GRISELINI, Francesco
Nacque a Venezia il 12 ag. 1717, da Marco (il cognome era Greselin, poi italianizzato dal figlio), tessitore e tintore di seta, e da Elisabetta Sperafigo, di famiglia milanese di commercianti di seta. Abbandonata presto una precoce, ma forse poco convinta, vocazione ecclesiastica (arrivò alla soglia degli ordini maggiori), acquisì, probabilmente da autodidatta, una buona cultura in lettere e belle arti e soprattutto in fisica e storia naturale; il disegno (di maschere per carnevale, ricami, illustrazioni di libri, mappe, carte geografiche) divenne ben presto la principale attività con cui, dopo il matrimonio con l'istriana Libera Lucia Planmuller (28 nov. 1743), sostentò la sua modesta esistenza (nel 1746 si firmò "dilettante in geometria ed in architettura militare"). Nel 1756-57 divenne l'incisore e disegnatore di fiducia di Pietro e Giovanni Maria Bassaglia, titolari di una delle più note botteghe-librerie di Venezia; nel 1760-62, grazie all'appoggio del senatore Marco Foscarini, ottenne il prestigioso incarico di restaurare le grandi mappe nella sala dello Scudo del palazzo ducale, ricavandone il cospicuo compenso di 1800 ducati e un ritratto ora perduto, eseguito da Pietro Longhi. Attento lettore dei philosophes francesi, inglesi, italiani ma anche di libri di fisica, chimica, botanica, geologia, agricoltura, industria, commercio, il G., conforme al gusto enciclopedico dell'epoca, scrisse commedie, saggi letterari, scientifici, storici ed economici, fondò e diresse giornali letterari, economici, scientifici, curò dizionari.
Nel 1748 esordì con due saggi, uno scientifico-pratico, la Lettera al padre d. Angelo Calogerà intorno l'elettricità e alcune particolariesperienzedella medesima, l'altro di erudizione classica, la Dissertazione mitologica e storica sopra la deaIside (entrambi nella Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici edita dal Calogerà, Venezia 1728-57, XXXVIII, pp. XXV-LXXXI; XXXIX, pp. 297-350); nello stesso anno cominciò a pubblicare da Pietro Bassaglia la traduzione, in 14 volumi, delle Memorie appartenenti alla storia naturale della Reale Accademiadelle scienze di Parigi, espressione concreta di "un preciso intento culturale, di riportare rapidamente l'Italia nel pieno dei progressi e delle discussioni della cultura scientifica europea; e si delineava in questa attività sin d'ora un'attenzione precisa e ferma, se non esclusiva, agli aspetti tecnici, scientifici di tale progresso" (Torcellan, 1969, p. 237). La prefazione alle Memorie è quasi un manifesto programmatico della sua attività futura, per la valorizzazione delle scoperte scientifiche, che "renderanno nell'avvenire famosa l'età nostra al pari di quante mai furono per l'addietro per tal ragione cospicue e memorabili"; è il momento di bandire le "quistioni sciocche e ridicole" suscitate dalla "barbarie" dei vecchi filosofi, "i più malvagi interpreti della natura, perché obbligato avendo di consultarla, non hanno compreso i fenomeni più meravigliosi", per far luogo alla storia naturale, studio concreto della "natura de' terreni […] l'origine de' fiumi e de' fonti […] la natura degli stratti […] de' metalli, de' minerali e di ogni genere di fossili". Nel 1749 pubblicò nel quarto volume delle Memorie, poi in edizione separata, un discorso Sull'utilità della zootomia e nel 1750, presso il solito Bassaglia, le Observations sur la scolopendre marineluisante et la baillouviana, risultato di viaggi scientifici nelle lagune venete.
