Francesco Ferrara
Lungo la sua esistenza, intensa e avventurosa, Francesco Ferrara ha avuto un ruolo di grande importanza nella crescita dell’economia politica in Italia. Patriota, giornalista, docente universitario, artefice della Biblioteca dell’economista, protagonista dell’associazionismo economico, ha ricoperto importanti incarichi pubblici nell’Italia postunitaria fino a diventare ministro delle Finanze nel secondo governo Rattazzi (1867). La sua attività scientifica si è sviluppata soprattutto nei due decenni di transizione fra il declino della scuola classica (1848) e l’affermazione del marginalismo (1870). È soprattutto in questo arco di tempo che Ferrara ha elaborato un sistema teorico in contrasto con quello ricardiano, anticipando molti risultati della stagione marginalista e introducendo elementi di forte originalità valorizzati solo in tempi più recenti.
Francesco Ferrara nasce a Palermo il 7 dicembre 1810. Esponente di spicco del laboratorio palermitano che si forma negli anni Trenta presso la Regia accademia di scienze, lettere e arti, è protagonista della fondazione del «Giornale di statistica», principale organo della propaganda liberale e riformista siciliana. Diretto con Emerico Amari (1810-1870), Raffaele Busacca (1810-1893), Vito D’Ondes Reggio (1811-1885) e Francesco Paolo Perez (1812-1892), il periodico ospita i suoi primi lavori dedicati a questioni metodologiche e alla critica delle politiche assistenzialiste e protezioniste.
Impiegato della Direzione centrale di statistica e direttore del «Giornale di commercio», Ferrara si schiera tra le file dei giovani liberali nel decennio che precede la Rivoluzione del 1848 e vive da protagonista l’esperienza dei moti: è il celebrato autore, nel dicembre 1847, della Lettera di Malta che infiamma la reazione popolare contro i Borboni; è membro del Comitato rivoluzionario e del Parlamento siciliano, partecipando al dibattito sullo Statuto; fonda «L’Indipendenza e la Lega», e sostiene un coraggioso programma costituzionalista e federalista; fa parte, nel luglio 1848, della delegazione siciliana che offre la Corona di Sicilia al Duca di Genova, stringendo importanti relazioni con Cavour e i principali protagonisti del Risorgimento piemontese.
Condannato dopo la restaurazione all’esilio in Piemonte, Ferrara risiede fino al giugno del 1859 a Torino dove è professore di economia politica all’università e direttore delle prime due serie della Biblioteca dell’economista, edita da Pomba dal 1849 (L’economia divulgata, 2007; Barucci 2009). Quest’impresa editoriale è la più vasta operazione di divulgazione della letteratura economica internazionale mai realizzata in Europa fino a quel momento e gli offre l’occasione di elaborare ‘prefazioni’ di alto valore teorico sui diversi ambiti della scienza economica.
Molte energie vengono impiegate in quel periodo dal giovane economista per collaborare a organi di stampa: gli anni dell’esilio lo vedono contribuire a «Il Risorgimento», e fondare «La Croce di Savoia» e «L’economista di Torino». La lotta ai monopoli e ai privilegi rappresenta l’elemento che unifica queste esperienze pubblicistiche. La difesa incondizionata della libertà economica e politica è invece il punto focale, analitico e retorico, intorno a cui conduce campagne giornalistiche su tematiche assai diverse della vita economica e politica – dalla forma del governo ai rapporti fra Stato e Chiesa, dalle riforme economiche al funzionamento delle principali istituzioni (Faucci 1995; Simon 2008).
Altrettanto intensa è l’attività di insegnamento che svolge soprattutto a Torino fra il 1849 e il 1859 quale successore di Antonio Scialoja. Ferrara è incaricato di tenere un corso ‘completivo’ di perfezionamento per laureati in legge, che organizza, in una prima fase, con cicli di lezioni dal taglio prevalentemente monografico e, successivamente, secondo un programma biennale più organico e suddiviso in quattro parti dedicate allo studio dell’«economia individuale», dell’«economia sociale», dell’«economia internazionale» e dell’«arte economica». Le lezioni di Ferrara sono pubbliche e, almeno inizialmente, di grande successo, essendo frequentate da Cavour e da altri esponenti di spicco della classe dirigente piemontese. Le sue ‘prolusioni’ hanno grande diffusione presso l’opinione pubblica e alcuni corsi si distinguono per la loro originalità nel metodo, nella struttura espositiva, nella scelta degli argomenti, dedicati a illustrare i fenomeni della finanza pubblica, della moneta, dell’economia internazionale. Tuttavia, anche quest’esperienza si conclude in modo traumatico, con le dimissioni dalla cattedra per le critiche che egli rivolge contro il governo piemontese, colpevole di aver tradito i principi liberali a cui aveva inteso ispirarsi.
