GRASSI (Grasso, Crassi, Crasso), Francesco
Della famiglia dei signori di Zibido al Lambro, nel Pavese, nacque nel 1500 da Pietrantonio e da Laura Balsami. Compì gli studi giuridici e, una volta addottorato, entrò a far parte del Collegio dei giurisperiti di Milano nel 1528.
Il G. ebbe un primo contatto con Carlo V nel 1529. Nell'estate di quell'anno fu infatti inviato, insieme con Marco Barbavara, a Genova per incontrare l'imperatore che, sbarcato a Monaco, si dirigeva a Bologna, dove sarebbe stato incoronato da Clemente VII e avrebbe riammesso Francesco II Sforza nella sua grazia, confermandolo duca di Milano. è però alla morte dello Sforza che la carriera politico-amministrativa del G. sembra decollare. Avvocato fiscale e uno dei sessanta perpetui decurioni del Consiglio generale della città di Milano, eletto per Porta Romana, divenne senatore togato il 28 dic. 1535. Probabilmente nel medesimo anno era stato podestà di Genova mentre nel 1536 divenne, fino al 1537, podestà di Cremona.
Si hanno per questo periodo due testimonianze della sua intransigente durezza e della sua decisione. Nel maggio 1537 si rivolse al governatore, il cardinale Marino Ascanio Caracciolo, affinché un tale che aveva ferito un frate nel monastero di S. Giovanni in Deserto ricevesse una punizione più dura di quella richiesta dagli statuti cittadini. Il 15 dicembre, mentre stava per scadere il suo mandato, il G. reputò opportuno sottrarre una suora da un convento e porla sotto la protezione e la giurisdizione di un altro, senza che a nulla, poi, giovassero le proteste del famoso poeta latino Marco Gerolamo Vida, allora vescovo di Alba, che lamentò invano l'interferenza del potere laico in cose ecclesiastiche.
Il G. godette anche fama di eccellere nell'arte oratoria, come sembra testimoniare il fatto che egli fu chiamato a tenere un'orazione dinanzi a Carlo V, quando questi, diretto in Sicilia - da dove avrebbe iniziato la spedizione contro Algeri -, si trovava a Milano (Francisci Crassi iurisconsulti ac senatoris Mediolanensis ad Caesarem oratio, senza indicazioni di tipografia, ma "habita Mediolani in templi maiori, XXIIII aug. MDXXXXI"). In essa il G., rievocando i successi dell'imperatore, sostenne che egli era giunto di diritto a governare Milano e che ora la città e il Ducato godevano di pace e di tranquillità.
Dal 1° genn. 1542 il G. fu sostituito fra i decurioni dal fratello Alessandro per tutto il tempo in cui fu assente da Milano. Fu infatti per un periodo a Siena, ma si ignora quanto a lungo abbia sostato nella città toscana e quale fosse la sua missione nell'inquieto dominio imperiale, di cui pochi mesi prima Antoine Perrenot de Granvelle, futuro cardinale, aveva riordinato il governo. Nel 1544-45 il G. ricoprì di nuovo la carica di podestà di Cremona. Mentre svolgeva queste funzioni ebbe modo di ammonire il governatore Alfonso d'Ávalos che un certo Andrea Berlingeri non avrebbe potuto essere assunto a far parte del Consiglio cittadino, non appena si fosse reso vacante un posto, in quanto l'elezione era prerogativa del Consiglio e non poteva essergli sottratta. Tuttavia, forse per venire incontro a esigenze allora affioranti, nel 1545 il numero di consiglieri di Cremona fu innalzato a 150 membri.
Nel 1546 il G. fu inviato nuovamente a Siena da Carlo V, come capitano di Giustizia. Per questo ufficio gli fu assegnato uno stipendio di 200 scudi al mese, che dette adito a una controversia fra lui e i Senesi, i quali, avendogliene pagati solo la metà, nel 1549 ebbero l'ingiunzione di corrispondere gli arretrati.
