FRANCESCO Farnese, duca di Parma e Piacenza
Nacque a Parma il 19 maggio 1678, secondogenito del duca Ranuccio II e della sua terza moglie Maria d'Este. Fu chiamato a succedere al padre deceduto il 12 dic. 1694, appena diciassettenne ma unanimemente ritenuto serio e conscio delle proprie responsabilità dinastiche. Si giustifica così anche il matrimonio seguito di lì a poco - il 7 sett. 1696 - con la vedova del fratello primogenito Odoardo (morto nel 1693), Dorotea Sofia di Neuburg, di diciott'anni più anziana: era assolutamente indispensabile per le esauste finanze dello Stato non rinunciare alla ricchissima dote di lei e sottolineare con tale ribadito legame la volontà di conservare le influenti relazioni che la legavano alla casa d'Austria come figlia dell'elettore palatino e sorella della vedova di Carlo II. L'altro referente politico - questo sì tradizionale per casa Farnese - era il pontefice. All'allora regnante Innocenzo XII nel maggio 1695 verrà inviata un'ambasceria solenne guidata dal conte Gaspare Scotti d'Agazzano: rinnovando F. solenne omaggio d'obbedienza e fedeltà ne ebbe la conferma del titolo di gonfaloniere della Chiesa.
Il rapporto con l'Impero e le pesanti implicazioni legate alle servitù militari, ai passaggi di truppe ufficialmente alleate, alle contribuzioni straordinarie - in realtà usuali come evidenziato da molti documenti (Nasalli Rocca, pp. 196-199) - per il mantenimento di eserciti acquartierati nei territori estensi, rappresentavano una spina nel fianco per tutti gli Stati italiani della pianura Padana. Le rimostranze, più volte esternate anche dal duca Ranuccio, non avevano sortito alcun effetto. La pesante eredità era passata tutta a F. insieme con le casse dell'Erario drammaticamente esangui per la gestione troppo dispendiosa della corte, il tributo annuo da pagare a Roma, i debiti contratti con i banchieri genovesi all'epoca del dispendioso matrimonio di Odoardo.
Fosse talento, interesse naturale o, piuttosto, necessità, F. si trovò subito a giocare le poche chances che aveva in un quadro politico ormai da tempo necessariamente europeo, in particolare da quando la guerra antifrancese promossa dalla Lega di Augusta era arrivata, nelle sue propaggini meridionali, a lambire, appunto, persino i tranquilli e inoffensivi Ducati padani.
In particolare, era la spregiudicata condotta del duca di Savoia Vittorio Amedeo II a turbare lo scacchiere italiano: schieratosi tardivamente (1690) a fianco della Lega, con un voltafaccia ricorrente nella storia di casa Savoia, sarà proprio lui a chiudere bruscamente il conflitto con Luigi XIV (agosto 1696), consentendogli di rioccupare Casale, facendosi restituire Pinerolo e ponendo le premesse per una pace generale che le difficoltà finanziarie di un po' tutti i contendenti rendevano ormai inevitabile e le cui premesse furono discusse a Rijswijk nel 1697.
F., che inevitabilmente aveva risentito del cambiamento di fronte del Savoia e dei relativi concentramenti e passaggi di truppe sui suoi territori, intese non perdere un'occasione di tale portata. Nel maggio 1697 inviò a Rijswijk il marchese P.M. Dalla Rosa con lettere preparate dall'ambasciatore farnesiano a Parigi O. Pighetti.
L'intenzione era quella di rivendicare i diritti sul Ducato di Castro e Ronciglione, questione delicata, ancorché territorialmente non certo ingente, che da tempo ormai contrapponeva i duchi di Parma al Papato ed era addirittura sfociata in conflitto aperto nel 1641. Allora era stata la pace di Ferrara (1644) a vanificare le illusioni dei Farnese; in quest'occasione, invece, sia l'imperatore Leopoldo sia lo stesso Luigi XIV per tramite dei rispettivi intermediari avevano detto esplicitamente che l'affare non era attinente ai problemi della pace contrattata in Olanda e fatto chiaramente intendere che nessuno era intenzionato a inimicarsi il papa. F., così, si vide escluso dalla partecipazione diretta, anche se marginale, ai lavori dei negoziati, gratificato solo di generiche promesse e della restituzione - rimasta, al solito, nominale - dell'isola di Ponza da parte degli Spagnoli.