Trasferitosi per un breve periodo all’Università di Pisa (1859), Ferrara conclude la sua esperienza di docente a Venezia dove viene chiamato nel 1869, su proposta di Luigi Luzzatti, alla direzione della nuova Scuola di commercio. A Ca’ Foscari, i suoi occasionali contributi all’insegnamento non gli impediscono di valorizzare la ripresa della tradizione ragionieristica italiana e l’affermazione di giovani economisti liberisti, da Luigi Bodio a Maffeo Pantaleoni.
Dopo una breve permanenza a Palermo di poco successiva alla spedizione dei Mille, torna a Torino e all’impegno attivo nella politica e nel giornalismo. I giudizi fortemente critici sul processo di unificazione nazionale non gli impediscono di prestare un’opera di collaborazione alla costruzione dello Stato unitario. Chiamato da Quintino Sella a dirigere l’ufficio delle imposte e come consigliere della Corte dei Conti, Ferrara si avvicina allo statista piemontese con sospetto. Tuttavia, l’animo del patriota ha il sopravvento su quello del federalista deluso e Ferrara collabora con Sella partecipando, fra il 1862 e il 1865, alla stesura dei provvedimenti fondamentali di riforma fiscale, dall’imposta sulla ricchezza mobile alla tassa sul macinato. Le forti critiche rivolte a Scialoja sulla questione dell’alienazione dei beni ecclesiastici gli valgono, probabilmente, la nomina a ministro delle Finanze nel governo Rattazzi nell’aprile 1867.
Nel suo programma l’obiettivo dell’equilibrio finanziario è condizionato dal successo di una politica di controllo della spesa da attuarsi con provvedimenti di finanza straordinaria (la liquidazione dell’asse ecclesiastico), ma anche con l’istituzione di un graduale fondo di ammortamento per assorbire la circolazione a corso forzoso. Quest’ultimo appare all’economista siciliano dannoso politicamente perché rafforza i poteri degli istituti di emissione concedendo privilegi e fonti aggiuntive di rendita che alimentano corruzione e sprechi. Criticato per la convenzione con la casa bancaria Erlanger Schroeder, a cui voleva affidare la gestione dei rapporti finanziari fra Stato e Chiesa, Ferrara rassegna le dimissioni da ministro in occasione della presentazione della propria relazione finanziaria. Deluso sia dalla Destra sia dalla Sinistra abbandona presto la scena pubblica e, anche dopo la nomina a senatore del Regno nel 1881, non si lascia più coinvolgere nell’agone politico nazionale.
Gli ultimi anni della sua vita professionale lo vedono impegnato nella direzione della Scuola di Venezia, nella fondazione della Società di economia politica (1868) e della Società Adamo Smith (1874), nella collaborazione a nuove prestigiose testate quali la «Nuova antologia» e «L’economista» di Firenze. Il suo impegno come promotore dell’associazionismo economico in Italia si dispiega nel favorire la diffusione dei principi dell’economia politica e il rafforzamento della sua presenza nell’insegnamento scolastico e universitario.
Muore a Venezia il 22 gennaio 1900. Le sue spoglie riposano, con quelle di altri siciliani illustri, nella Chiesa di San Domenico a Palermo.
Riccardo Faucci (1995) ha osservato che Ferrara è stato un «economista scomodo» non solo per i tanti aspetti controversi legati alla sua biografia intellettuale, ma anche per la difficile collocazione teorica non agevolmente inquadrabile in una precisa scuola di pensiero.
Ferrara fu critico inflessibile della teoria classica di derivazione ricardiana. La sua sfida al pensiero economico dei grandi economisti inglesi ha premesse filosofiche, oltre che di metodo, che lo portano ad abbandonare ogni pretesa di individuare categorie oggettive e a porre la natura umana al centro della riflessione e dell’indagine economica. La stessa tripartizione dell’economia introdotta da Jean-Baptiste Say viene respinta perché esclusivamente incentrata sugli atti economici e non sulla «causa efficiente dell’atto, cioè l’uomo» (J.B. Say, 1855, in Opere complete, 2° vol., Prefazioni alla Biblioteca dell’economista, a cura di B. Rossi Ragazzi, 1955, p. 558). Il suo sistema teorico si fonda, invece, su una metodologia che parte dall’introspezione delle sensazioni, dei processi di conoscenza, della volontà umana.
