GIUSTINIAN, Francesco
Primo dei due figli maschi del dottore e cavaliere Antonio di Polo e di Elisabetta Da Mula di Alvise di Francesco (zia del futuro cardinale Marcantonio), nacque a Venezia il 16 genn. 1508.
Il padre, uomo di vasta cultura (per anni era stato incaricato di leggere filosofia nella Scuola di Rialto), aveva percorso una notevole carriera politica, segnata dalla prigionia in Francia (1512), ma anche dall'espletamento di importanti ambascerie; con opportuni investimenti si era assicurato inoltre cospicue proprietà fondiarie nella parte orientale del Trevigiano, fra Oderzo e San Donà di Piave.
Il G. nacque dunque da famiglia ricca e prestigiosa, ma si ritrovò ancora giovane orfano e con un solo fratello di appena due anni; forse anche per questo pensò per tempo al matrimonio: l'11 giugno 1526 sposò Bianca Giustinian, unica figlia di Daniele di Francesco, del ramo a S. Pantalon denominato "Case nuove" (mentre quello del G. era stato conosciuto in precedenza con l'epiteto "da Negroponte"). Furono nozze sontuose: scrive Sanuto che per l'occasione a casa della sposa (adiacente all'attuale Ca' Foscari, dove il G. si trasferì) "fo fato un gran pasto et festa", seguita "per Canal grando [da] una regata di barche" (Diarii, XLI, col. 552). Nella raffinata e vivace Venezia grittiana al giovane G. parevano dischiudersi le più suggestive prospettive; ambizione e mondanità avrebbero caratterizzato il primo decennio della sua vita sociale e politica, quest'ultima peraltro segnata da ben modesti risultati.
Questo perché volle bruciare le tappe: il 28 settembre dello stesso 1526 riuscì eletto savio agli Ordini, insieme con Marco Marcello; ma quattro giorni dopo la nomina venne invalidata perché né l'uno né l'altro era riuscito a provare il requisito dell'età. Il G. tentò di ottenere il suo scopo offrendosi di prestare danaro alla Signoria ed ebbe dalla sua il Consiglio dei dieci; tuttavia l'opposizione del doge ("il Serenissimo non sente tal cossa", annota Sanuto, ibid., XLIII, col. 56) fece fallire il tentativo. Non per questo il G. abbandonò il progetto, ancorché ridimensionato: il 24 genn. 1527 riuscì a convincere Vincenzo Loredan di Leonardo a rinunciare in suo favore a quel titolo di senatore che aveva acquistato per 400 ducati; quel giorno però l'assemblea senatoria respinse la proposta, sennonché il G. tornò alla carica e cinque giorni dopo entrò a far parte dei Pregadi, previo esborso della somma.
Non aveva che diciannove anni; impensabile che gli fossero appoggiati incarichi interni, e difatti le uniche votazioni nelle quali compare il suo nome furono quelle legate a dispendiose e non sempre gradite missioni fuori dello Stato: il 13 ott. 1527 mancò l'elezione a capitano di Vicenza, il 31 ott. 1528 e il 29 luglio 1529 quella di ambasciatore a Ferrara, il 5 giugno 1533 di ambasciatore a Milano. Questi apparenti insuccessi non dovettero tuttavia affliggere più di tanto il G., che, anzi, seppe offrire ai concittadini reiterate esibizioni di amor patrio, versando in più occasioni denaro a prestito alla Signoria, talora rinunciando volontariamente al godimento degli interessi (29 apr. 1528, 3 gennaio e 29 apr. 1529). Per il G. furono anni di una vita morbida, segnata dalla partecipazione al fitto rituale civico della Serenissima e ai non meno infrequenti impegni mondani: lo vediamo così intervenire al banchetto offerto dal cardinale Francesco Corner in occasione del conseguimento del titolo, il 7 giugno 1528; qualche mese dopo (maggio 1529) è tra i fondatori della nuova Compagnia della Calza, denominata dei Reali, di cui faceva parte il fiore della gioventù patrizia. Il G. ne divenne ben presto uno dei principali animatori: nel corso del successivo carnevale, il 26 febbr. 1530 partecipò come attore alla recita di una commedia di Giovanni Ortica; il 4 maggio dello stesso anno ospitò centoventi commensali a un sontuoso pranzo in onore di Ferrante Sanseverino, principe di Salerno; nella circostanza - scrive Sanuto - i reali legarono tra loro due burchi, vi fecero sopra un palco, "poi veneno balando [lungo il Canal Grande] fino a chà Justinian da le chà nuove. Et nel mezado, dove sta sier Francesco Justinian […], compagno, li fo fato un bancheto belissimo" (ibid., LIII, col. 189). Né si fermarono qui le iniziative dei compagni: il 21 agosto e il 10 settembre successivo si recarono addirittura dal doge a richiedergli, per bocca del G., la disponibilità di spazi e mezzi per consentire loro di festeggiare la prossima venuta in città del duca di Milano, Francesco II Sforza. è sempre Sanuto, un po' stupito un po' divertito, a informarci circa le non proprio modestissime richieste avanzate dal G.: i reali intendevano organizzare "prima un bellum navale, richiedendo le barche longe, brigantini et altro, al numero di 40, di l'Arsenal, che loro le meterano ad ordine; item rechiese la sala del Gran Conseio per far una festa, et la Libraria per far la cena, zoè la sala; item la piazza di S. Marco, voleno far un soler […] et far certe caze di zervi et altri animali etc." (ibid., col. 542).