In quegli anni C. Goldoni conquistava il pubblico veneziano con la sua radicale riforma artistica; la commedia era un genere alla moda, che dava notorietà e, talvolta, anche soddisfazioni economiche. Lasciati per un attimo gli studi scientifici, e in particolare la prediletta storia naturale, il G. si lanciò nell'agone teatrale e nel giro di tre anni scrisse quattro commedie; del 1752 è la commedia di caratteri Il marito dissoluto, rappresentata nel teatro S. Luca: secondo il critico Ortolani "prolissa, slegata, slombata, romanzesca, assurda come quelle di Chiari", tuttavia suscitò l'acre confutazione di Giuseppe Antonio Costantini e addirittura una controreplica di tale Antonio Bianchi. L'effimera celebrità comunque assicuratagli da queste oziose polemiche letterarie spinse il G. a una prova più impegnativa con la commedia I liberi muratori, pubblicata nel 1754 con lo pseudonimo di Ferling' Isaac Crens e la falsa data di "Libertapoli, l'anno dell'era volgare mai no, e della ristaurazione della loggia sempre sì"; la precedeva una dedica all'"autore comico prestantissimo" Aldinoro Clog, cioè Carlo Goldoni, che l'anno prima nelle Donne curiose aveva bonariamente messo in burla l'affannosa e inutile caccia ai misteri di una presunta loggia massonica veneziana.
Lo stesso G. si definiva "fratello operaio della loggia di Danzica", ma non risulta che si recasse nella città tedesca, dove in effetti una loggia risulta instaurata nel 1751; benché nessun documento comprovi con certezza la sua iscrizione a una loggia, veneziana o straniera, la sua adesione alla massoneria sembra fuori discussione. Il Torcellan ricorda le autorevoli amicizie e appoggi di cui godrà negli anni successivi (in particolare di Giuseppe von Sperges, influente consigliere di Kaunitz a Vienna) e la vera e propria apologia degli ideali massonici proprio nei Liberi muratori: "quella unione di buona gente, che assiste i compagni poveri, e che gli dà denaro acciò facciano buona figura, né patiscano la fame; che si conosce per via di segni […] sono un ceto di persone illustri, che altro non annidano nelle lor menti che idee magnanime e sublimi. Aspirano a far rinascere nel mondo l'età felice dell'oro, ed a sbandire la miseria e la povertà dal consorzio umano". In una lettera del 29 apr. 1753 all'editore bassanese G. Remondini, iscritto alla loggia di Vicenza, il G. si mostrò convinto che la sua commedia, "d'un argomento curiosissimo, ma alquanto geloso in riguardo alle idee comuni", avrebbe avuto difficoltà a ottenere la licenza di stampa, "giovando molto al fratismo che sia fatto un mistero di questa cosa", ma che proprio per questo avrebbe fatto "grande chiazzo per tutta l'Italia, perché non è mai caduto in pensiero d'uomo di porre in ridicolo una cosa, e di far vedere ch'è una pura chimera, ciò che si è conciliato il riflesso di quasi tutti i politici". In effetti la commedia suscitò viva curiosità e fu quasi subito ristampata (a Bassano dal Remondini), ma per la debolezza scenica non fu mai rappresentata; il Bassaglia ne fece una nuova edizione nel 1785, quando l'opinione pubblica fu a rumore per la scoperta e soppressione, da parte degli inquisitori di Stato, della loggia massonica veneziana.
Nel 1755 il G. scrisse il Socrate filosofo sapientissimo (Giambattista De Regni, Venezia), scialba tragicommedia a imitazione del Terenzio di Goldoni, e nel 1756 La schiava del serraglio dell'Agà de' giannizzeri in Costantinopoli (Giovanelli, Firenze), tributo alla moda delle turcherie settecentesche e imitazione de La sposa persiana di Goldoni: "Dipingere i costumi de' Turchi" è l'obiettivo di questa commedia fredda e tanto carente di vivacità artistica quanto ricca di riferimenti eruditi agli usi e alla vita di un popolo così vicino a Venezia da giustificare la preoccupazione di acquisire un ampio bagaglio di informazioni attraverso la lettura delle opere del Guendeville e del Picart. La volontà di colpire lo spettatore con lo sfoggio di una minuziosa conoscenza delle pratiche religiose e dei costumi dei Turchi si traduce in un continuo fastidioso ricorso a termini tecnici originali che non riesce a celare l'incertezza di fondo tra un'adesione convenzionale ai pregiudizi europei e un'aperta e "filosofica" comprensione dei valori di una civiltà diversa da quella occidentale ma capace di esprimere anch'essa esemplari umani ornati di "virtù" e "bontà" (Preto, 1975, p. 476). La commedia riscosse un buon successo a Firenze; così l'anno dopo il G. scrisse la Reginella o La virtuosa in musica (Firenze 1756, 2a ed. Venezia 1770, presso Bassaglia e Radici), rappresentata più volte a Firenze, Torino e Venezia e poi tradotta in francese (1764).