La definizione dell’oggetto della scienza economica prende le mosse da questa prospettiva e Ferrara conia l’espressione «economia umana» che preferisce a quella tradizionale di economia politica. Il «fenomeno economico» va inteso come quell’atto riferibile all’uomo e al quale questi prende parte volontariamente allo scopo di placare un bisogno; la sua essenza è la trasformazione che l’individuo impone alla realtà per trarne un vantaggio; il motore dell’agire economico è la capacità razionale che elabora gli impulsi dei sensi, concepisce il bisogno, comprende cosa potrà placarlo, individua il modo più opportuno per farlo e delibera come attuarlo. In conseguenza, la sfera d’azione dell’economista è assai estesa e destinata ad ampliarsi nel tempo. Al centro si trovano i fenomeni consueti del commercio, della produzione e della tassazione ma anche quelli del diritto, della politica, dell’arte, della religione, nei limiti in cui soddisfano un bisogno e comportano un travaglio da parte dell’uomo (Asso, Simon 2005; Simon 2008). «Simmetria» e «unitarietà» nell’analisi rappresentano regole che lo avvicinano molto agli autori marginalisti mentre, al contrario, era
inesorabilmente condannata a fallire quella economia politica che spiega con una legge il modo in cui si formino le ricchezze, con un’altra il modo in cui si ripartiscano, con una terza il modo in cui si consumino (Lauderdale, 1854, in Opere complete, 2° vol., cit., p. 334; Barucci 2009).
L’approccio di Ferrara nega l’esistenza di una differenza tra materiale e immateriale tipica dell’economia classica in quanto il fenomeno economico verte sempre sulla materia sia quando essa è oggettivamente visibile sia quando è meno percepibile, come la soddisfazione che si trae dai servizi, dall’arte o dalla cultura. L’elemento rilevante è lo scambio tra la razionalità individuale e il mondo esterno, incluso lo stesso organismo umano. Anche l’idea di ricchezza perde di oggettività e finisce per coincidere con il «complesso de’ mezzi di cui ci si serve nel soddisfare a’ propri bisogni» (Prolusione al corso di lezioni di Pisa dell’anno 1860, inedito rinvenuto presso la Società siciliana di storia patria, Sala Lodi 55 VI; cfr. Asso, Simon 2005).
Alla stregua dei classici anche per Ferrara il valore rappresenta la pietra miliare della teoria economica. Tuttavia, egli segue un orientamento soggettivo andandone a ricercare il fondamento nella manifestazione dei giudizi mentali, dell’intelligenza del genere umano. Ciò lo porta a escludere l’esistenza di una contrapposizione fra valore d’uso e valore di scambio e a superare l’antagonismo fra classi sociali che aveva sostenuto lo sviluppo del pensiero socialista. Nei suoi scritti degli anni Cinquanta compaiono molti elementi che costituiranno l’essenza della teoria neoclassica del valore: l’esigenza di una maggiore generalità, l’approccio soggettivista centrato sull’analisi delle scelte individuali, l’importanza della componente psicologica nel determinare il comportamento umano, il superamento dell’antitesi fra i diversi fattori produttivi.
Ferrara, pur senza riuscire a formalizzarli, perviene a una formulazione dei principi dell’utilità marginale decrescente e del costo marginale crescente. Esemplare è la sua analisi dello scambio che avviene quando il prezzo di ciò che si desidera acquisire è considerato dall’individuo inferiore al suo «costo di riproduzione»: questo originale concetto, che anticipa quello jevonsiano di disutilità, deriva dalla valutazione che l’individuo dà dei sacrifici necessari a procurarsi il bene attraverso la produzione oppure acquisendo beni surrogati. Il processo di scambio avviene «a tentoni» fino a quando non si determina un equilibrio sulla base dei reciproci costi di riproduzione dei due scambisti (Perri, in Francesco Ferrara e il suo tempo, 1990; Faucci 1995).