Nello Stato milanese dalla fusione del magistrato delle Entrate ordinarie, di quello delle Entrate straordinarie e dei prefetti dell'Annona nel 1541 era stato costituito il magistrato dei Redditi o delle Entrate. Il 25 giugno 1548 il G. fu chiamato a presiederlo; con tale carica prese parte alle sedute del Consiglio segreto.
Nell'ottobre dell'anno successivo il G. avrebbe dovuto recarsi presso Carlo V in Fiandra, per prospettare al sovrano la disastrosa situazione finanziaria del Ducato, di cui erano già state spese in anticipo sia l'entrata ordinaria sia quella straordinaria dell'anno successivo. L'istruzione è del 30 ott. 1549 e fu aggiornata il 22 genn. 1550, ma successivamente il G. dovette rinunciare al viaggio per volere di Carlo V, che volle ricevere soltanto una relazione. Nel dicembre 1552 il G. fu compreso, insieme con Pier Paolo Arrigoni e Giovan Battista Schizzo, nella terna di candidati per la designazione - morto Marco Barbavara - del nuovo presidente del Senato. Gli fu preferito l'Arrigoni, ma successivamente, per l'arresto (avvenuto nel luglio 1556) e la detenzione del cancelliere F. Taverna, egli assunse ad interim il gran cancellierato rimasto vacante.
Alla morte di Carlo V il G. fu prescelto per commemorarlo e l'orazione (Oratio habita Mediolani in funere Caroli V) fu edita a Milano nel 1559 (tip. F. Moscheni). Già dall'anno precedente però il G. aveva chiesto a Filippo II di essere esentato dalla carica di presidente del magistrato delle Entrate ordinarie a causa delle sue condizioni di salute, volendo mantenere soltanto il posto di senatore. Almeno in quanto agli stipendi, il G. non avrebbe perso nulla, essendo gli emolumenti dei senatori superiori a quelli di presidente del magistrato, che ammontavano a 2400 lire, oltre ad altre percentuali relative ed entrate specifiche. Il 25 giugno, tuttavia, Filippo II lo aveva pregato di rimanere in carica fino a che non si fosse provveduto alla sua sostituzione. Il 27 ott. 1559 il G., per sollecitare la decisione che gli premeva, inviò presso il sovrano il nipote Giovan Battista Reyna, cui il 27 ag. 1561 avrebbe lasciato il posto di decurione. Pochi giorni prima era però iniziata la "visita" a Milano di Andrea de la Cueva y de Bovadilla, che già prima di partire da Bruxelles era stato inviato a indagare sulle accuse rivolte, oltre che all'Arrigoni, al G., partite sia da Milano sia da Cremona.
Alcune accuse erano generiche, altre particolareggiate. Quelle generiche erano di essersi arricchito durante l'esercizio delle sue funzioni con frodi e malversazioni e percependo "onoranze" indebite, ma non risultarono sufficientemente provate. In ogni caso, non si conosce l'ammontare dei beni mobili e immobili del G., anche se si sa che doveva essere proprietario terriero. Più nel merito, era accusato di avere ricevuto 100 scudi da due dei tre notai delle Confische perché, morto il terzo, essi se ne potessero dividere le attribuzioni; di essere stato corrotto da un tale, maestro delle poste, che, avendo un credito con la Camera, voleva il suo appoggio per recuperarlo; di avere ricevuto in prestito e usato privatamente stoffe preziose, comperate per addobbare le navi che avrebbero dovuto servire per il viaggio fluviale da Pavia a Venezia dell'arciduca Ferdinando d'Austria nell'ottobre 1549; di essersi appropriato di 300 scudi che la Camera gli aveva fornito per il viaggio che avrebbe dovuto compiere presso l'imperatore nel 1549-50; di avere ricevuto indebitamente un compenso di 600 scudi d'oro, quando aveva coperto ad interim la carica di gran cancelliere, mentre non avrebbe potuto percepire contemporaneamente due stipendi; di avere avuto in dono da Niccolò Grimaldi dei bacili d'argento; di avere infine abusivamente nominato il suo maggiordomo, Francesco Della Porta, giudice della Gabella del sale di Milano. Il