Pur essendo associazioni di privati cittadini, nella prima metà del Cinquecento le Compagnie della Calza rispecchiavano taluni aspetti della politica sociale e culturale perseguita dal governo veneziano; sicché il loro operato rientrava in qualche modo nell'ambito della sfera pubblica, e come tale veniva considerato. Perciò, pur personalmente riluttante a quelli che dovevano sembrargli eccessi, il doge A. Gritti acconsentì a quanto richiesto circa l'Arsenale, ma per il resto rispose che "si vederìa" (si osservi che mentre era disposto a concedere le strutture militari, avanzava riserve per quelle civili). Lo Sforza giunse a Venezia nel mese di ottobre, ma la festa, che si doveva tenere proprio a casa del G., a causa della morte di un suo zio, fu invece allestita a Ca' Pisani "dal Banco".
Tutto questo ebbe termine quando il G. giunse alla soglia dei trent'anni, e più esattamente nel 1537, che rappresenta una data decisiva nella sua vita; da questo momento, infatti, egli appare come un personaggio maturo e ben diverso dal gaudente di prima. Il 5 maggio 1537 fu eletto ambasciatore al duca di Mantova Federico II; la motivazione ufficiale era costituita dal battesimo di un figlio, ma in realtà Venezia intendeva migliorare i suoi rapporti con i Gonzaga, che da poco avevano esteso i loro domini al Monferrato. Era una missione più diplomatica che politica, anche perché il duca era stato più volte festeggiato a Venezia proprio dalle Compagnie della Calza, a taluna delle quali figurava pure appartenere.
Ben diverso l'impegno cui il G. venne chiamato appena una manciata di mesi dopo: il 20 ott. 1537 era inviato a Parigi con il titolo di nobile, mentre con analogo incarico si spediva all'imperatore Alvise Badoer. Da poco più di un mese la Repubblica era in guerra con i Turchi, che avevano assalito Corfù; sarebbe stato un conflitto infausto, come s'era capito sin dagli esordi, sicché per fare fronte alle squadre del Barbarossa era più che mai necessario l'aiuto dei principi cristiani. Donde questo tentativo di indurre alla pace, o perlomeno a una tregua, Francesco I e Carlo V. Le commissioni furono date al G. con grande urgenza, appena due giorni dopo la nomina. Della breve missione (Venezia aveva già un ambasciatore ordinario a Parigi, Cristoforo Cappello) ci resta la relazione, assai bella, letta probabilmente in Senato negli ultimi giorni del febbraio 1538.
Lo scritto si distingue per stringatezza ed efficacia: tralasciate le rituali informazioni sulla figura del sovrano, la famiglia reale, la corte, l'esercito, le finanze, il G. va dritto al nocciolo della questione, e cioè al mancato successo del complesso negoziato che si teneva a Leucate, presso Narbona, da parte dei delegati dei due monarchi. Individuato nel conteso possesso del Ducato di Milano l'ostacolo principale alla pace "aspettata con eccessivo bisogno dalla cristianitade", il G. passa a esporre le ragioni che da una parte e dall'altra rendevano irrinunciabile il dominio lombardo, e persino la sola temporanea consegna delle sue fortezze a un arbitro, come pure si era ventilato, ipotizzando i nomi della Repubblica e della S. Sede. A tale proposito - continua il G. - il re gli aveva personalmente manifestato la sua contrarietà, "essendo sua santità troppo vecchia, la quale morendo potrìa rompere ogni buona opera che fusse incominciata; ed essendo la serenità vostra troppo potente in Italia, da commettergli questo stato". La valutazione del G. si muove ancora, evidentemente, nell'ambito della tradizionale concezione che vede nell'Italia e nel Mediterraneo il fulcro della politica internazionale: Firenze, Napoli, i Turchi, i flussi dei circuiti mercantili e finanziari, tutto sembra ruotare attorno alla penisola; ancora, trapela nello scritto l'orgoglio del cittadino la cui patria è considerata "troppo potente", così come, qualche tratto più avanti, egli palesa la sua concezione aristocratica nello stigmatizzare il ricorso del re alle milizie locali formate da contadini. Queste truppe - egli dice - non possono "riuscire in quel regno, sì per esser villani nati ed allevati nel continuo servire […]; sì perché […] come dall'estrema servitù erano messi una fiata in la licenza e libertà delle armi e della guerra, non volevano più obbedire alli loro padroni"; un'osservazione, questa, forse allusiva al grande progetto di difesa territoriale proposto al Senato nel 1536 da Francesco Maria Della Rovere, e che comunque pone il G. fra i fautori di quella concezione oligarchica dello Stato che aveva allora i suoi protagonisti nel doge Gritti e in Marco Foscari.