Ma di lì a poco sarà ben più pesante il coinvolgimento del Ducato padano in occasione della guerra di successione spagnola. La morte ritenuta imminente di Carlo II aveva scatenato l'ennesima prova di forza tra la Francia, ancora egemone ma certo provata, e la grande alleanza stretta nel 1701 tra l'Inghilterra, l'Olanda e l'imperatore Leopoldo, deciso a sostenere con le armi i diritti al trono spagnolo del figlio arciduca Carlo d'Austria.
In Italia la situazione che si venne creando richiama uno schema già ripetuto: papa Clemente XI, vedendo avvicinarsi il conflitto, tentò dapprima una mediazione tra le potenze. Fallita questa e naufragata una lega per la neutralità armata tra i principi sempre divisi da rivalità e invidie, i Ducati padani si schierarono per una neutralità generica quanto difficilmente sostenibile e, in definitiva, agirono a titolo individuale, stretti da interessi e potenze troppo più grandi di loro, con l'aggravante ulteriore di essere collocati in posizione comunque strategica. Ai confini dell'area, l'irrequieto Savoia, alleato dei Francesi ma sempre disposto alle mosse più vantaggiose al proprio tornaconto, rappresentava un ulteriore elemento di instabilità.
Quando il modenese Rinaldo d'Este, nell'estate 1701, ruppe le fragili promesse di neutralità cedendo la fortezza di Brescello alle truppe imperiali di Eugenio di Savoia, che già occupava il distretto di Mantova, a F. non rimasero molte scelte davanti alle intimidazioni imperiali. Dopo avere tentato di organizzare una improbabile se non patetica difesa armata delle sue terre, si dichiarò - creando grave precedente - feudatario della Chiesa e come tale impossibilitato a disporre dei suoi Stati senza il consenso papale; la S. Sede si vedeva, così, riconosciuti anche ufficialmente i suoi diritti sul Ducato e inviava poco dopo a Piacenza un commissario apostolico nella persona di A. Aldobrandini, vicelegato di Ferrara. La mossa di F., infelice anche se inevitabile, sottolineava ancora una volta l'ambiguità giuridica, oltre che politica, della doppia dipendenza del Ducato dall'Impero e dalla Chiesa, che dal 1545 aveva concesso, sulla base di un diritto di fatto, Parma e Piacenza ai Farnese in qualità di discendenti di Paolo III. Ma ammettere ufficialmente la propria debolezza non impedì a F., in questa occasione, di subirne i contraccolpi. Il generale Eugenio di Savoia, perentoriamente dichiarando di non riconoscere "…che il signor duca di Parma padrone di cotesti stati e non altri" (Drei, I Farnese, p. 251) e chiaramente indispettito dalla presenza del presidio papale, occupò parecchi centri del Ducato imponendo ovunque pesantissimi tributi, davanti ai quali inutili furono le proteste inoltrate alla corte di Vienna.
In realtà F. si muoveva con non comune abilità in una situazione obiettivamente difficile. Diviso tra i sentimenti sinceramente antitedeschi della corte parmense e la opportunità di non inimicarsi il Savoia, ripetutamente vittorioso sui generali francesi N. Catinat e F. Volleroy, a F. restava il gioco consueto dell'invio di incaricati d'affari, talvolta veri e propri agenti segreti, a difendere i propri minimi interessi o, quanto meno, a cercare di sviare i danni più gravi.
Nel 1702 avvenne una svolta destinata a rimanere inavvertita nell'immediato ma - alla lunga e indirettamente - premessa di grandi cambiamenti per i destini di casa Farnese. Precedendo di poco il passaggio italiano del nuovo re di Spagna Filippo V, che il nonno Luigi XIV aveva inviato a rinvigorire le sorti di una guerra tutt'altro che decisa, era stato nominato comandante dei Franco-Spagnoli Luigi Giuseppe di Borbone duca di Vendôme, a sostituire il Villeroy fatto prigioniero. Fu proprio nel corso dei festeggiamenti cremonesi in onore del sovrano spagnolo che si mise per la prima volta in luce il giovane G. Alberoni.
L'immediato successo, anche mondano, dell'abate presso il comandante francese lo avviò con decisione verso un destino e una carriera di respiro ben più ampio di ciò che potesse offrire la provincia italiana. Subentrato al conte A. Roncovieri, vescovo di Borgo San Donnino, come agente farnesiano presso il maresciallo francese, l'Alberoni rimase al seguito di costui sino al 1706 nel teatro italiano della guerra e nella nuova destinazione in Fiandra. Fu indubbiamente merito di F. l'avere assunto al proprio servizio l'Alberoni, lasciandogli una grande libertà di manovra e valorizzandone l'intelligenza duttile e opportunistica: tale legame resterà una costante sia nella biografia dei due personaggi sia nella politica farnesiana che dagli anni Venti avrà, proprio grazie a lui, l'ultima opportunità di giocare un ruolo internazionale.