G. sostenne che ciò che aveva accettato erano cose che gli "puotebano essere datte", e probabilmente egli non si allontanò dalla pratica, anche se scorretta, allora comune. Quanto alla questione dei 100 scudi avuti dai due notai, il visitatore stabilì che il G. aveva ricevuto indebitamente 12 o 15 scudi, che doveva restituire al Fisco con l'ammenda del quadruplo. Relativamente all'accusa del maestro della posta, egli negò con decisione e dall'altra parte l'accusatore cadde in contraddizione, cosicché il visitatore non poté procedere in alcun modo contro il G.; tuttavia prevalse l'opinione che la concussione fosse stata esercitata e che il G. avesse poi restituito il denaro per paura dell'inchiesta. Il G. non negò di avere ricevuto dei bacili d'argento dal Grimaldi, tuttavia sostenne che essi furono inviati e accettati "amicitiae causa"; ciononostante, il visitatore gli impose di restituirli al Fisco, con l'ammenda del quadruplo. E, con la medesima ammenda, doveva restituire le stoffe preziose. La questione dei 600 scudi avuti per l'interim sarebbe stata decisa direttamente da Filippo II. Infine, il G. avrebbe dovuto restituire 150 dei 300 scudi avuti per il mancato viaggio nelle Fiandre, che sosteneva di aver speso in preparativi.
La "visita" terminò il 26 maggio 1562 e, anche se gli vennero comminate pene non troppo severe, il prestigio del G. rimase certamente scosso. Non sappiamo quando effettivamente lasciò le sue cariche milanesi, ma il 12 marzo 1565 il G. - che era già protonotario apostolico e al quale era morta la moglie, da cui aveva avuto almeno due figli, Pietrantonio e Ippolito - fu creato da Pio IV cardinale diacono. Il 26 ottobre del medesimo anno venne trasferito dall'ordine diaconale a quello presbiteriale; l'8 febbr. 1566 ricevette il titolo di S. Lucia in Septisolio e un mese dopo, il 6 marzo, passò a quello di S. Eufemia.
Il G., che era stato anche nominato dal papa governatore di Bologna, morì a Roma il 29 ag. 1566; sepolto in un primo momento nella chiesa di S. Cecilia, fu poi traslato a Milano in S. Maria della Pace.
Il G. era stato evidentemente uno dei benefattori dell'ospedale Maggiore di Milano, poiché il 6 dic. 1602 una deliberazione del capitolo stabiliva che, al "fine di strappare all'oblio del tempo la memoria delle persone illustrissime benemerite dell'ospedale", fossero eseguiti alcuni ritratti, fra cui quello del Grassi. Il ritratto, opera di Camillo Serbelloni, conservato nella quadreria dell'ospedale, lo ritrae in abiti talari. Al G. indirizzò un sonetto Tullia d'Aragona (Rime, Venezia 1560, p. 8).
Non è da confondere con il G. il Francesco Grassi attivo a Milano nel secondo quarto del XVI secolo. Costui, giureconsulto, faceva parte nel 1534 di una commissione, presieduta dal presidente del Senato Giacomo Filippo Sacchi, incaricata da Francesco II Sforza di procedere alla compilazione "corretta e ordinata" delle leggi emanate dai signori di Milano. Alla morte dello Sforza l'opera non era compiuta, ma una prammatica di Carlo V rinnovò l'incarico ai medesimi membri, che completarono il loro lavoro nel 1541. Le nuove costituzioni, che furono alla base del diritto milanese fino a circa tutto il Settecento, furono approvate il 27 ag. 1541 e un decreto del 3 ottobre stabilì che sarebbero andate in vigore dal 1° gennaio successivo.
Di esse si ebbe una prima edizione nel 1541 che, a causa della presenza in Italia di Carlo V, fu molto affrettata. Nella seconda (Milano 1544), curata dal giureconsulto Francesco Grassi, e nelle altre dieci che si susseguirono fino al 1764, figurano, oltre ai vari ausilii e ai supplementi alle Constitutiones, due suoi scritti: un De origine iuris Mediolanensis libellus ad Alfonso d'Ávalos e una lettera di dedica al G. "Caesareo senatori, ac praetori Cremone".
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