FRACANZANO, Francesco
Figlio di Alessandro ed Elisabetta Milazzo, fratello minore di Cesare, nacque a Monopoli, in terra di Bari, il 9 luglio 1612. Trasferitosi a Napoli con la famiglia nel 1625, si sposò nel 1632 con la sorella di Salvator Rosa, Giovanna. Sempre a Napoli, secondo la testimonianza del De Dominici, si formò con il fratello nella bottega di G. Ribera.
Le prime opere datate (1635) sono le tele della cappella di S. Gregorio Armeno nell'omonima chiesa napoletana, raffiguranti Scene della vita del santo, completate nella parte superiore da due lunette raffiguranti Episodi del martirio del santo.
La ricchezza dei riferimenti culturali, non riconducibili esclusivamente all'esperienza riberiana, ha indotto la critica a ipotizzare che queste opere rappresentino il punto d'incontro del riberismo con le più moderne correnti fiamminghe di indirizzo vandyckiano e pertanto vadano considerate successive ai tentativi di marca più strettamente naturalistica. Alla fase iniziale del pittore sono stati, pertanto, ricondotti quei dipinti in cui il F. mostra di integrare la componente riberiana con il riferimento a quel gruppo di "indipendenti", attivi nel solco della tradizione di più autentico naturalismo: Filippo Vitale, Giovanni Do, il Maestro degli Annunci ai pastori, Bartolomeo Bassante.
Va probabilmente indentificato con il F. il cosiddetto Maestro del Gesù tra i dottori. Nel dipinto più significativo, che dà il nome al maestro (Torino, coll. privata), è possibile, infatti, individuare quella materia grumosa e densa, caratteristica della produzione giovanile del pittore, che il Dalbono definì "a tutto impasto", in riferimento all'"uso del colore denso, che sembra quasi un potente mastice, che a stento il pennello riesce a spalmare" (lettera del 14 ag. 1906 a G. Gabbiani: Vista, 1907). Alla produzione iniziale del F. vanno pertanto ascritti, per omogeneità di caratteri compositivi e per una sostanziale adesione al "tremendo impasto" di matrice riberesca, l'Uomo che legge del Museo provinciale di Lecce, il Gesù tra i dottori della quadreria del Gesù Nuovo, il Ritorno del figliuol prodigo, Lot e le figlie della cattedrale di Monopoli, alcuni degli Apostoli, conservati presso il convento di S. Pasquale a Taranto, e il cosiddetto Ritratto di Ludovico Carducci Artemisio (già in casa Carducci Artemisio a Taranto e ora nella collezione di famiglia a Roma).
Dal Sileno ebbro del Ribera, e quindi dalla rivisitazione in termini naturalistici delle tematiche mitologiche, avviate dal maestro valenzano, derivano il Baccanale del Fogg Art Museum di Cambridge e il Sileno ebbro del Prado di Madrid, nel quale la corposità materica sottolineata dal vigoroso effetto luministico si accompagna a un più acceso cromatismo, sostenuto dal caratteristico arrossamento dei volti. Tale rilettura del tema bacchico, operata anche in risposta a proposte di ambito riformato (Battistello Caracciolo…, 1991, p. 271), trovò più organica definizione nel Trionfo di Bacco del Museo nazionale di Capodimonte, nel quale, pur permanendo alcuni passaggi che caratterizzano gli esiti di S. Gregorio Armeno, è evidente l'avvio verso una riconsiderazione degli elementi classicistici, da M. Stanzione a S. Vouet, che diverranno prevalenti nella fase finale della sua attività. Dalla metà del quarto decennio la svolta pittoricistica, determinata dalla sempre più convinta adesione alle proposte di matrice fiamminga, consentirà al pittore, dopo le tele di S. Gregorio Armeno (cui verrà ad aggiungersi il notevole risultato del S.Benedetto per la cappella eponima), di porsi in linea con le preferenze di B. Cavallino, com'è manifesto nella S.Caterina d'Alessandria dell'INPS di Roma, che rappresenta un momento di notevole sintesi compositiva per la capacità di conciliare le più moderne esperienze pittoriche con una cura dei dettagli che rimanda al Vouet per il perlaceo svolgimento del volto e a G. Guarino per l'austero contenimento della forma.
Alle tele di S. Gregorio Armeno rimanda anche la Negazione di s. Pietro, già nella collezione Boblot a Parigi (secondo quanto segnalato dal Longhi nel 1969), per la stringente somiglianza delle figure dei protagonisti, ma anche per il particolare risalto cromatico delle vesti.
A una fase successiva spetta, invece, la tela raffigurante l'Ecce Homo, datata 1647 e oggi nella collezione Morton B. Harris a New York, che rivela come nel corso del quinto decennio si fosse verificata una ripresa di ricerche naturalistiche, condotta con una più marcata asprezza compositiva, che consente di avvicinare tali esiti a quelli che contraddistinguono il Cristo davanti a Caifa in collezione privata a Napoli (Civiltà del Seicento a Napoli, 1984, I, p. 289). Resta problematica la collocazione cronologica di un'opera firmata, quale la tela con i Ss.Antonio abate e Paolo eremita, di S. Onofrio dei Vecchi a Napoli (sulla quale non è più possibile la lettura della penultima cifra della data), vicina alle scelte del fratello Cesare, per la ricercata compattezza della struttura materica, e che dimostra interesse per le formulazioni naturalistiche.
All'ultima fase dell'attività del F. appartiene la Morte di s. Giuseppe per l'Arciconfraternita dei Pellegrini (1652), che testimonia un recupero della coeva traccia guariniana, e comunque un notevole ridimensionamento in chiave classicistica, al punto da indurre il De Dominici a una lunga descrizione e a un entusiastico apprezzamento, ritenendo il dipinto "uno de' migliori, che Adornino la Città nostra, e che servano di esempio a' nostri Professori, per la maniera grande, ed eroica di operare".
Quali ultime tracce della sua attività vanno considerate le opere documentate nel maggio 1656 per il reggente Capece Galeota: una Pietà, già consegnata, e due quadri "da fare", un S.Gerolamo e un S.Giovanni Battista.
Il F. morì di peste nello stesso anno 1656.
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