GALEOTA, Francesco
Nacque verso il 1446 a Napoli da Carluccio, dicendente da una famiglia della più antica nobiltà napoletana, ascritta al seggio di Capuana, e da una delle sue due mogli, Antonella Boccapianola o Maria di Somma. Nel 1461 la sua famiglia perse i molti feudi ereditati (Montevairano, Trentola, Basa, Baronelli, Castelpizzuto, Castel degli Schiavi, San Martino Longano e Serpico) avendo partecipato alla rivolta dei baroni dopo la morte di Alfonso V il Magnanimo; poi fu reintegrata nel 1463 solo del possesso del castello di Serpico e dei casali di Sorbo e Santo Stefano. Non si hanno notizie della giovinezza del G. e della sua formazione come poeta e letterato, attività che egli accompagnò a quella di uomo d'armi. Come tale figura registrato nel 1464 presso il Demanio nelle cedole di Tesoreria. Non risultando dai documenti che fosse un nuovo arruolato (com'è espressamente indicato invece per tanti altri, tra cui lo stesso fratello del G., Domizio), è presumibile che lo fosse già precedentemente; nell'agosto 1467 il G. compare al seguito di Diomede Carafa e molto prossimo dell'erede al trono, Alfonso duca di Calabria.
Le fonti tacciono fino al 1479 quando il G. accompagnò in Toscana Alfonso, in occasione della campagna militare condotta da Napoli e dallo Stato della Chiesa contro Firenze, dopo il fallimento della congiura dei Pazzi: il 10 aprile il G. era a Grosseto ammalato; il 6 luglio a Siena; il 21 ottobre all'assedio di Colle, dove il duca di Calabria insieme con Federico da Montefeltro sconfisse l'esercito fiorentino. Nel 1480 il G. era di nuovo al seguito di Alfonso nel corso della campagna per il riacquisto di Otranto, espugnata dai Turchi nel mese di agosto.
A questa impresa si riferisce lo strambotto caudato "Movo le corde a consonar la lira" (p. 39 dell'edizione Flamini), in particolare i versi "Ch'è pur de la partita / de Puglia e de li barbari molesta; / tal ch'io non so dove tener la testa", ed è uno dei rari esempi di riferimenti biografici rintracciabili nell'opera letteraria del Galeota.
Ulteriori notizie riguardo alla sua partecipazione alla campagna in Puglia ci vengono fornite dalle cedole di Tesoreria (pubblicate da Percopo, 1893, pp. 802 s., e da Mauro, p. 209): era certamente a Taranto, a Sicina e a Rocca nel settembre e nell'ottobre 1480, insieme con il fratello Domizio e con Giovanni e Robino Galeota, anch'essi suoi parenti. Nel corso di queste campagne militari il G. dovette entrare in rapporti di familiarità con il duca Alfonso, come testimoniano le sue stesse rime e le Effemeridi di G.P. Leostello nelle quali il G. viene registrato come commensale usuale di Alfonso, sia in occasione di ambascerie sia di banchetti privati.
Nell'opera letteraria del G., invece, il riferimento più esplicito ai suoi rapporti con il duca Alfonso è rappresentato dalla Strussula in laude del duca di Calabria (pp. 65-68 dell'edizione Flamini). Il componimento è articolato nella forma di un dialogo fra tre personaggi: Silvio, che è il poeta stesso; Sonofla, che è l'anagramma di Alfonso, e Norima, anagramma di Marino (probabilmente Marino Tomacelli, già ambasciatore del Regno sotto Alfonso il Magnanimo e amico intimo del Pontano). Vi si preannuncia il ritorno nel Regno del duca Alfonso, impegnato nella guerra di Ferrara (1482-84), con toni profondamente encomiastici (cfr. vv. 54-79): il duca viene indicato addirittura come colui per il quale "s'attende la speranza / de l'Italia tuta e 'l viver che m'avanza". Di tono più intimo invece l'epistola (parzialmente pubblicata dal Flamini, p. 18) in cui il G. esprime il suo dolore per la lontananza dal duca, appellandolo "fidelissimo amico S. mio".