Ma tra il 1706 e il 1708 F. dovette affrontare il dilagare degli imperiali, che avevano costretto alla fuga le truppe francesi e imponevano, tra l'altro, pesanti imposte di guerra anche al clero. Automaticamente aumentò la tensione politica tra l'imperatore e Clemente XI e l'irrigidimento delle posizioni si espresse con la bolla del 26 luglio 1707 e il manifesto imperiale dell'anno successivo. Il papa fu infine costretto a un compromesso: nel gennaio 1709 accettò l'investitura imperiale. Il passaggio dalla protezione spagnola, tradizionale dalla fine del XVI secolo, a quella imperiale, cui la penisola tutta era destinata, fu osteggiata a lungo da F., che in realtà riuscì solo a rimandarla, non senza momentanei e brillanti successi.
La situazione si alleggerì sensibilmente solo con la morte dell'imperatore Giuseppe I (1711). Il fratello Carlo - sin'allora contestato re di Spagna - lasciò il Regno iberico a Filippo V di Borbone per assumere l'eredità imperiale: sciolto così il nodo della successione spagnola, i fronti europei si ridisposero e gli schieramenti si chiarirono. In particolare il timore di una ripresa asburgica costringeva anche grandi potenze europee come l'Inghilterra e l'Olanda a tollerare la politica francese e i Borbone sul trono di Spagna. A Stati del peso politico irrilevante come quello dei Farnese le contingenze offrivano l'opportunità di inserirsi ai margini e nelle pieghe dei più ampi giochi europei, nel tentativo di salvaguardare un'autonomia sempre più problematica. È ben vero che la pace generale, finalmente raggiunta a Utrecht nella primavera del 1713, sacrificava brutalmente la penisola italiana all'Austria, ma proprio allora stava per aprirsi un periodo - l'ultimo - di singolare fortuna per casa Farnese, grazie a una serie di circostanze in parte fortuite, in parte abilmente manovrate.
Protagonista e artefice principale di questa fase fu l'Alberoni. Apprezzato dalla corte francese, ma legatissimo sempre a Parma e ai suoi duchi, l'abate riuscì a coniugare la propria ambizione personale a un disegno statuale di ampio respiro. Dal 1712 presente stabilmente a Madrid, dall'anno successivo nominato incaricato d'affari del duca di Parma, Alberoni riuscì a sfruttare a proprio vantaggio persino la contingenza potenzialmente negativa della morte prematura di Maria Luigia di Savoia (1714), italiana come lui, amata consorte ed ascoltata consigliera del caratterialmente fragile Filippo V e sua protettrice.
È noto come, in tale situazione, l'Alberoni riuscisse a guidare la scelta della nuova regina di Spagna su Elisabetta Farnese, unica figlia del defunto duca Odoardo e di Dorotea Sofia di Neuburg, nipote sinceramente amata da Francesco. Dal matrimonio di costui, infatti, non essendo nati eredi di sorta, le residue speranze di sopravvivenza della casata erano tutte riposte sull'allora ventiduenne principessa. Quanto al sovrano francese, referente ultimo delle scelte spagnole, la Farnese presentava il vantaggio di essere erede di un Ducato collocato in posizione strategica e di vantare diritti alla successione di Toscana come discendente di Margherita de' Medici: offriva in prospettiva, quindi, una notevole possibilità di rientro nella penisola italiana. Il contratto nuziale, concordato in gran segreto tra l'Alberoni e la corte di Parma, fu stipulato il 25 ag. 1714 con fasto degno della tradizione farnesiana, implicando il non trascurabile esborso di 100.000 doppie di dote.
Non trascorse molto tempo e alle interdette Cancellerie europee si palesò la volitività della nuova sovrana, che certamente inaugurò un periodo di singolare vitalità politica per la penisola iberica e, indirettamente, rivalutò anche il piccolo Ducato farnesiano.