La stessa analisi viene estesa per comprendere il fenomeno della distribuzione del prodotto. Nuovamente David Ricardo è il bersaglio principale: la rendita non è un surplus non guadagnato ma dipende dai diversi costi di riproduzione dei terreni e dalla condizione di relativa scarsità di quelli più produttivi. La conclusione che il sistema tenda verso una ferrea contrapposizione fra lavoro e capitale impedisce di comprendere la vera natura del progresso: infatti il corso della storia avrebbe «naturalmente» contribuito a ridistribuire in senso egualitario le ricchezze attraverso una riduzione dell’incertezza e un generale miglioramento delle conoscenze e della loro diffusione nei diversi strati della società. Ferrara è vicino all’approccio neoclassico anche per la convinzione che la partecipazione dell’individuo al benessere sociale dipenda dal contributo che egli vi apporta. I requisiti per prendere parte al consorzio sociale sono il lavoro e la proprietà, indipendentemente dalla loro apparente materialità. La «potenza appropriatrice», presente dalla nascita in ogni individuo, è istinto insopprimibile e il possesso che ne consegue è un fatto che solo successivamente si trasforma in un diritto e ottiene una sanzione giuridica. Individuando nella proprietà il dispiegarsi di un fenomeno antropologico, Ferrara nega ogni validità alle tesi socialiste di uno sfruttamento legale del lavoro.
L’aspetto soggettivo della teoria ferrariana è determinante anche nel considerare l’estensione dei fenomeni economici e nel suggerire la sua tripartizione in «economia individuale», «economia sociale» ed «economia cosmopolita o internazionale» (J.B. Say, cit., pp. 559-62; Simon, in L’economia divulgata, 2007). Anche questa distinzione è fondata su un criterio di osservazione che prende le mosse dallo studio dell’uomo, che è l’unico vero artefice dei fenomeni economici, e che giunge gradualmente a comprendere forme di aggregazione sociale e politica sempre più complesse create dagli individui.
Sempre presente in Ferrara è anche il rifiuto di una divisione ad hoc fra economia pura ed economia applicata che lo indurrà a criticare aspramente un autore come Pellegrino Rossi ma anche a diffidare di economisti come Luigi Luzzatti, Fedele Lampertico o il suo allievo Paolo Boselli. La suddivisione tra «scienza» e «arte», adottata nei suoi corsi universitari, non va intesa come una separazione netta tra ambiti di riflessione indipendenti, ma come una ripartizione metodologica che non comporta discontinuità.
Per il liberale Ferrara compito dell’economista è costruire una teoria economica dello Stato. Egli può essere reputato il fondatore della scuola italiana di finanza pubblica avendo dedicato a questo tema una parte importante del suo corso inaugurale a Torino e continuando a riscuotere, un secolo più tardi, importanti riconoscimenti internazionali. Originale è l’approccio che egli sceglie per analizzare le relazioni fra governo e cittadini, riconducendole al criterio universale della divisione del lavoro all’interno della società e dello scambio fra l’utilità derivante dalla produzione di beni pubblici e l’acquisizione del consenso elettorale. Ferrara identifica lo Stato «in una classe di produttori addetti a procurare quella tale utilità che si chiama giustizia, ordine, tutela, in una parola, governo», producendo quindi «utilità» che verrà misurata e valutata da «colui che la compri e la consumi, la nazione» (Opere complete, 8° vol., Articoli sui giornali e scritti politici, a cura di R. Faucci, 1976, p. 358).
Se dunque la legittimità dello Stato o del governo possono dirsi fondate sul criterio della produzione di utilità, piuttosto che su quello dell’autorità, l’economia si candida a divenire scienza in grado di studiare l’operato delle istituzioni e del personale politico. La genesi del potere statale è ricondotta alla capacità razionale di calcolare i costi e i benefici della vita sociale e di comprendere il vantaggio di associarsi. La prima e più semplice forma di associazione si realizza attraverso la divisione del lavoro e lo scambio di mercato. La seconda, che tramite il «lavoro associato» stabilisce legami più duraturi, prevede la cooperazione tra individui per scopi comuni e culmina nella nascita della famiglia, delle imprese, delle chiese e in ultimo delle istituzioni politiche. Lo Stato è dunque una realtà associativa e si differenzia dalle altre solo funzionalmente e non per una qualche superiorità etica.
