FEI, Francesco
Poeta della prima metà del sec. XVI, nativo di Montepulciano (od. prov. di Siena), sul quale non disponiamo di alcuna notizia biografica precisa. Poche informazioni ricaviamo dai due volumetti che ci sono giunti sotto il suo nome: la Clitia Politiana (Vinegia, Fr. Bindoni-M. Passini, 1524) e la Lucilla Politiana (Vineggia, M. Sessa, 1532), in ottavo, rispettivamente di 28 e 52 carte. Della prima esiste un'altra edizione (ibid. 1525), mentre dal frontespizio della Lucilla ("nuovamente corretta et ristampata") sembra che ci sia stata una stampa anteriore, che però non è stato possibile rintracciare.
Dai frontespizi apprendiamo anche l'origine e lo pseudonimo dell'autore: Arimino Poliziano; elemento, quest'ultimo, confermato dalla presenza copiosa e uniforme nelle due opere di caratteristiche fonetiche e morfologiche dei dialetto senese. Altri ragguagli forniscono i componimenti proemiali dei due opuscoli. Aprono la Clitia un epigramma e delle rime indirizzate all'uomo d'anni poliziano Stefano Tarugi, del cui nobile casato il F. si proclama servitore. E in apertura della Lucilla figurano componimenti di dedica a Rocco Tarugi, fratello di Stefano, arcidiacono e avvocato concistoriale. Altre rime in onore del Tarugi si leggono alla fine dei libretto insieme con un'epistola in stile fidenziano, dove sono esposte le ragioni che hanno spinto il F. a comporre l'opera, identificate nei motivi topici del fuggire l'ozio, dello sfogo delle pene che affliggono l'amante e dell'utilità a chi soffre per amore. Segue un'altra epistola in latino, Ad lectorem dove è sviluppato il tema dell'irresistibilità d'amore a cui tutti soggiacciono. Ancora, è collocata in conclusione della Lucilla una serie di epigrammi di autori sconosciuti in lode del F. e della sua opera. Completano questa disorganica congerie di testi un capitolo alla Madonna e due sonetti a s. Francesco e a s. Antonio da Padova, il primo dei quali composto in una commistione di volgare e di latino. Analoghi soggetti figurano nelle rime collocate in apertura dei volumetto, insieme con alcuni componimenti escusatori rivolti ai lettori ("Grati lettor ... / Dante o 'l Petrarca voi non odirete ..."). Ne risulta ovviamente un accumulo che snatura l'atmosfera esordiale dell'opera, pomposamente connotata dall'invocazione alle Muse e dal calco petrarchesco "Voi ch'ascoltate el suono in rime sparse".
Le due raccolte presentano la medesima struttura, che vuole essere quella del canzoniere ruotante intorno alla figura femminile. Né le due vicende sentimentali si differenziano per qualche tratto cospicuo, procedendo anzi in sostanziale parallelo fino a produrre situazioni e componimenti dei tutto affini e intercambiabili, sintomo di un'indiscutibile convenzionalità dell'ispirazione del F. e insieme dei limiti del suo spirito creativo. Così gli elementi biografici che emergono dalle rime - ad esempio la durata degli amori: sette anni per Lucilla, tre per Clizia - non vanno investiti di un serio valore documentario, anche se la concretezza di alcune situazioni fa pensare che dietro a questi pseudonimi non si celi un mero pretesto letterario. Il codice lirico viene, infatti, adottato non per elaborare un itinerario intellettuale e sentimentale come in Petrarca, quanto per offrire piuttosto l'occasione per concentrarsi sui momenti e sulle sensazioni che accendono la fantasia e la passione del poeta. Lo stesso sonetto proemiale è indicativo dellIndirizzo seguito dal F.: all'attacco intimista segue non la considerazione pensosa del "giovenile errore" e della vanità dei sentimenti terreni, ma la dichiarazione della potenza d'amore, corredata da alcuni esempi mitologici.
Il ricorso al mito è del resto frequente nei due opuscoli, limitato in verità a pochi esempi canonici, ma significativo di una concezione sentimentale più laica e spregiudicata, nell'insieme disimpegnata e disposta innanzi tutto a recepire ed estremizzare i toni passionali della lezione petrarchesca. Il registro prevalente è dunque quello dell'effusione amorosa, nelle forme dell'adorazione dettagliata delle bellezze dell'amata e della descrizione delle passioni che suscita nel poeta. Oppure le rime si soffermano, isolandoli, su singoli episodi della vicenda amorosa: il dono di un gelsomino, l'offerta di alcune mele, il ballo, l'invito a bere in casa dell'amata, il velo e il guanto che ne nascondono il volto e la mano.
È però possibile, al di là di questa frammentazione, ricostruire lo svolgimento coerente di due storie, fino all'epilogo dell'abbandono e del sofferto disamoramento. Nella Lucilla, ad esempio, l'inizio del legame è scandito dal rifacimento petrarchesco "Sia benedetto et benedico il giorno" e le mattinate che seguono tracciano un itinerario che va dalla promessa di eterno amore al timore che la donna gli venga tolta. Quindi il poeta viene allontanato dal padre di Lucilla a causa della maldicenza degli invidiosi; seguono rime dolorose e di compianto, fino ad un rotondello che capovolge la benedizione iniziale in un'invettiva: "Io maledico amore et suo fier nido". Nella Clitia l'analogo svolgimento si conclude allegoricamente con un lungo capitolo che presenta Arimino abbandonato dall'amata, "in un'obscura selva confinato", affrontato da "lupi, leon, draghi et serpenti", finché viene soccorso da Pan che lo consola e lo invia alle Muse. Queste lo distolgono dalle passioni amorose ("la donna è più leggier assai che 'l vento / Overo più che fronda di un bel prato") e lo esortano a dedicarsi esclusivamente a loro. La conclusione è incentrata sul conflitto tra senso (attrazione per Clizia) e ragione (amore per le Muse) con il trionfo di quest'ultima presentato ai giovani come esempio morale.
Un motivo di discreto interesse nelle due raccolte è costituito dalla varietà metrica che le caratterizza. Oltre a forme tradizionali della lirica come sonetti (alcuni caudati), canzoni e una sestina, vi figurano metri narrativi come il capitolo, popolari (strambotti, madrigali, mattinate) e decisamente inconsueti come il rotondello. Naturalmente alla varietà non corrisponde sempre la correttezza: dei rotondelli i componimenti dei F. "non hanno che il nome e l'uguaglianza delle rime nel primo e nell'ultimo verso" (Flamini) e le quattro canzoni della Lucilla semplificano notevolmente la complessa struttura della canzone petrarchesca. Ricorrenti le soluzioni "manieristiche" quali anafore, parallelismi, invocazioni usate ad esempio per rinvigorire il ritmo uniforme del capitolo, o gli adynata per significare la profondità del sentimento amoroso, talvolta costruendo su questa figura retorica già petrarchesca interi componimenti per impossibilia. Varietà metrica e manierismo stilistico, unitamente all'architettura complessiva delle due raccolte, in mancanza di altri dati che permettano di ricostruire con precisione la biografia dell'autore, collocano decisamente il F. in quella stagione della lirica petrarcheggiante anteriore alla sintesi del classicismo rinascimentale, che aveva avuto i suoi centri di espressione nelle città e nelle corti regionali quattrocentesche e i suoi esponenti più significativi in rimatori come Seraffflo Aquilano, il Tebaldeo e il Cariteo.
Bibl.: F. Flamini, Notizia storica dei versi e metri italiani dal Medioevo ai giorni nostri, Livorno 1919, p. 72.