FONSI, Francesco
Disponiamo solo di pochi lacerti biografici su questo letterato attivo a Siena nella prima metà del sec. XVI, autore di commedie ed egloghe pastorali. Dai frontespizi delle stampe delle sue opere, le cui prime edizioni uscirono a Siena tra il 1519 e il 1524, ricaviamo alcuni dati, come ad esempio l'epiteto di "Castiglionese", che però lascia indeciso il luogo d'origine tra le varie località della Toscana con questo nome.
Il titolo di "maestro" indica la qualifica di dottore in medicina, che il F. doveva avere conseguito a Siena in anni di poco anteriori, se viene presentato come "docto giovane" o "docto et discreto giovane". L'estrazione colta sarebbe confermata, a meno di un caso di omonimia, dalla presenza di un sonetto a firma del F. nella stampa senese del 1520 del poemetto di carattere scientifico in terza rima Physionomia, opera di un "Laurentio Fonso Castiglionese, poeta laureato", evidentemente imparentato con il F.: al sonetto, che ha per oggetto le lodi dell'autore e dell'opera, se ne accompagna un altro, di analogo tenore, sottoscritto "Ser Felice Castiglionese", di modo che la pubblicazione pare testimoniare un sodalizio intellettuale fiorito all'ombra dello Studio senese a consolidamento di preesistenti legami familiari e di cittadinanza.
Il catalogo delle opere del F., tutte stampate a Siena, è il seguente: le egloghe pastorali Cinnia e Corilo (1519); la tragedia (divisa in quattro atti, in terza rima) Dispetti d'amore e l'egloga Leonida (1520); la Veglia villanesca, l'egloga pastorale Appetito vario, le commedie in moresca (cioè rappresentazioni che prevedevano brani musicati e cantati eseguiti in forma di danza figurata) Lincia e Metà di Venere (1521); l'egloga pastorale Candia (1524). Sempre a Siena, tra il 1531 e il 1561, l'Appetito vario e la Veglia villanesca ebbero ciascuna un'altra edizione; la Cinnia, altre due; mentre la sola Cinnia fu ristampata fuori Siena, con cinque edizioni fiorentine tra il 1548 e il secondo decennio del sec. XVII. Di queste opere è possibile leggere oggi integralmente solo la Cinnia, i Dispetti d'amore, la Veglia villanesca; delle altre, introvabili, restano, con l'eccezione della Candia, gli estratti degli argomenti pubblicati dal Mazzi (II, pp. 289-295), e le schede (II, pp. 86-90) compilate dall'erudito toscano, che vide gli esemplari della biblioteca del marchese Cavriani di Mantova.
Con i limiti dovuti alla conoscenza parziale della sua opera, l'attività del F. si inquadra nella produzione teatrale a Siena anteriore alla costituzione della Congrega dei Rozzi, che regolamentò statutariamente l'attività drammaturgica e recitativa nella città toscana. Dei pre-Rozzi il F. fu quello "più saldamente radicato nella città" (Valenti, p. 71). L'orizzonte municipale o regionale della sua fortuna fu condizionato anche dal fatto che, come si evince dagli argomenti conservati, egli non unì all'attività drammaturgica quella recitativa, rimanendo estraneo alla messa in scena delle sue opere, che pertanto non usufruirono della promozione legata all'affermarsi sulla scena di una forte personalità teatrale, dotata di vocazione e del necessario mestiere per imporre con efficacia il repertorio. Oltre a confermare l'estrazione culta del F., rispetto a contemporanee figure di drammaturghi-attori quali Bastiano, lo Stricca Legacci, il Mescolino, lo Strascino, artefici della fortuna del teatro senese nella penisola, questo elemento spinge a circoscrivere per lui l'esercizio teatrale entro i limiti di un ispirato dilettantismo, orientato a fornire una rielaborazione scenica di quegli intrattenimenti festivi e conviviali - carnevale, matrimoni, veglie, maggi - che costituivano una prima forma spontanea di teatralità e di sublimazione delle convenzioni sociali. È osservazione del Valenti (p. 72) che tutte le opere del F. sono ambientate in situazioni festive (in tempo di carnevale è collocata la tragedia, le egloghe si concludono tutte con uno o due matrimoni) o conviviali (la Veglia villanesca), offrendo in entrambi i casi il pretesto per inserire nella pièce canti, giochi, danze, recitazione di versi.