Nel 1849 Ferrara elabora un’originale teoria dell’imposta ottima, definita come «il prezzo, ed un tenuissimo prezzo, di tutti i grandi vantaggi che a ciascheduno di noi lo Stato sociale, lo Stato organizzato presenta» (Opere complete, 12° vol., Lezioni di economia politica, a cura di P.F. Asso, P. Barucci, 1992, p. 247). Come osservò Luigi Einaudi, la filosofia ferrariana dell’imposta può essere tutta riassunta nel chiedersi, come egli fa, se «il consumo sostituito sia più o men produttivo del consumo impedito» (p. 322; Einaudi 1953, p. 37). Naturalmente, sia lo Stato economico sia l’ottima imposta rappresentano finzioni ideali e, nella realtà, il governo utilizza le leggi per favorire artatamente l’interesse di gruppi ristretti confidando nell’illusione finanziaria o nell’ignoranza. In opposizione all’imposta ottima, Ferrara definisce il caso dell’imposta «taglia», che successivamente sarebbe stata al centro degli studi sugli effetti della tassazione di Pantaleoni. Più che al ragionamento teorico qui Ferrara si richiama alla storia e alle numerose società dove invece «l’imposta è il capriccio e l’abuso, da un lato; dall’altro è la schiavitù, l’oppressione» (Opere complete, 12° vol., cit., p. 248). L’analisi dei fenomeni finanziari pubblici richiede, dunque, un’opportuna integrazione fra un approccio razionale e contrattualistico e un metodo maggiormente fondato sulla storia, sulla politica e sulla conoscenza della società e quindi più adeguato a comprendere le distorsioni del sistema rappresentativo.
Originale è la trattazione dell’economia internazionale. Il fenomeno economico anche a livello sovranazionale si dispiega attraverso forme associative e queste possono realizzarsi con la soppressione della potenza appropriatrice di un popolo, di una razza, di una regione, oppure con pacifiche convenzioni e trattati tra nazioni. Ferrara introduce nuovamente elementi in parte estranei al tradizionale campo di indagine dell’economia quali la schiavitù, le emigrazioni, il colonialismo, le fiere, i mezzi di comunicazione. Ognuno di questi rappresenta un possibile modo che l’umanità ha sperimentato per integrarsi. Alcuni sono fondati sulla violenza e hanno arrecato danni economici ben maggiori degli apparenti vantaggi. Altri, come il telegrafo, la migrazione del lavoro o la nascita delle federazioni hanno favorito il progresso e la diffusione delle conoscenze. È qui che si registra l’unico aspetto di forte convergenza con la scuola classica che ha ispirato politiche antiprotezioniste che egli sempre difese.
Alla libertà Ferrara consacra la sua vita e nell’adesione al liberalismo individua il criterio per giudicare economisti e scuole di pensiero. È una visione della scienza economica inflessibile e manichea che procede distinguendo gli autori che difendono la libertà da quanti la negano o ne mettono in discussione qualche aspetto fondamentale. Solo ai primi viene concesso di essere ascritti nella selezionata schiera degli economisti e anche tra essi non tutti vantano eguali meriti (Roggi, in L’economia divulgata, 2007). Questo severissimo giudizio lo porta a criticare anche chi ha sostenuto il liberalismo senza solide e profonde premesse filosofiche. Una critica che, tranne rari casi come Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy e Frédéric Bastiat, investe molti economisti senza risparmiare i classici e lo stesso Say, i quali, pur avendo proclamato verità universali come la libertà doganale e la concorrenza, non hanno saputo sancire quell’inscindibile legame che unisce tutte le libertà fino a comprendere anche la sfera della politica e della morale. Dissenso viene espresso anche verso John Stuart Mill (Schema di una nota sul libero arbitrio, 1859, inedito rinvenuto presso la Società siciliana di storia patria, Sala Lodi 55 I; cfr. Asso, Simon 2005) il cui limite è avere concentrato l’attenzione esclusivamente sulla libertà civile e sulle garanzie che devono tutelarla dal potere politico. Una prospettiva che, ignorando il libero arbitrio, risulta divergente dalla scienza soggettiva e psicologica di Ferrara. Di conseguenza, occorre partire dall’analisi della libertà nell’uomo isolato, al fine di coglierne l’intima essenza, e poi proseguire giungendo a un livello superiore rappresentato dalla società (Asso, Simon 2005).