Il decennio apertosi con l'impresa d'Otranto sancì per il G. la definitiva affermazione politica presso la corte aragonese, dove assunse un ruolo polivalente: non più solo uomo d'armi, ma al tempo stesso cortigiano, letterato e ambasciatore. La sua missione più delicata fu nel 1483 al fianco di Francesco di Paola presso il morente sovrano di Francia Luigi XI, che, reclusosi malato nel castello di Plessis-les-Tours, era fiducioso in una guarigione miracolosa da parte dell'eremita calabrese la cui fama di taumaturgo era giunta fino a lui. In realtà l'intento della missione, sostenuta dalla corte napoletana, era tutt'altro che religioso, e a Francesco di Paola si chiedeva di intercedere presso il re di Francia affinché questi intervenisse nella guerra di Ferrara, condotta ostinatamente da Venezia, incurante della defezione dell'antico alleato papa Sisto IV (come attesta una lettera del re di Napoli a Francesco di Paola, edita dal Mauro, p. 210).
Il G. partì negli ultimi giorni di febbraio del 1483 insieme al terzogenito del re, Federico, e a sei cavalieri deputati dalla cittadinanza (pare che del seguito facesse parte anche il rimatore G. Perleoni). Di questo viaggio egli ci ha lasciato una descrizione minuziosa nella Cansone dove sono notate tutte le cose de memoria, che vide per lo viagio de Franza e un accenno nello strambotto "Primavera per mi non ha più fronde" (pp. 72 s. dell'edizione Flamini). Nella canzone, oltre ai riferimenti al santo ("Viddi per fiumi e mare / el bon romito, / poverello vestito, / tuto humile, / ad far d'inverno aprile / e nascer rose", vv. 28-33), viene apertamente cantato l'intento politico del viaggio: "Viddi la gran basciata, / che de Franza è mandata, / per favore; / de tutta Italia honore, / et honta acerba de Vinesia superba" (vv. 97-102). L'intonazione generale di trionfo induce a pensare che il G. la scrivesse in un momento in cui le sorti della guerra volgevano avverse a Venezia, come fu effettivamente dopo il settembre 1483, sia per la scomunica papale (comminata il 24 maggio), sia per la fortunata sortita del duca Alfonso, alleato di Ercole d'Este signore di Ferrara, sotto Verona. In realtà la Francia tardò a intervenire, tant'è che un'ambasceria di mediazione giunse a Roma quando ormai la pace si era conclusa (7 ag. 1484). Benché il G. fosse rimasto positivamente impressionato dal viaggio e dalla figura di Francesco di Paola, trapela dai suoi versi un profondo desiderio di far ritorno al suo "paese, tuto in pace palese" (vv. 182-185), proponendo qui un motivo, quello dell'agognato ritorno, ricorrente anche nei suoi strambotti.
Al ritorno dalla Francia, però, egli si fermò per qualche tempo a Pavia e poi a Ferrara, ospite di Eleonora d'Aragona - figlia di Ferrante I e moglie di Ercole d'Este -, per la quale compose "la più rara e meravigliosa novella che fosse mai nelle orecchie degli uomini pervenuta", cominciata "passando da Tesino in Po", "in mezzo di duo correnti grandissimi", "fra tanti rumori tacendo e navigando", come si legge nella stessa dedicatoria.
La novella si impernia sul motivo del morto riconoscente: il protagonista, Amerigo di Guascogna, esiliato perché "ritrovata una penna di falcone d'oro andando a caccia, facendone al suo signore uno presente, per invidia fu accusato che aveva il falcone integro", lungo la strada dell'esilio seppellisce il cadavere di un cavaliere, per la riconoscenza del quale riuscirà dopo varie peripezie a tornare felicemente in patria. Questa novella, che il Flamini trasse dai codd. 566 e 570 della Biblioteca Trivulziana di Milano, ma che non ritenne opportuno pubblicare per intero giudicandola di scarso rilievo artistico, è stata successivamente indicata dalla critica come l'unico esempio, dopo il Novellino di Masuccio Salernitano, di imitazione del Decameron nel Quattrocento napoletano.
Al suo ritorno a Napoli, il G. venne nominato consigliere del re (1484) e tutore di Raimondo e Roberto Orsini, figli di Orso, duca d'Ascoli e conte di Nola, come testimonia un documento edito dal Percopo (1893, p. 804) il quale ha anche fatto luce sui legami tra il G. e l'Orsini: la moglie del G. infatti, Sigismonda Frangipane della Tolfa, era imparentata con Orso, perché una sorella di questo, Agnese, aveva sposato Lodovico della Tolfa, di cui Sigismonda doveva essere o sorella o figlia.