I primi lavori scientifici, l'attività teatrale, il lavoro alle mappe di palazzo ducale mostrano un G. pienamente inserito nella vita culturale veneziana; l'amicizia e protezione di Marco Foscarini, patrizio influente e di raffinata cultura, lo spinsero a intervenire nel dibattito politico-religioso nel segno del tradizionale giurisdizionalismo veneto, ispirato alla venerata lezione di P. Sarpi. Tra il 1741 e il 1760 alcuni pubblicisti curiali, e in particolare l'acido e veemente padre Appiano Buonafede, avevano più volte attaccato Sarpi, toccando come di consueto il tasto della sua presunta eterodossia religiosa. Le Memorie anedote spettanti alla vita ed agli studi del sommo filosofo e giureconsulto f. Paolo servita, raccolte ed ordinate da F. Griselini (P. Bassaglia, Losanna, ma Venezia 1760, due edizioni; poi M. Fenzo, Venezia 1760; rist. Helmstat, ma Verona 1761; seguirono traduzioni in francese, tedesco, inglese) furono una risposta polemica, ma fondata su un'accurata ricerca documentaria.
Dall'attento scavo tra le carte della biblioteca dei serviti di S. Fosca (ora perdute per un incendio) il G. trasse un'appassionata biografia intellettuale e politica di Sarpi, nel segno della polemica antigesuitica e d'una vibrante tensione apologetica; egli volle "testimoniare nel Sarpi una mente superiore" e "farne una personalità enciclopedica nel gusto del secolo dei lumi" (Torcellan, 1969, p. 243). Secondo F. Venturi le Memorie anedote ripresentano "la figura di Sarpi in una luce chiaramente riformatrice e illuminista" (1976, p. 101). Che la biografia del G. avesse un preciso segno politico, nel solco delle moderate istanze riformatrici dei "lumi" veneti ma con una precisa ascendenza al tradizionale giurisdizionalismo della Repubblica, è dimostrato dalle veementi polemiche suscitate dall'opera, che fu anche posta all'Indice (1° febbr. 1762); il G. denunciò attacchi personali ("penso da penne fratesche") e "lettere anonime e pseudonime, altre piene d'improperi, altre di minaccie, ed altre scritte in sensi talmente mistici, profetici e tenebrosi che fin al riso movevano per lo studiato modo col quale si cercava involgerli sotto il manto di quella sorta di vendicatrice pietà che sogliono adoperare gl'ippocriti e le anime perverse". Tra i molti paladini dell'ortodossia curiale lanciati in aspre confutazioni spiccarono il solito A. Buonafede e il domenicano greco Tommaso Maria Mamachi: a quest'ultimo, per Venturi "l'esempio più cospicuo di questa nuova ondata di polemisti cattolici, tutti tesi a cercar di sfruttare in senso conservatore e reazionario la volontà ovunque allora diffusa d'un ritorno alle origini, al mondo primitivo così come alla chiesa anteriore alla Controriforma" (1976, p. 185), il G. replicò nel 1770 con la pungente lettera Le sciocche e maligne imposture già messe fuoriper denigrare l'illustre memoria di f. Paolo servita.