Nella Veglia villanesca, il F. descrive senza falsi pudori gli intrattenimenti di un gruppo di giovani del contado, cinque giovani e tre fanciulle, intenti ad organizzare ed a celebrare una veglia. Il divertimento per il pubblico cittadino cui era destinata la rappresentazione sarà consistito precisamente nel cogliere gli aspetti comici che assumeva questo intrattenimento immerso in una cornice villereccia; ma il F. rinuncia a tratti stereotipi, dotando i personaggi di una psicologia differenziata e di doti autoironiche, che impediscono di degradare i personaggi a semplice trastullo burlesco di un pubblico urbano. Le giovani ad esempio, per le quali il F. all'epiteto consueto di "villane" preferisce quello più leggiadro di "giovani contadine", presentano caratteri pronunciati e un atteggiamento concreto e spigliato che non ha nulla a che fare con il ruolo subalterno e passivo delle figure femminili della commedia regolare. Inoltre, a proposito delle strategie sceniche messe in atto dall'autore, la rassegna di giochi che i personaggi sciorinano prima in attesa dei musicanti, poi nuovamente dopo il ballo, è intervallata dalla recita a turno di sei strambotti, popolarissima forma di intrattenimento conviviale nel Cinquecento; e il copione prevede a questo punto che il pubblico si unisca agli attori, recitando versi all'improvviso. Più avanti, quando i giovani inscenano il gioco dell'"a proposito", che consiste nel pronunciare parole a catena ciascuno nell'orecchio del vicino per vedere il risultato finale, è previsto che il gioco prosegua "fuor di commedia" e che chi vuole palesi quello che ha detto.
Lo stile realistico e anticaricaturale nella rappresentazione della realtà del contado è costante dei teatro del F., che per questa peculiarità si distacca dal resto della produzione dei pre-Rozzi, fornendo un ritratto sociologicamente non convenzionale di questo mondo. Nell'opera più fortunata del F., la Cinnia, il paesano Grillo, pure lui "contadino" e non "villano". consegna la sua comicità, oltre che al particolare erudito dei nome (Grillo è il compagno di Ulisse che chiede a Circe di essere lasciato in fattezze suine invece di riacquistare aspetto umano; è personaggio eponimo di un dialogo di G.B. Gelli), al carattere buffo e vanesio, ma senza aspetti deteriori e ordinari; né il suo amore per Beca offre materia per un contraltare grottesco dell'amore aulico dei pastori. Anzi, con i due pastori presenti nell'egloga, Fortunato e Curio, Grillo condivide senza soggezione motteggi e sentimenti seri, preoccupazioni quotidiane e più astratte considerazioni sulla vita dell'uomo.
La commedia in moresca Pietà di Venere presenta un'analoga novità strutturale, dato che il tradizionale schema dell'amore pastorale infelice tra pastori e ninfe, nel quale la figura del villano si inserisce solo come intermezzo comico, è variato in maniera che i protagonisti della relazione amorosa diventano ora le ninfe e i villani, autorizzando non tanto l'intrusione di elementi realistici nella trama (comunque presenti), quanto una lettura allegorica che, secondo il filone illustre della poesia pastorale che il titolo sembra evocare, proponga Amore come forza redentrice dell'uomo da uno stato di primitiva barbarie.
Questi elementi rivelatori di una mentalità fine e non convenzionale, sulla quale forse non fu ininfluente l'estrazione provinciale del F., tradiscono indubbiamente un approccio culto al meccanismo scenico (testimoniato del resto dalle varie memorie classiche che vi si riscontrano, a cominciare dall'onomastica), e contribuiscono a spiegare oltre alle ragioni già dette, i motivi dell'esigua fortuna del suo teatro, il quale si mostra fisiologicamente inadatto ad accogliere le convenzioni della commedia restituta rinascimentale, dove tipizzazione dei personaggi, schematismo della dialettica sociale, convenzione della quarta parete, complicazione dell'intreccio, virtuosismo della parola sono ingredienti costitutivi e obbliganti.
Fonti e Bibl.: La bibliografia completa del e sul F. si legge in C. Valenti, Comici artigiani. Mestiere e forme dello spettacolo a Siena nella prima metà del Cinquecento, Modena 1992, pp. 70-73, 245-263; le schede sulle opere e brani di esse sono pubblicate in C. Mazzi, La Congrega dei Rozzi di Siena nel secolo XVI, Siena 1882, II, pp. 86-90, 289-295.