Per Ferrara un atto è libero quando presenta tre requisiti: nasce da una volontà manifesta; rientra nella sfera di ciò che è potenziale; sussistono le conoscenze per realizzarlo. L’elemento determinante è la conoscenza che funge da mediazione tra la sfera edonista della vita e la cosciente formulazione delle scelte. Ne è coerente conseguenza la difesa della libera circolazione del sapere e della libertà di insegnamento che contraddistingue la sua attività scientifica e politica. Il liberalismo ferrariano ha dunque presupposti sensisti e utilitari che lo pongono in aperta contrapposizione con quelle dottrine che pretendono che l’uomo libero elabori il proprio volere sciolto da condizionamenti provenienti dall’esterno della sua coscienza.
Intelligenza e libertà sono i due requisiti indispensabili perché gli individui e le nazioni possano accedere allo sviluppo. Per Ferrara il progresso è insito nei fatti umani e nel fenomeno economico e anche il processo di trasformazione è una forma elementare di evoluzione: da un bisogno che emerge si perviene, attraverso il lavoro, a un godimento che una volta soddisfatto lascerà subito spazio alla percezione di un nuovo bisogno. Se il dispotismo mortifica l’autonomia e l’indipendenza degli uomini e delle nazioni e ne ostacola il perfezionamento, il riformismo, il costituzionalismo e il federalismo sono strumenti in grado di agevolare lo sviluppo dell’umanità. Ferrara, smithianamente, è nemico dei monopoli che identifica negli ostacoli all’iniziativa economica, nei vincoli all’istruzione, nelle restrizioni alla stampa, negli impedimenti alla partecipazione politica, nell’intolleranza religiosa, nel centralismo amministrativo.
Ferrara è economista poco incline a concedere spazio a interventi politici per risolvere questioni sociali. La soluzione per incrementare il benessere degli individui, soprattutto dei meno abbienti, consiste nell’accrescere la libertà e le opportunità di ciascuno. È legge della Provvidenza che l’umanità, avanzando nella storia, sia sempre più felice e che un numero sempre più ampio di persone goda di una vita più agiata. Tuttavia, la condizione del dolore e del travaglio, principio cristiano presente nel Vangelo, è inseparabile dalla natura umana e anche in presenza di un livello di benessere elevato sorgeranno nuovi bisogni che spingeranno verso nuovi traguardi.
L’economia ferrariana poggia dunque su una teoria del progresso lontana da quella dei classici: oltre al rifiuto di ogni antagonismo tra classi viene respinta l’ipotesi di avvento della stazionarietà. Ma neanche la visione ottimista e lineare di sviluppo che soggiace alla legge di Say è da accogliere. Le crisi rientrano tra quegli eventi che esaltano la capacità degli uomini di innovare e migliorare la propria convivenza civile. Negare la crisi o mistificarne la reale drammaticità significa non riconoscere una delle molle che conducono al progresso (Opere complete, 4° vol., Prefazioni alla Biblioteca dell’economista, a cura di B. Rossi Ragazzi, 1956, p. 398).
Ferrara si professa utilitarista e non concepisce una scienza economica che prescinde dall’utilitarismo: «l’economista è utilitario, chi non è economista può ben non essere utilitario, ma chi non è utilitario disperi di poter mai essere economista» (Opere complete, 12° vol., cit., p. 205). Anche il progresso può essere osservato come l’incremento di utilità che l’umanità ottiene perfezionando il lavoro, l’industria, le istituzioni, la legislazione. Il benessere e la felicità di una nazione possono definirsi solo in questi termini, poiché qualsiasi idea di bene e di giusto assoluto è inevitabilmente vaga, indeterminata e sterile. Ferrara qui si pone apertamente in polemica con paradigmi filosofici alternativi – quali l’idealismo e lo spiritualismo – che culminano senza via di scampo nel dispotismo. Egli difende la propria scienza dalle accuse di amoralità provenienti da rappresentanti della cultura romantica e del pensiero cattolico, sostenendo che una dottrina dei piaceri non va intesa come meramente materiale perché i godimenti più spirituali e nobili, soddisfacendo bisogni umani, rientrano pienamente nel suo campo d’indagine. Una prospettiva coerente con l’accezione soggettivista che ha voluto attribuire all’economia politica. L’utilitarismo ferrariano non coincide con quello di Jeremy Bentham ma è più prossimo alla tradizione italiana che risale a Cesare Beccaria, Gaetano Filangieri e Gian Domenico Romagnosi e cerca una sintesi con il pensiero giusnaturalista. Per il credente Ferrara il diritto alla felicità e la ricerca del benessere sono sanciti dalla legge di natura e l’utile è il criterio logico razionale che Dio ha fornito all’uomo per poter discernere e giudicare.
