FRUGONI, Francesco Fulvio
Poche sono le notizie certe della sua vita. Nacque a Genova nel 1620 in una famiglia di nobiltà "nuova"; trascorse una parte della sua fanciullezza in Spagna, dove risiedevano alcuni familiari. Alla morte dei genitori tornò a Genova e nel 1637 entrò a far parte dell'Ordine dei minimi di S. Francesco di Paola. Frequentò le università di Alcalá de Henares e di Salamanca, ebbe una particolare ammirazione per Luis de Góngora, il "Cigno acuto e melodioso del Betis", e per Francesco de Quevedo, il "Pinardo delle Spagne". Nel 1639 tornò a Genova; egli stesso ricorda di aver ascoltato l'ultimo discorso tenuto da Agostino Mascardi all'Accademia degli Addormentati: per questa compose LaGuardinfanteide, poema giocoso, che definiva "delirio ingegnoso della sua adolescenza, per non dir fanciullezza secolare", pubblicato a Perugia nel 1643 sotto lo pseudonimo di Flaminio Filauro.
L'argomento di quest'opera è la moda del guardinfante, giunta in Italia dalla Spagna: l'autore scherzosamente rinvia l'uso dell'abito a un peccato d'amore. "Bisogna confessare - egli dice nella prefazione - essere il guardinfante l'antemurale dell'onestà, lo scudo della modestia, perché le donne, con questo si lungo arnese d'intorno, fanno star gli uomini da sé lontano almeno tre braccia".
Anton Giulio Brignole Sale, nominato nel novembre del 1643 ambasciatore della Repubblica genovese in Spagna, lo volle con sé. Al soggiorno iberico alternò viaggi in altri paesi d'Europa, fu certamente in Inghilterra e in Olanda, frequentò la Sorbona, ebbe contatti con la corte del re Sole. Tutto questo contribuì certamente ad arricchire la sua innata curiosità intellettuale. Nel 1644 era a Genova, dove pronunciò un'Orazione a' serenissimi Collegi nelle vigne di Genova il giorno della presentazione di Nostra Signora, pubblicata l'anno dopo (Genova); e ancora nel 1646, nel capoluogo ligure, dovette difendersi da alcune accuse (forse la pubblicazione, anche se sotto pseudonimo, della Guardinfanteide) mossagli dal capitolo generale del suo Ordine. È certamente da riferire al 1649 la sua presenza a Cagliari, dove presentò Il triplicato trionfo. Panegirico sacro per la gloriosa Vergine, e martire s. Cattarina (Cagliari 1650).
Nel 1652 frequentava casa Spinola come amico di famiglia e in breve entrò al servizio di Aurelia Spinola, duchessa del Valentinois, vedova di Ercole [II] Grimaldi - figlio del principe di Monaco Onorato II - morto l'anno precedente: ne divenne consigliere spirituale e politico. La madre della gentildonna si mostrava molto interessata a far convolare a nuove nozze la figlia, contando per questo sull'intraprendenza del Frugoni. In questo ambiente egli poté ben comprendere - e fu molto ricettivo - tutti i segreti dell'alta politica, che in quel tempo anche in un piccolo Stato si potevano cogliere: intrighi per successioni, manovre per alleanze, tutto il repertorio, insomma, per formare un abile consigliere. Del 1653 è il dramma musicale L'innocenza riconosciuta (Genova); nel 1655 vide la luce un'opera intitolata Le vittorie di Minerva overo la virtù: gran balletto di madama la duchessa di Valentinese danzato in Monaco l'anno 1655 (ibid.). Per conto della duchessa il F. si muoveva tra Genova e Monaco, curando i rapporti con il di lei suocero Onorato II. Ma presto i rapporti tra i due si incrinarono, tanto che la stessa duchessa, dopo essersi portata in Piemonte, si trasferì direttamente a Parigi per perorare i suoi diritti di vedova di Ercole II.
La pubblicazione a Venezia della Vergine parigina (1661) contiene riferimenti autobiografici che suscitarono scandalo: il F. venne esiliato da Genova e si trasferì a Parigi.
L'esperienza vissuta in prima persona offre spunti e considerazioni per quest'opera che vuole celebrare in Aurelia, principessa di Francia secondo il martirologio gallicano, il mito della donna perseguitata ma nobile e pura. I genitori vogliono Aurelia sposa di Eluviano principe di Francia, ma il regno al quale aspira la giovane non è di questo mondo e per questo lascerà "lo sposo, la patria e i genitori". Per questo soffrirà e saprà macerare il proprio dolore; la penitenza serpeggerà sul volto "co' suoi smortigni pallori", la modestia la ricolorirà "col bel vermiglio de' suoi redivivi cinabri", e se con il digiuno saprà pascersi, si sfamerà "con la contemplazione dell'eterna vita". Non è difficile cogliere i motivi sensuali di questa religiosità molto passionale. L'"adorato suo crocefisso" e quell'"amabil costato del suo ferito amatore" richiamano le forti espressioni berniniane della S. Teresa, così come i monologhi rinviano alla teatralità sacra, se non alle prediche declamate nella settimana santa. Nell'emblematico conflitto fra bene e male, tipico del romanzo agiografico barocco, si può cogliere la visione drammatica del mondo con toni cupi e dolorosi.