Stretti, infatti, continueranno a essere sempre i legami tra F. e la nipote Elisabetta, tramite la quale l'Alberoni mirava a divenire plenipotenziario della politica spagnola. Il gusto del potere di lei fu ben presto canalizzato e quasi ossessivamente mirato a preordinare destini ambiziosi per i propri figli che sarebbero nati a partire dal 1715 e che - ovviamente - si trovavano esclusi dalla successione al trono di Spagna. Per l'Alberoni, che avrebbe coronato la sua carriera divenendo nel 1716 primo ministro, si trattava di smantellare in funzione antiaustriaca le conseguenze del trattato di Utrecht e di compiere un enorme sforzo organizzativo entro i confini di Spagna; quanto al Ducato italiano, era di nuovo chiamato a giocare un ruolo importante in Europa grazie ai suoi legami con una corte di primo piano.
Lo scopo immediato di F. era fare valere i diritti sulla Toscana e sul Ducato di Castro almeno tramite i figli di Elisabetta; più ambiziosa era la successione al Regno di Napoli; ma non c'è dubbio che il disegno complessivo mirasse a ostacolare e a ridimensionare in Italia la presenza degli Asburgo d'Austria, servendosi dei Borbone di Spagna. Dal momento che il consenso papale era sempre un elemento pregiudiziale per qualunque disegno riguardasse la penisola italiana, sin dall'inizio l'Alberoni appoggiò calorosamente i progetti antiturchi del papa e fu promotore di un concordato con Roma che allentasse il clima di tensione creatosi tra i due Stati. La causa era soprattutto la legislazione anticlericale che, in Spagna come altrove, una progressiva razionalizzazione statale imponeva necessariamente. Forte dell'appoggio incondizionato della coppia reale spagnola, fu soprattutto grazie all'opera di mediazione di F. presso la corte romana - di cui notoriamente il duca era interlocutore privilegiato - che l'Alberoni riuscì a superare la diffidenza di Clemente XI e ad ottenere il berretto cardinalizio, coronando la sua carriera con un risultato prestigioso.
La decisione fu ufficializzata il 12 luglio 1717: a quella data la Spagna era impegnata in un grande sforzo di riorganizzazione bellica che al papa e all'imperatore era stato presentato come finalizzato a un consistente aiuto contro il Turco. In realtà i Farnese d'Italia e di Spagna premevano ormai da tempo perché si arrivasse a uno sbarco in Italia in funzione antimperiale e a nulla valevano gli inviti alla cautela dell'Alberoni. In questa situazione l'incidente dell'arresto dell'inquisitore spagnolo J. Molinéz a Milano funse da mero pretesto per far precipitare la situazione: Filippo V si impuntò senza soppesare troppo le conseguenze e F. si servì dell'episodio per vincere le ultime resistenze. Al ministro di Spagna, fedele ai suoi padroni e referenti politici, non restò alla fine che cedere e acconsentire alla spedizione italiana, riuscendo solo a dirottarla dalla Toscana o da Napoli alla meno pericolosa Sardegna.
È noto come il successo della spedizione si ritorse su coloro che l'avevano voluta organizzare, consolidando il fronte antispagnolo e ponendo le premesse per la disgrazia politica dell'Alberoni: Inghilterra, Olanda e Francia non tardarono a cooptare l'Austria in una quadruplice alleanza e a isolare la Spagna.
Anche F. percepiva sempre più la delicatezza della sua situazione e, premendo ormai per un deciso proseguimento della campagna militare d'accordo con la nipote, si cautelava nel contempo ottenendo dall'Alberoni una dichiarazione retrodatata di completa ed esclusiva assunzione di responsabilità. Quanto a quest'ultimo, sia che avesse valutato erroneamente le reazioni delle potenze europee sia che fosse perso nel suo sogno antitedesco, ormai riconosceva inevitabile la guerra, se non altro per tutelare l'immagine del proprio re. Nel giugno 1718 la flotta spagnola si diresse in Sicilia: questa volta l'intrapresa portò a un doppio grave insuccesso, militare e politico, aprendo la strada all'invasione francese della stessa Spagna. Il destino dell'Alberoni parve segnato e ormai la stessa corte parmense prendeva le distanze dall'uomo che pure aveva tanto contribuito alle ultime fortune della casata. L'acribia e la convinzione con cui F. volle l'allontanamento politico del ministro, che pure era stato a lungo esecutore delle sue volontà, si prolungò ben oltre il 12 dic. 1719, data della cacciata dell'Alberoni dal suolo spagnolo, e assunse negli anni successivi il tratto di vera e propria persecuzione, rivelatrice della cattiva coscienza del duca.