Continuando la sua analisi della situazione francese, alle ragioni della politica il G. aggiunge quelle che appaiono le differenze caratteriali fra Carlo V e Francesco I; in essi, riflette, "trovo esser tale e sì gran discordanza, che (come in tal proposito mi disse la serenissima regina di Navarra, che è sorella del re cristianissimo, la quale è donna di molto valore e spirito grande, e che interviene in tutti i consigli) bisogneria che Dio ritornasse a riformare uno di loro ad esempio dell'altro per volere che si accordassero ambidui […]. Onde si potria concludere, che per diversi spiriti e contrarie nature che hanno insieme queste due maestadi, mal è da credere che si abbiano ad accordare". Nonostante questo pessimistico quadro, la parte conclusiva della relazione appare segnata più da luci che da ombre, poiché il G. lascia intendere che le ultime iniziative ottomane sono state avvertite come un reale pericolo per tutti gli Stati che si affacciano sul Mediterraneo. Né si sbagliava: qualche mese dopo, a Nizza Francesco I e Carlo V sarebbero addivenuti, se non alla pace, perlomeno ad una tregua, sancita dallo stesso pontefice.
Rimpatriato con le insegne di cavaliere, il G. rimase assente dalla politica attiva per quasi quattro anni, dopo di che fu eletto podestà e capitano a Treviso, dove rimase dal novembre 1541 al marzo 1543. Potrebbe avere sollecitato egli stesso la nomina: sappiamo infatti che in quella provincia la sua famiglia possedeva il nucleo eminente dei propri beni fondiari, per cui nel catasto di Oderzo del 1542 il G. figura come il maggior proprietario del territorio, con 18 aziende per complessivi 308 ettari. Pertanto, a essere maliziosi, non si può escludere che la podestaria trevigiana, caduta proprio mentre si varava il nuovo estimo, gli abbia consentito di intervenire vantaggiosamente nel riparto delle gravezze.
Della permanenza del G. a Treviso ci resta un fascicolo di lettere spedite al Consiglio dei dieci, nelle quali reclama insistentemente i mezzi per provvedere al completamento del dispositivo difensivo della città, in base al piano elaborato da fra Giovanni Giocondo da Verona dopo Agnadello. Prima della costruzione di Palmanova, Treviso rappresentava infatti il baluardo orientale della Serenissima, la cui importanza trova conferma nella corrispondenza del G., dove allude al tentativo, immaginato nel 1530 da parte di partigiani imperiali, "di poterla robbar".
Al termine del mandato il G. passò a nuove nozze, pur avendo avuto discendenza dalla prima moglie; vedovo, si rimaritò con una vedova: Polissena Tiepolo di Giovanni, già sposata a Bernardo Cappello di Domenico. Forse aveva bisogno di persona cui affidare la casa e l'amministrazione patrimoniale, visto che il 7 novembre dello stesso anno il G. fu nuovamente eletto ambasciatore in Francia, la qual cosa lo costrinse a lasciare Venezia per molto tempo.
Partì tuttavia solo un anno dopo; ricevute le commissioni l'8 nov. 1546, il suo primo dispaccio figura datato 8 dic. 1546, l'ultimo il 22 marzo 1549. Era arrivato da poco a Parigi, quando sopraggiunse la morte di Francesco I e l'ascesa al trono del figlio Enrico. Questo avvenimento, unitamente alla vittoria di Carlo V sui confederati a Mühlberg, segnava l'apertura di un nuovo confronto tra Francia e Impero. Quasi a sottolinearne l'importanza, il Senato inviava a Parigi (estate-autunno 1547) un'ambasceria straordinaria nelle persone di Matteo Dandolo e Vettor Grimani.
La situazione però, secondo l'ottica veneziana, era ben diversa da quella che aveva sotteso la prima missione del G., un decennio prima; ora la Repubblica era in pace e il centro della politica internazionale si era spostato nella Germania, sicché la legazione del G. non ebbe il carattere di urgenza che aveva contraddistinto la precedente. Dai dispacci e dal compendio della relazione trasmessaci dal Ranke ne esce confermata la linea filofrancese del G., che delinea un ritratto positivo del pur inesperto Enrico II, così inferiore per capacità e prestigio alla forte personalità paterna. I mali che affliggono la Francia sono da lui ricondotti agli odi e alle rivalità di corte, e soprattutto all'opposizione che il partito dei Guisa alimenta verso il conestabile, Anne de Montmorency, primo ministro e vero sovrano di Francia: un fautore della pace, eppure manifestamente inviso al G. per l'ambizione, la superbia, la durezza del carattere, che lo rendono "odiato da ogni sorta di persone del regno di Franza".
La missione del G. non durò a lungo; approfittando del viaggio a Torino del monarca francese, il G. lo accompagnò in Piemonte e prese congedo. Ricoprì un'ultima carica, quella di provveditore alle Biave, dal 9 ott. 1551 all'8 febbr. 1553.
Il G. si spense a Venezia il 29 apr. 1554 nel suo palazzo a S. Pantalon.
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