La polemica sulla biografia sarpiana, e di riflesso sui temi giurisdizionali, lo proiettò nel dibattito culturale e politico della Venezia dei "lumi", con un senso "vivo e felice dell'opportunità e dell'occasione, l'attenzione vigile all'inclinazione dello spirito e dell'opinione pubblica"; così avvenne "l'incontro tra la sua innata abilità di divulgatore ad alto livello e le pressanti esigenze […] poste dai pesanti problemi, sociali tecnici e pratici, delle nostre campagne, dall'urgenza ovunque sentita di far giungere sino alle misere case dei contadini una parte almeno dei progressi morali, materiali e scientifici del riformismo settecentesco" (Torcellan, 1969, p. 245). Nel 1763 il G. si volse per la prima volta al mondo dell'agricoltura col breve opuscolo Nuova maniera di seminare e coltivare il frumento (M. Fenzo, Venezia), che descriveva una macchina inventata dall'inglese Jethro Tull. Il grande successo dell'operetta, le suggestioni dell'amico M. Foscarini, l'interesse dell'opinione pubblica per i problemi delle campagne lo spinsero a una grande impresa editoriale e culturale: il 7 luglio 1764 uscì il primo numero del Giornale d'Italia spettante alla scienza naturale e principalmente all'agricoltura, alle arti ed al commercio (B. Milocco, Venezia), posto sotto la protezione dei Cinque savi alla mercanzia e destinato a essere "tramite tra la classe politica veneziana e il ceto di studiosi, di tecnici, di nobili di terraferma illuminati ed attivi che furono l'anima degli studi e delle esperienze agrarie del Settecento veneto" (Torcellan, 1969, p. 245).
L'opera, annunciò orgoglioso lo stesso G., era "nata e cresciuta nel tempo della più bella luce di questo secolo filosofico […], il libro migliore ed il più nobile che quest'anno sia comparso in Italia"; comprendeva articoli ed estratti provenienti da vari paesi europei e si apriva alla collaborazione dei migliori agronomi, tecnici e scienziati del Veneto settecentesco. Le accademie agrarie che per impulso di G. Arduino, geologo, agronomo, mineralogista e soprintendente all'Agricoltura, e col favore della Repubblica, tra 1760 e 1780 sorsero in tutte le città della Terraferma vi ebbero una sorta di organo ufficiale e autorevole; i più illuminati e colti accademici vi pubblicarono le loro memorie, sollevando i problemi più vivi delle campagne venete, proponendo innovazioni e riforme in materia di colture, affitti, macchine, concimi, allevamento, commercializzazione dei prodotti. Per qualche anno sembrò davvero che i luminosi fascicoli del Giornale d'Italia attuassero il programma formulato da A. Genovesi in una lettera del 25 giugno 1765: "Tutto quello che nelle scienze non giova all'uomo è perdimento di tempo. Se la filosofia ci ha giovato in qualche cosa, ella è per appunto questa, di averci disingannato di molte inutili applicazioni de' nostri maggiori […] E certo se noi studiassimo un poco più la storia naturale, e meno arzigogoli metafisici, forse l'Italia sarebbe meno infelice". Per quasi dieci anni dalle colonne del Giornale d'Italia il G. coordinò un vasto movimento di "lumi" nelle campagne venete, convinto che a esso seguissero concrete riforme del governo. "L'agricoltura è finalmente venuta di moda, come volea ragione", esclamava nel 1769 A. Fortis, scienziato, viaggiatore, naturalista, uomo di punta dei "lumi" veneti; a questa, che fu certo una moda ma anche un genuino e vivace movimento di innovazione e riforme promosso da un manipolo di tecnici, giornalisti, proprietari illuminati, il G. contribuì sia divulgando le migliori proposte ed esperienze teoriche e pratiche provenienti dall'Europa e da ogni parte della Repubblica, sia come autore di numerose dissertazioni teoriche e trattatelli tecnici. Scrisse sulla torba, le porcellane, la coltivazione delle patate, i parassiti degli alberi, la coltura dei gelsi e delle querce; i suoi dialoghi agrari, agili e chiari, ebbero largo successo in tutta Italia dando un contributo importante alla diffusione della tecnica agraria nelle campagne: particolarmente efficace il Manuale dell'affittuale di campagna. Dialoghi georgici d'un contadino del territorio trivigiano, scritti per essere intesi dai rozzi suoi confratelli, pubblicato a puntate sul Giornale d'Italia, che alternò consigli pratici sulle colture (la semina o le virtù del cavolo-rapa) a poetiche pagine sulla bellezza della natura e la suggestione della vita campestre. Nel 1769 il G. cominciò a pubblicare presso il Milocco gli opuscoli de "Il gentiluomo coltivatore", ispirati ad analoghe iniziative dell'inglese Thomas Hale e del francese J.