Il profilo intellettuale di Ferrara appare il risultato di un personale percorso di studi intrapreso nella Sicilia degli anni Trenta. Sin dalla fine del Settecento la cultura siciliana si era aperta all’empirismo e al sensismo e aveva accolto favorevolmente la filosofia scozzese e la letteratura economica e politica anglosassone che avevano ispirato i costituzionalisti del 1812. È questo il patrimonio di idee che Ferrara eredita e sul quale edificherà il proprio pensiero. Insieme a una piccola ma eccellente comunità di giovani coetanei nacque un affiatato circolo di studi che operò per ammodernare la cultura siciliana ponendola a contatto con le più importanti opere economiche, giuridiche e politiche provenienti dall’Europa.
È in questa fase che Ferrara elabora la sua visione della società, getta i fondamenti della sua epistemologia e concepisce i concetti chiave della sua analisi. L’influenza che gli anni giovanili a Palermo esercitano sulle sue scelte intellettuali sono molteplici: la convinta adesione all’utilitarismo; la concezione soggettivista e psicologica della scienza; l’apertura interdisciplinare verso il diritto e la politica; la fiducia nel progresso; gli ideali cristiani e la convinzione della compatibilità tra fede cattolica, scienza e modernità; la necessità di formulare una filosofia della storia su cui fondare l’analisi economica.
Problematico appare invece il legame tra Ferrara e il pensiero economico italiano che nei suoi scritti non riceve una particolare considerazione o è oggetto di espressa critica. La mancata adesione al liberalismo pone molti autori italiani su un piano inferiore rispetto agli economisti classici o alla tradizione francese che da Say giunge a Bastiat. Un giudizio lineare, coerente ma estremamente rigido che impedisce di rendere merito agli importanti contributi analitici che gli economisti del Settecento avevano elaborato. Tuttavia Ferrara non è estraneo alla tradizione italiana come ci rivela la convergenza verso alcune caratteristiche ampiamente condivise: una propensione all’interdisciplinarità e un marcato interesse per la sfera istituzionale e giuridica; l’impegno nella divulgazione dei paradigmi scientifici attraverso processi di costruzione sociale; una spiccata vocazione per la vita pubblica e per l’assunzione di cariche amministrative. Complesso è poi il rapporto con Romagnosi, una delle principali fonti di ispirazione per le scuole economiche dell’Italia risorgimentale. Agli occhi di Ferrara, il filosofo lombardo si mostra troppo favorevole all’intervento pubblico ed è sostenitore di una visione del progresso fin troppo lineare che incontra il dissenso dell’economista siciliano già nei primi scritti sul «Giornale di statistica». Eppure l’influenza che il pensiero romagnosiano esercita nella formazione di Ferrara traspare in molte occasioni. La scelta soggettivista e psicologica della scienza ferrariana ha strette connessioni con la filosofia di Romagnosi e a questa potrebbe ricondursi la soluzione metodologica di osservare l’individuo in un ipotetico stato di isolamento, approccio presente anche nella Genesi del diritto penale. Inoltre l’utilitarismo di Ferrara non è strettamente consequenzialista à la Bentham e, nel tentativo di apparire compatibile con il giusnaturalismo, rivela connessioni con quello romagnosiano. Tutti indizi di un legame tra i due autori che probabilmente sussiste nonostante il dissenso più volte espresso dall’economista.
Dalla ricostruzione fin qui compiuta si può concludere che il pensiero di Ferrara non si presta a un’agevole sintesi. Volendo tentare una definizione potremmo indicarlo come espressione di una filosofia del progresso dal radicale orientamento liberale, fondata sull’utilitarismo e che trova nell’economia politica il proprio metodo e la più appropriata forma di esposizione scientifica. Quest’ultima, interessandosi di ogni manifestazione volontaria della vita umana, ambisce ad analizzare tutti gli aspetti nei quali può presentarsi il fenomeno economico, dando vita così a una teoria del valore, del mercato, della proprietà e del diritto, dello Stato e della politica, delle relazioni internazionali ma anche dell’arte e della religione.
È stato notato che Ferrara si colloca tra «due giganteschi sistemi teorici [senza essere in grado] di cogliere fino in fondo l’essenza di quello che stava declinando, né di disporre delle categorie analitiche di quello che stava per nascere e al quale stava dando un importante ausilio per affermarsi» (Barucci 2009, p. 193). Eppure, durante il lungo esilio torinese (1848-59), Ferrara riesce a fornire su più piani – divulgativo, teorico, istituzionale – contributi di alto pregio (Bousquet 1960) che gli varranno il titolo, attribuitogli da Vilfredo Pareto, di «principe degli economisti italiani del Risorgimento».