F. restava alle prese con la necessità di indirizzare i destini politici del piccolo Ducato e l'incombente pericolo di estinzione della propria discendenza, stante la renitenza al matrimonio del fratello Antonio. In realtà, proprio in previsione di tale eventualità, la pace dell'Aia del 1720 aveva destinato a Carlo, primogenito di Elisabetta, allora bambino di quattro anni, i possessi farnesiani, ma erano forti le pressioni per impedire un ritorno degli Spagnoli proprio nel cuore della pianura padana. Gli ostacoli in questo senso venivano soprattutto dal papa e dall'imperatore. Sarebbe spettato a F. divenire il garante dell'eredità per i figli della regina di Spagna: investito di questo compito e di quello, ancora più importante per lui, di un ruolo di primo piano nella diplomazia europea a dispetto della scarsa rilevanza politica dei suoi domini, egli impegnò in questo progetto tutto se stesso per i pochi anni che dovevano separarlo dalla morte prematura. Del resto egli era divenuto, dopo la vittoria sulla Spagna, il mediatore preferito per i Francesi, che aveva tanto aiutato nell'eliminazione dell'odiato Alberoni: tramite F. e i suoi si sarebbe operato il riavvicinamento tra i due rami dei Borbone in funzione antiasburgica. Fu proprio grazie alla sua influenza alla corte spagnola e ad un accorto lavorio diplomatico che si giunse all'alleanza ufficiale delle due potenze, stipulata il 27 marzo 1721, cui più tardi si aggregò l'Inghilterra. Usciva ribadita la destinazione dei Ducati e l'invio a garanzia di una guarnigione spagnola, si riconoscevano i diritti di F. al rimborso dei danni di guerra e non si dimenticava la questione di Castro. Quattro anni dopo, il trattato di Vienna (30 apr. 1725), frutto di un tentato riavvicinamento di Elisabetta Farnese alla politica imperiale, ridimensionò di molto quei risultati, deludendo ancora una volta le aspettative di Francesco Farnese. Di lì a poco - il 26 febbr. 1727, a Piacenza - la sua morte interruppe quel continuo, ambizioso, intrigante lavorio.
Proiettato sempre verso interessi e necessità di politica estera, F. non demeritò tuttavia nella conduzione interna dei suoi Stati, amministrandone con oculatezza le risorse. Evitò eccessi fiscali, ridusse le spese pubbliche, praticò moderazione nelle spese di corte probabilmente con l'approvazione della consorte. Di una qualche rilevanza anche gli interventi in fatto di opere pubbliche, in particolare anticipatore sui tempi fu il riassetto idraulico del Po nel tratto in cui il fiume attraversa Piacenza; prestigiosa, infine, la ristrutturazione della sua residenza, la rocca di Colorno, tra il 1712 e il 1723. Non particolarmente colto - tratto peraltro raro nei regnanti dell'epoca - tuttavia protesse uomini di cultura, si fece collezionista di raccolte d'arte, amò il teatro secondo le migliori tradizioni di casa Farnese. Protesse e favorì lo Studio di Parma, quello di Piacenza e il collegio dei nobili, soprattutto nei settori giuridici, dello studio della geografia e delle lingue: da queste istituzioni spesso cooptò i migliori elementi da cui riuscì a trarre capaci amministratori e un corpo diplomatico notevole, che lo servì a lungo dalle principali capitali europee.
Fonti e Bibl.: A. Vianti, F. I F., duca di Parma e Piacenza, in Strenna piacentina, III (1877), pp. 110-112; T. Copelli, Scipione Maffei, il duca F. e l'Ordine costantiniano, in Nuovo Archivio veneto, XVI (1906), pp. 1-135; E. Bourgeois, La diplomatie secrète au XVIIIe siècle, II, Le secret des Farnèse, Paris 1909, passim; U. Benassi, F. F. e Giulio Alberoni, in Boll. stor. piacentino, XIII (1918), 6, pp. 152 s.; A. Arata, La politica dei Farnese, in Arch. stor. per le prov. parmensi, s. 2, XXIX (1929), pp. 115-126; G. Drei, Giulio Alberoni, Bologna 1932, passim; Id., I Farnese. Grandezza e decadenza di una dinastia italiana, Roma 1954, pp. 247-278; E. Nasalli Rocca, I Farnese, Varese 1969, pp. 209-232; G. Tocci, Il Ducato di Parma e Piacenza, Torino 1987, pp. 70-74; Felice da Mareto, Bibliogr. generale delle antiche prov. parmensi, Parma 1973-74, pp. 408 s.