Visto il successo ottenuto nella missione del 1483, il G. venne impiegato sempre più di frequente come ambasciatore. Nel 1486 venne inviato presso Giovanni Caracciolo, duca di Melfi, per offrirgli la restituzione di alcune terre in cambio del suo appoggio nella lotta contro i baroni. In questa missione il nome dell'ambasciatore è registrato come Francisco Baliota, ma, non essendo mai esistito un ambasciatore aragonese con tale nome, è presumibile (come sostenuto dal Percopo, 1893, p. 793) che si tratti del Galeota.
Nel 1487 venne nominato castellano di Castellammare di Stabia e negli ultimi mesi dello stesso anno fu inviato a Milano presso Ludovico il Moro per congratularsi con lui della recuperata salute.
Gli ultimi anni della vita del G. vennero turbati sia dagli eventi che sconvolsero l'assetto politico del Regno sia da questioni private concernenti l'amministrazione dei propri beni. Alla morte di Ferdinando I, avvenuta nel 1494 poco prima della discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII, il G. si fece sostenitore della causa angioina. Ancora nel giugno 1496 egli si trovava, stando al Sanuto (coll. 225 s.), fra i "baroni anzuini in campo con francesi" insieme con Jacopo Galeota, maresciallo di Francia e con Dionise Galeota, ossia, secondo l'interpretazione del Percopo, suo fratello Domizio. Fallita la resistenza delle armate nemiche per la controffensiva attuata da Federico d'Aragona, il G. si riaccostò a questo dal quale riottenne i propri possedimenti che gli erano stati confiscati per la sua defezione.
Negli ultimi tempi della sua vita il G. ebbe diverse controversie con i lavoranti della salina di Serpico sul loro salario. Il possesso di una salina è una delle testimonianze più significative dei favori di cui godeva il G. presso la corte, in quanto fin dal 1482 era stato emanato un bando per il quale nessuno poteva vendere o usare sale che non provenisse dalle risorse regie, divieto dal quale il G. era stato subito dispensato. Sempre legate al possesso del castello di Serpico sono le contese che il G. ebbe con il nipote Luigi, figlio del fratello Gerolamo, cui decise di far sposare la primogenita Ippolita per assicurare il possesso dei suoi beni alla discendenza, non avendo avuto figli maschi.
Il G. morì nel 1497 e fu sepolto nel suo casale di Sorbo (Sorbo Serpico presso Avellino).
L'opera letteraria del G. abbraccia generi molteplici, dalla novella alle rime, con una spiccata propensione verso la scelta di forme popolareggianti (come ad esempio barzellette e strambotti), malgrado la formale assunzione del modello petrarchesco. Il G. riordinò i suoi scritti in un Canzoniere dedicato a Costanza d'Avalos, contessa di Acerra, e diffuso nel 1491 da Giovan Marco Cinico, copista della biblioteca regia. Costanza d'Avalos, ispiratrice anche di altri rimatori, da Bernardino Martirano al Cariteo (Benedetto Gareth), ed essa stessa scrittrice, fu onorata dal G. dell'invio del proprio Canzoniere affinché "cum le sue mani anzeliche in qualche parte emendata e corretta, iongendo et mancando le syllabe, cassando et sopra scrivendo, limando secondo il bisogno et al suo recto iudicio se richiede", potesse finalmente uscire in pubblico, non più "timida, povera et tenebrosa", ma "ricchissima lucida et secura" (cfr. Flamini, p. 21, che pubblica una parte della dedicatoria). Del manoscritto del Cinico si hanno notizie lacunose: il Percopo (1893, p. 795 s.) sostiene che fosse ancora conservato nel XVIII sec. nella biblioteca dei padri teatini dei Ss. Apostoli a Napoli; ma per le sue ricerche il letterato napoletano dovette ricorrere al ms. 2752 della Biblioteca Riccardiana di Firenze. Il Canzoniere del G. è contenuto anche nei seguenti manoscritti: l'Est. ital. 1168 (segnato anticamente α.M.7.32) della Biblioteca Estense di Modena; il ms. XVII.1 della Biblioteca nazionale di Napoli, già noto al Napoli Signorelli e al Percopo, ed edito dal Bronzini (1976; 1986-88) comprendente 253 componimenti in versi e 73 lettere in prosa; il Riccardiano 2752, già segnalato dal Torraca (1884) e da cui successivamente il Cianflone ha tratto cento strambotti (fornendone in nota le varianti testuali rispetto al manoscritto XVII.1 della Bibl. nazionale di Napoli). Rime del G. sono contenute anche nel ms. Fonds Ital. 1035 della Bibliothèque nationale di Parigi, studiato in particolare dalla Corti, secondo la quale si tratterebbe probabilmente dell'autografo del Cansonero di Giovanni Cantelmo, conte di Popoli, il quale vi raccolse rime e lettere inviategli dai suoi amici, tra cui F. Spinello, G. di Trocculi, L. della Lama, Coletta di Amendolea e, per l'appunto, il G.; e nel Vat. lat. 10656 della Biblioteca apost. Vaticana, segnalato dal Vattasso e parzialmente pubblicato dal Berra, dal Monti e dall'Altamura, ed edito dal Bronzini (1971 e 1979).