È un dato che la sua produzione scientifica si distingue per la frammentarietà e che egli sconta lo straordinario impegno politico profuso per l’unificazione e l’instaurarsi di un regime costituzionale. Un attivismo che non è solo frutto di circostanze ma esprime una concezione professionale e della missione civile di economista educatore dell’opinione pubblica.
Gli articoli pubblicati sulla stampa rappresentano a lungo dei modelli, anche retorici, di denuncia delle inadeguatezze della classe dirigente del Paese a cui molti economisti italiani si sarebbero successivamente ispirati. Attraverso l’intensa attività pubblicistica, l’insegnamento universitario e l’edizione della Biblioteca dell’economista Ferrara seppe dare un contributo essenziale alla formazione della cultura politica nazionale e alla trasformazione del ruolo dell’economista nella società contemporanea. Egli fu consapevole regista di una tenace e capillare operazione di affermazione di un paradigma scientifico e di un orientamento politico introdotti nella società attraverso la stampa, l’università, l’associazionismo professionale, l’impegno pubblico (Guidi, in L’identità culturale della Sicilia risorgimentale, 2011). Su questi aspetti dell’opera ferrariana
c’è oggi un comune giudizio: in fatto di battaglia culturale il suo impegno di ‘pedagogia politica’ fu di gran qualità, in fatto di ‘organizzatore culturale’ la sua opera fu gigantesca e, probabilmente, irripetibile (Barucci 2009, p. 190).
In questo, Ferrara, economista intransigente e anticonformista, perennemente in contrasto con l’establishment politico e accademico del suo tempo, riesce a inaugurare una stagione di alta dottrina del pensiero economico italiano che avrebbe avuto in Pareto, Pantaleoni e Antonio De Viti De Marco i suoi maggiori epigoni.
Opere complete, 14 voll., Roma 1955-2001.
L. Einaudi, Francesco Ferrara ritorna, «La riforma sociale», 1935, pp. 214-26, poi in Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Roma 1953.
G.H. Bousquet, Francesco Ferrara (1810-1900), in Id., Esquisse d’une histoire de la science économique en Italie. Des origines à Francesco Ferrara, Paris 1960, pp. 72-93.
Francesco Ferrara e il suo tempo, Atti del Congresso, Palermo 1988, a cura di P.F. Asso, P. Barucci, M. Ganci, Roma 1990 (in partic. S. Perri, Teoria della distribuzione e ripartizione del prodotto netto in Francesco Ferrara, pp. 113-34).
R. Faucci, L’economista scomodo. Vita e opere di Francesco Ferrara, Palermo 1995.
R. Faucci, Ferrara Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 46° vol., Roma 1996, ad vocem.
P.F. Asso, F. Simon, Individualismo, benessere, epistemologia. Spunti di modernità in alcuni scritti inediti di Francesco Ferrara ed Emerico Amari, «Rivista italiana degli economisti», 2005, 3, pp. 481-508.
L’economia divulgata. Stili e percorsi italiani (1840-1922), 3 voll., a cura di M.M. Augello, M.E.L. Guidi, Milano 2007 (in partic. F. Simon, Le tracce di un manuale di economia nei corsi di Francesco Ferrara all’Università di Torino, 1° vol., pp. 103-28; P. Roggi, Francesco Ferrara storico del pensiero economico e le introduzioni alle prime due serie della «Biblioteca dell’Economista», 3° vol., pp. 23-38).
F. Simon, Le istituzioni, la politica e la legislazione negli articoli de «La Croce di Savoia», «Il pensiero economico italiano», 2008, 2, pp. 25-68.
P. Barucci, Francesco Ferrara e la «Biblioteca dell’Economista», «Il pensiero economico italiano», 2009, 1, pp. 183-96.
«Storia e politica», 2011, 2, nr. monografico: L’identità culturale della Sicilia risorgimentale, a cura di F. Simon (in partic. P. Barucci, Il pensiero economico siciliano e italiano del Risorgimento, pp. 192-211; M.E.L. Guidi, Packages istituzionali e circolazione internazionale dell’economia politica. Alcune note su Francesco Ferrara, pp. 212-37).