-B. Dupuy-Demportes; le vivaci e innovative esperienze della Società economica di Berna, cui era stato di recente aggregato, lo spinsero ad affrontare "senza esitazione la vera piaga da combattere nel mondo contadino", la povertà (Torcellan, 1969, p. 252); le più concrete proposte di riforma riguardarono la libera circolazione dei grani, l'ammodernamento delle vie di comunicazione, il prolungamento delle affittanze agrarie, la recinzione dei terreni e l'abolizione del pensionatico. Nel 1770 la società agronomica della Carniola austriaca premiò alcune sue memorie e le tradusse in tedesco; nel 1771 stampò il Napo selvatico, detto comunemente ravizzone e della maniera di raddolcire l'olio che si estrae da' suoi semi (B. Milocco, Venezia; 2a ed. a Firenze, presso Allegrini); nel 1773 riaffermò il suo convinto liberismo nella memoria, pubblicata nel Giornale d'Italia, Del libero commercio delle vettovaglie, sorgente della pubblica civile prosperità delle nazioni; ancora nel 1773 intervenne sull'istruzione agraria dei contadini col saggio Del debito che hanno i parochi ed i curati della campagna di educare ed istruire i contadini nelle migliori regole dell'agricoltura ed in qualunque ramo dell'economia rurale, premesso al manuale La casa rustica, edito dallo stampatore veneziano A. Graziosi.
Nel decennio 1760-70 il G. fu immerso in un operoso fervore di iniziative culturali ed editoriali: nel 1765 dette vita a Il Corrier letterario (presso Graziosi), veicolo della diffusione dell'Enciclopedia, del Caffè e di altri libri e periodici dell'illuminismo europeo; nel 1766-67 diresse presso Paolo Colombani il Giornale della generale letteraturad'Europa, anch'esso costituito per lo più di annunci librari e recensioni dei più importanti scritti dei philosophes francesi; nel 1767-68 presso l'amico Bassaglia stampò il Magazzino italiano, aperta imitazione dell'analogo periodico inglese, con in più l'appassionata sottolineatura del drammatico crollo della Compagnia di Gesù nell'Europa dei despoti illuminati. Nel 1768 avviò presso M. Fenzo il Dizionario delle arti e de' mestieri, poi continuato dall'abate Osvaldo Fassadoni, silloge di "quanto di migliore da uomini celebri e pieni di patriottismo è stato pubblicato in differenti luoghi e in differenti tempi" in materia d'agricoltura e di industria; l'agricoltura, "industria madre delle arti", può progredire con l'ausilio dell'attività riformatrice dell'autorità politica, in "una specie di guerra, ove soltanto si vince e si trionfa quando il sovrano qual capo e duce dirige i suoi sudditi, gli animi alle belle ed utili intraprese, e che questi concorrono co' loro studi e colle loro applicazioni vèr quella meta, cui segna la strada il genio per il ben pubblico, la gloria nazionale e l'interesse comune" ("la più chiara enunciazione e il tentativo più organico e volonteroso di mettere la terra veneta a contatto con la spinta del riformismo economico e sociale, l'espressione più sentita e generosa di un'illusione destinata presto a cadere di fronte alla irrimediabile cristallizzazione delle strutture oligarchiche dello stato": Torcellan, 1969, p. 251). "Tutti i problemi dell'economia e della società veneta, nelle sue strutture sociali, nella sua articolazione produttiva, nei suoi duri e spesso drammatici problemi di povertà contadina, sono percorsi, rovesciati, studiati sulle limpide pagine del Giornale d'Italia e nelle severe e spesso così concrete colonne del Dizionario" (Preto, 1998, p. 111). Era il momento di passare alle riforme e il G., e con lui altri uomini di punta dei "lumi" veneti (come il Fortis), si aspettava di essere associato dal governo in questo moto riformistico. Intorno agli anni Settanta qualcosa sembrò muoversi nelle campagne: si studiarono misure per l'aumento del bestiame, la riduzione delle manimorte, la bonifica delle valli veronesi, il potenziamento delle accademie agrarie; ma in realtà il moto per un dispotismoilluminato a Venezia non decollò, la struttura politica della Repubblica restò immobile, molte riforme restarono tentativi o progetti; al G., "come alle decine di altri agronomi, tecnici, professori, intellettuali, che nelle accademie agrarie, nelle università, nei giornali, nei circoli massonici, nelle professioni burocratiche, nel commercio e nelle intraprese industriali, hanno recepito i "lumi" nella forma "moderata", realistica, pratica, tipica del mondo veneto, la sclerosi e chiusura dello stato aristocratico non offrono né la speranza di regnare né quella di operare come tecnici di uno stato avviato alle riforme" (Preto, 1985, p. 44).