Dal materiale contenuto in questi codici emerge una sostanziale disomogeneità di scelte formali e soprattutto il carattere occasionale di tale produzione letteraria. È il G. stesso a sottolineare l'occasionalità e la dispersività della sua attività di scrittore nell'epistola di dedica: "infima mia opera, non senza grave faticha et dolore composta, jo, havendote raccolta insieme che andavi in mille luoghi dispersa, non so che nomi te debia dare, che consigliarte, né ad chi te debia menare che tu fussi digna d'essere ricevuta, imperò che tu se più preso uno colibetto de cosse varie che quaterno né libro a qualche laudabile fine scripto" (cfr. Santagata, 1979, pp. 180 s.). Dalla Tavola delle rime approntata dal Flamini sulla base dei mss. Estense e Riccardiano il Santagata (pp. 254 s.) ha rilevato una netta predominanza di strambotti (ben 589 su 634 componimenti) di cui molti caudati, seguita da 18 barzellette, di cui ben 17 si chiudono secondo la tradizione meridionale con uno strambotto. Ulteriore conferma di questa aderenza a modelli provinciali semipopolari è la Frotola a lo illustr.mo s. don Fedrico in gliomaro, dedicata a Federico, terzogenito di Ferdinando I, poeta egli stesso e dedicatario delle raccolte di altri famosi poeti, come il Sannazaro e G. Perleoni (Rustico Romano). In confronto le tracce di metrica aulica (9 sonetti, 9 canzoni a rimalmezzo, una ballata, un madrigale, due capitoli e due egloghe) sono ridotte a tal punto da poter porre la figura letteraria del G. in una linea espressiva molto più vicina alla koinè che alla tradizione petrarchista, che proprio in quegli anni si affacciava sulla scena letteraria napoletana senza tuttavia incontrare uno humus culturale che le permettesse di radicarsi e di fondersi. Con il suo sperimentalismo espressivo il G. si pone senz'altro alla retroguardia rispetto agli autori suoi contemporanei (Corti) e sembra risentire più di altri della concezione "socializzata" della lirica che la corte aragonese tendeva a imporre ai suoi protetti, accentuandone le funzioni politico-amministrative a scapito della libertà di espressione personale.
Edizioni: opere del G. si ritrovano nelle seguenti raccolte e monografie: A. Gervasio, Ricerche sugli accademici pontaniani: composizioni di poeti e prosatori volgari con altre notizie, Napoli 1806, ad ind.; Rimatori napoletani del Quattrocento, a cura di M. Mandalari, Caserta 1885, ad ind.; F. Flamini, F. G., gentiluomo napoletano del Quattrocento e il suo inedito Canzoniere, in Giornale storico della letteratura italiana, XX (1892), pp. 1-90; L. Berra, Barzellette e strambotti napoletani del Quattrocento, ibid., LXXXIV (1924), pp. 241-276; G.M. Monti, Le villanelle alla napoletana e l'antica lirica dialettale a Napoli, Città di Castello 1925, pp. 315 s.; F. Torraca, Rimatori napoletani del Quattrocento, in Aneddoti di storia letteraria, Città di Castello 1925, pp. 187 s.; A. Altamura, Testi napoletani del Quattrocento, Napoli 1953, pp. 119-121; G. Cianflone, F. G., strambottista napoletano del '400, Napoli 1955, (in appendice edizione critica di 100 strambotti inediti); M. Corti, Pier JacopoDe Jennaro. Rime e lettere, Bologna 1956, pp. 5 s.; A. Altamura, Rimatori napoletani del Quattrocento, Napoli 1962, ad ind.; G.B. Bronzini, Serventesi, barzellette e strambotti del Quattrocento, Bari 1971, ad ind.; Id., Testi e temi di letteratura popolare, II-III, Bari 1976-77, ad