Il F. giunse a Parigi nel dicembre del 1661. La morte di Onorato II, avvenuta di lì a pochi mesi, risolse i problemi per i quali la duchessa e il F. si stavano battendo. Aurelia infatti ereditò i beni di casa Spinola e lo stesso F. non faticò molto a pervenire a un accordo con il primogenito della duchessa, che divenne principe di Monaco. Nell'autunno del 1663 Aurelia si portò a Genova, ma per l'esule F. il viaggio si dové interrompere a Torino. Durante il soggiorno piemontese pubblicò due libri nello stesso anno (1666): un'opera di carattere agiografico intitolata Del sagro Trimegisto descritto nella vita di s. Massimo vescovo di Riez, e il lavoro encomiastico l'Accademia della Fama, dedicato alla dinastia sabauda.
Non resistette a lungo nella città subalpina, nonostante l'amicizia e la frequentazione quasi quotidiana con Emanuele Tesauro; si trasferì in Provenza e successivamente risiedette a Piacenza e Parma, per approdare infine a Venezia. Nel 1668 un altro testo agiografico vide la luce nella città lagunare, debito di riconoscenza al suo maestro spirituale: Fasti del miracoloso s. Francesco di Paula. Nel 1669 vi furono stampate altre due opere: il poema epico La Candia angustiata, presentata al Senato veneto il 6 maggio, e i due volumi dei Ritratti critici. Ad autunno inoltrato una lettera della duchessa, ammalata, lo richiamò in Provenza. Le condizioni della nobildonna sembrarono migliorare con la buona stagione, ma il 29 sett. 1670 Aurelia Spinola morì. Il F. si trasferì dapprima a Milano, dove rimase per quasi tutto il 1671: poi si spostò a Piacenza. Nel 1672 da Genova gli giunse la revoca della proscrizione.
Nel 1673 vide la luce a Venezia L'heroina intrepida, una biografia romanzata della nobildonna che aveva tanto condizionato la sua vita.
In quattro tomi l'autore descrive minuziosamente, quasi momento per momento, la vita di Aurelia. L'autore entra in colloquio diretto con il lettore. Già nell'introduzione dichiara programmaticamente che egli scriverà un "romanzo verace", una sorta di equilibrio tra prosa d'arte e prosa storica, con una chiara volontà di insegnamento per il lettore. A parte le lungaggini, a volte esasperate (sessanta pagine per la nascita dell'eroina), l'opera meriterebbe una maggiore attenzione rispetto a quella che la critica ha fino a oggi offerto.
Sempre a Venezia nel 1675 venne pubblicato il melodramma, con l'aggiunta di riflessioni morali, L'epulone, abbozzato a Aix ma scritto durante il soggiorno piacentino; nel frontespizio il F. si diceva "consultor e qualificatore del S. Officio" (in C. Sartori, I libretti italiani a stampa dalle origini al 1800. Catalogo analitico…, Cuneo 1991, p. 36 n. 8972). La gotta stava massacrando il suo corpo, eppure in questa condizione di sofferenza il F. lavorava indefessamente a un'opera che ne avrebbe consacrato la fama universale; l'ambiente veneziano, modello di libertà intellettuale, era l'ideale per la prosa narrativa del Cane di Diogene su cui si stava impegnando il Frugoni. Nel 1678 venne pubblicato il Rito di praticare la divozione dei tredici venerdì.
Il F. morì a Venezia nel 1686, senza poter vedere stampato Il cane di Diogene, che fu pubblicato a Venezia in sette volumi tra il 1687 e il 1689.
L'autore avvalendosi "della cinica Libertà, propria di quel filosofo, che si diceva per vezzo, ma più per vanto, Morditor de i Tristi e Lambitore de i Giusti", dà la caccia a tutti i vizi. La filosofia di Diogene viene congiunta con la legge di Cristo per correggere il mondo, mediante le armi dell'ironia. Attraverso l'interpretazione che il cane fa del mondo l'autore mostra di disprezzare ogni cultura. Lo fa in dodici racconti. Gli scienziati, i poeti, i filosofi sono degli abitudinari, utilizzano immagini inventate da altri, imitano il già inventato, si servono di inutili fantasie. Il mondo della cultura, antico e moderno, offre di sé un quadro desolante. Di certo c'è solo l'"ingegno" dell'uomo, che Dio, tra le molte apparenze, ha messo nel mondo; e per il F., innanzitutto di ingegno c'è il suo. Nel suo moraleggiare il F. sa anche essere abile nella vendetta nei confronti dei suoi nemici. Il cane di Diogene si può considerare la sintesi delle opere precedenti: la visione del mondo che traspare è quella di un cammino tragico verso l'al di là costellato di drammatica confusione, di evidente contraddizione, una sorta di gioco delle maschere ante litteram; e su tutto incombono il tempo che inesorabilmente trascorre e la morte. Sul piano stilistico gli artifici retorici vengono utilizzati in modo straripante, segno di un'acquisita maturità di registro. Abbondano le arguzie intellettualistiche, le neoformazioni, le correlazioni sintattiche e ritmiche. Particolarmente interessante sul piano del gusto del tempo e delle opinioni letterarie del Seicento è la sezione speciale, intitolata "Il tribunal della critica", dedicata ai vizi degli scrittori. Al vertice dei poeti italiani c'è Tasso, del suo secolo i maestri sono Bartoli, Ciampoli, Mascardi, Marino. Dante è un "autore abolito perché di stampa antica e di frase oscura"; Petrarca se fosse vissuto nel Seicento si sarebbe adeguato "al genio dilicato di un secolo, il quale non ama le composizioni senz'ornamento", e Boccaccio se leggesse quel che si scrive ora "boccheggerebbe dallo stupore".
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