulcella d'Orléans (una sua versione rimase inedita) al Montesquieu del Tempio di Gnido, pubblicato nel 1792 a Venezia con il falso luogo di stampa di Londra.
Ma il G. poeta fu famoso presso i contemporanei e, in misura inferiore, presso i posteri soprattutto per le sue favole: nel 1824 U. Foscolo lo giudicò "the only fabulist entitled to be ranked longo proximus intervallo next to Lafontaine". Non è ben chiaro quando cominciasse a praticare questo genere; è certo che non sbocciò "poeta lirico vernacolo a cinquanta e passa anni, quando cioè [ebbe] in mano le Fables di J.-P. Claris de Florian […] uscite nel 1792" (è la tesi di M. Dazzi), anche se è vero che la raccolta del francese fu, come lo stesso G. riconosceva, "quela musina, dove […] de trato in trato / rob[ava] qualche ducato". In un Epilogo, che un accenno alla Rivoluzione francese invita a datare ai primi anni Novanta, scrisse di aver già redatto cinquanta favole (la raccolta a stampa più ampia delle sue Poesie, quella veneziana edita nel 1883, ne conta soltanto quattro in più): è quindi probabile che l'influenza di Florian si limitasse a consolidare un interesse già ben presente.
Nel 1781 il G. s'era vantato di discendere "in linea torta […] da quell'Andrea", che era stato doge. L'anno successivo comparve a Venezia un Elogio di Andrea Gritti doge di Venezia scritto da Melisso Cipridio pastor arcade, primo della serie dei dodici Elogi italiani curati da A. Rubbi. Opera di maniera, l'Elogio offrì comunque al G. l'occasione di polemizzare tra le righe con l'oligarchia dominante ("non crediate", era l'insegnamento del doge ai figli, "che in pochi superbi palagi sia ristretto lo stato") e di denunciare "quel languor del patrio entusiasmo, a cui è annessa la non lontana ruina d'uno stato".
Quando, nel 1797, la Repubblica aristocratica rovinò il G., che aveva visto con un certo favore le prime fasi della Rivoluzione francese ("perché no libero / viver in Franza?", si era chiesto, "Là, tout est bien: / ahi l'eguaglianza / per virtù magica / de tout rien") fu uno dei dieci ex patrizi entrati a far parte della Municipalità democratica installata dai Francesi e membro del comitato di Pubblica Istruzione. L'esperienza democratica fu però assai deludente per l'ex patrizio. Nel 1798, quando Venezia fu inglobata nell'impero degli Asburgo, il G. pubblicò gli anonimi Pensieri suggeriti dall'amore della patria, che denunciavano il "tessuto di scelleraggini" perpetrate dai "tricolorati visiri" e "le rivoltanti massime d'irreligione e di rapina, che velate venivano coi nomi di eguaglianza e di libertà": "Religione, Patria, Sovrano" dovevano essere le nuove parole d'ordine.
Ma, come testimonia il fatto che la "favola eterogenea in versi vernacoli" Le giozze d'oro, che il G. redasse nel corso della prima dominazione austriaca, sarebbe stata "per la prima volta pubblicata" a Venezia nel 1867 "a edificazione - avrebbe ironizzato l'editore - dei clericali ed a fanaletto della questione di Roma", è evidente che la difesa della religione era l'ultima preoccupazione dell'anziano ex patrizio. Quanto alla patria veneziana, il G. non nutriva sentimenti nostalgici per quella che chiamava brutalmente "aristolidocrazia". Inoltre non amava affatto quei "bruti mascaroni / tagiai su co la britola in Tirol" (Il Brigliadoro. Favola chinese), che presidiavano Venezia per conto del nuovo sovrano. Francia e Austria si equivalevano nel male: "quel che 'l lion m'ha lassà là, / vien el lovo a magnarmelo sul piato" (Mengon). L'incubo che disturbava i sonni del vecchio G. era: "voi pur strenzer la tazza", che conteneva le miracolose "giozze", "e mo me trovo in man, / che i stuchi della logica pandura". Accolse con maggior favore l'annessione del Veneto al Regno d'Italia napoleonico ed entrò a far parte della nuova amministrazione. Alla vigilia della scomparsa cominciò a dare alle stampe, con il contagocce, i "gelosi carmi", le favole, che aveva a lungo lasciate inedite. Morì a Venezia il 16 genn. 1811.
Fonti e Bibl.: La fede di battesimo è in Arch. di Stato di Venezia, Avogaria de Comun, b. 44, n. 197; due lettere senza data a A. Svajer sono in Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Epistolario Moschini; J. Casanova de Seingalt, Histoire de ma vie, IV, Wiesbaden-Paris 1960, pp. 1 s.; A. Meneghelli, Cenni intorn0 alla vita ed alle opere di F. G., patrizio veneto, Venezia 1813; [L.A. Martignon], Elogio a F. G., poeta viniziano, in Id., Poesie, Treviso 1827; B. Gamba, F. G., in Galleria dei letterati ed artisti illustri delle provincie veneziane nel secolo XVIII, I, Venezia 1824, pp. 266 s.; Id., F. G., in Raccolta di poesie in dialetto veneziano…, Venezia 1845, p. 511; G. Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquant'anni, I, Venezia 1855, pp. 143 s.; G.B. Marchesi, Studi e ricerche intorno ai nostri romanzieri e romanzi del Settecento, Bergamo 1903, pp. 218-222; F. Nani Mocenigo, Memorie veneziane (seconda serie), Venezia 1911, pp. 203-226; L. Pagano Briganti, Poeti dialettali veneziani del Settecento, Venezia 1915, pp. 99-135; Ilfiore della lirica veneziana, a cura di M. Dazzi, II, Venezia 1956, pp. 339-361; R. Damiani, F. G., in F. Gritti, Memorie del signor Tommasino, Roma 1979, pp. 9-12; P. Bortoluzzi, La (mancata) fortuna critica e la tradizione manoscritta e a stampa di F. G., scrittore veneziano (1740-1811), in Quaderni veneti, V (1989), 10, pp. 9-44; L. Padoan, Per la fortuna di Voltaire a Venezia. Un'eco del "Candide" nel romanzo di F. G., ibid., pp. 69-73; P. Del Negro, La cornice americana ne "La mia istoria" di F. G., in Illetterato tra miti e realtà del Nuovo Mondo: Venezia, il mondo iberico e l'Italia, a cura di A. Caracciolo Aricò, Roma 1994, pp. 231-239; O.T. Domzalski, Politische Karrieren und Machtverteilung im venezianischen Adel (1646-1797), Sigmaringen 1996, pp. 92 s. dell'appendice; Enc. Italiana, XVII, p. 977.