ind.; A. Altamura, Moduli masucciani in una novella inedita di F. G., in Masuccio novelliere salernitano dell'età aragonese, a cura di P. Borraro - F. D'Episcopo, I, Galatina 1978, pp. 139-147; G. Paparelli, Note sulla fortuna del Boccaccio a Napoli nel periodo aragonese, in Il Boccaccio nelle culture e letterature nazionali, a cura di F. Mazzoni, Firenze 1978, pp. 553-561; G.B. Bronzini, Serventesi, barzellette e strambotti del Quattrocento dal codice Vat. lat. 10656, in Lares, XLV (1979), pp. 71-96, 251-262; XLVI (1980), pp. 43-53, 219-237, 357-371; XLVII (1981), pp. 389-403; XLVIII (1982), pp. 213-247, 389-400, 547-570; XLIX (1983), pp. 413-445, 591-618; V. Formentin, Le lettere del "colibeto". F. G., Napoli 1987; F. Galeota, Canzoniere ed epistolario (dal cod. XVII.1 della Bibl. nazionale di Napoli), a cura di G.B. Bronzini, in Arch. stor. per le prov. napoletane, CIV (1986), pp. 17-157; CVI (1988), pp. 33-149.
Fonti e Bibl.: M. Sanuto, I diarii, I, Venezia 1879, coll. 225 s.; G.P. Leostello, Effemeridi delle cose fatte per il duca di Calabria, a cura di A. Miola, in Documenti per la storia, le arti e le industrie nelle provincie napoletane, I, Napoli 1883, pp. 136, 220, 229; I. Toscano, Della vita, virtù, miracoli ed istituto di s. Francesco di Paola, Venezia 1712, pp. 210 s.; P. Napoli Signorelli, Vicende della coltura nelle due Sicilie, IV, Napoli 1810, p. 549; G. Mazzatinti, La biblioteca dei re d'Aragona a Napoli, Rocca S. Casciano 1817, p. LXI; P. Martorana, Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori del dialetto napoletano, Napoli 1864, p. 209; B. Filangieri di Candida Gonzaga, Memorie delle famiglie nobili delle provincie meridionali d'Italia, VI, Bologna 1875, p. 117; E. Percopo, Nuovi documenti sugli scrittori e gli artisti dei tempi aragonesi, in Arch. stor. per le prov. napol., XVIII (1893), pp. 790-812; Id., La prima imitazione dell'Arcadia, Napoli 1894, p. 27; V. Rossi, Il Quattrocento, Milano 1898, p. 498 (cfr. anche la ristampa a cura di R. Bessi, Padova 1992, pp. 739-742 e passim); E. Carrara, La poesia pastorale, Milano 1909, p. 204; M. Vattasso, D'una preziosa silloge di poesie volgari con barzellette e strambotti di rimatori napoletani del Quattrocento, in L'Arcadia, I (1918), pp. 48 s.; A. Mauro, Per la storia della letteratura napoletana volgare del Quattrocento, in Arch. stor. per le prov. napol., XLIX (1924), pp. 201-214; A. Altamura, L'umanesimo nel Mezzogiorno d'Italia, Firenze 1941, pp. 84-86; T. de Marinis, La biblioteca napoletana dei re d'Aragona, I, Milano 1953, p. 49; D. De Robertis, L'esperienza poetica del Quattrocento, in Storia della lett. ital., III, Il Quattrocento e l'Ariosto, Milano 1965, pp. 695 s.; E. Pontieri, Per la storia del regno di Ferrante I d'Aragona re di Napoli, Napoli 1969, pp. 375, 387 s., 437-440; F. Tateo, La letteratura in volgare da Masuccio Salernitano al Chariteo, in La letteratura italiana. Storia e testi, 3, II, Il Quattrocento. L'età dell'Umanesimo, Bari 1972, pp. 513 s.; M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova 1979, pp. 58, 94 s., 180-191, 254-258, 360 s.; L. Facecchia, La tradizione manoscritta dell'epistolario di F. G., in Quaderni dell'Ist. di lingua e letteratura italiana della Facoltà di magistero - Università di Lecce, I (1980), pp. 109-172; P.O. Kristeller, Iter Italicum, I-III, ad indices; Diz. biogr. degli Italiani, XLV, pp. 668-682 passim.