La delusione per le mancate riforme nella sua Venezia spinse il G. a tentare miglior fortuna nella vicina Austria, dove invece il dispotismo illuminato di Maria Teresa, Giuseppe II e Kaunitz sembrava così vigoroso e attento a valorizzare le migliori energie espresse dal mondo dei "lumi"; nell'agosto del 1774 lasciò Venezia, seguendo il conte Giuseppe Brigido in un lungo viaggio nel Banato di Temesvár (Timişoara), da Trieste sino ai confini dell'Impero ottomano.
Con curiosità onnivora da tipico uomo dei "lumi" il G. si appassionò ad antichità, risorse naturali, costumi, storia dei paesi che attraversò; alcune impressioni a caldo apparvero nel Giornale d'Italia, ora diretto da G. Arduino, mentre altre furono raccolte in un'opera preparata per il governo austriaco in vista di una assunzione nell'amministrazione asburgica: di lì a qualche anno, quando egli era già a Milano, uscirono le Lettere odeporiche (Motta, Milano 1780), con una parte dei ricordi e osservazioni sul Banato di Temesvár, e poi Aus dem Versuch einerpolitischen und natürlichen Geschichte des Temeswaren Banats in Briefen (Wien 1780, rist. 1880 e 1969).
L'appoggio del conte Brigido e di influenti massoni viennesi, tra i quali il barone di Sperges, gli ottenne da Kaunitz e Maria Teresa (dicembre 1776) la carica di segretario della nascente Società patriottica di Milano; questo incarico di prestigio, ben retribuito, adatto all'esperienza e capacità del G., a Venezia infaticabile organizzatore culturale, si risolse invece in un clamoroso e penoso fallimento. Sin dall'inizio la Società fu dilaniata da polemiche e contrasti personali; uomini illustri come P. Verri la boicottarono apertamente e sul G. si rovesciarono roventi accuse di inettitudine, inerzia, addirittura di disordine e falsificazione delle scritture contabili. La sua posizione divenne ben presto insostenibile e il 19 maggio 1780 fu costretto alle dimissioni: fu giubilato dal governo con la pensione di 2000 fiorini.
Per qualche anno il G. continuò una vivace attività pubblicistica; nel 1783 raccolse i suoi numerosi scritti sull'industria della seta nei due volumi sul Setificio ovvero Memorie dodici… sopra i diversi rami georgici e l'industriache lo costituiscono (Moroni, Venezia); nel 1785 stampò a Venezia, presso Bassaglia, una riedizione, arricchita di nuovi documenti, della fortunata biografia sarpiana, col titolo Del genio di f. Paolo Sarpi in ogni facoltà scientifica e nelle dottrine ortodosse tendenti alla difesa dell'originario diritto de' sovrani ne' loro rispettivi dominii ad intento che colle leggi dell'ordine vi rifiorisca la pubblica prosperità ("vi brillavano più marcate e battagliere che mai l'impronta giurisdizionalistica e l'animo anticuriale; e non a caso nel 1789 le poche copie rimaste di quest'edizione furono rimesse in circolazione dallo Zatta con l'ancor più eloquente frontespizio di Difesa dell'originario diritto de' sovrani secondo il genio di fra Paolo": Torcellan, 1969, p. 259).
Gli ultimi anni di vita del G. furono infelici; colto da una malattia mentale finì nell'ospedale dei Fatebenefratelli di Milano, dove morì il 5 sett. 1787.
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