DUODO, Francesco
Nacque a Venezia il 6 marzo 1590, primogenito di Alvise del procuratore Francesco, del ramo di S. Maria Zobenigo (già Madonna dell'Orto), ed Elisabetta Tiepolo dei procuratore Alvise.
Ancor giovanissimo accompagnò lo zio Pietro, cavaliere, innumerose ambascerie all'estero, in Inghilterra, Savoia e Roma, secondo il diffuso costume dei patriziato lagunare, che in tal modo preparava i futuri responsabili di una classe diplomatica le cui doti di abilità e penetrazione psicologica erano universalmente riconosciute.
In effetti, gli esordi della carriera politica del D. furono assai promettenti, degni di un futuro protagonista del governo della Repubblica: entrato nel Maggior Consiglio appena ventenne "con voto cominune", il 20 ott. 1619 era nominato podestà e capitano a Belluno, dove però giunse solo nel giugno dell'anno seguente.
Qui - se vogliamo dar credito all'encomiastica Orazione del Catellani - per diciassette mesi il D. esercitò le sue funzioni ispirandosi ad "incredibile" giustizia e zelo religioso, e dimostrando pure buone capacità organizzative allorché, nei primi mesi del '21, anche la sua provincia fu colpita dalla carestia che angustiava la Valpadana, al punto che "mentre nell'altre cittadi ogn'uno si moriva di fame, i Bellunesi soli" potevano disporre di grani per "vilissimo prezzo".
Più realisticamente, nella relazione letta al termine del suo mandato, il 17 nov. 1621, il D. non accenna ai travagli sofferti dalla popolazione a motivo delle difficoltà annonarie, ma si sofferma sui problemi istituzionalmente connessi alla sua carica, vale a dire la disorganizzazione delle milizie; i guasti derivanti, in particolare ai boschi dell'Alpago, dagli arbitrari inconsulti tagli di roveri; la prdgressiva minorazione dei beni comunali causata da acquisti ed usurpazioni di privati: tema, questo, di grande rilievo sociale e purtroppo destinato ad aggravarsi drammaticamente di li a qualche decennio, in conseguenza delle vendite decise per far fronte al dissesto finanziario causato dalla guerra di Candia.
A questo punto, tornato in patria dopo aver esercitato una carica podestarile, parrebbe logico assistere all'ingresso del D. nel Collegio - ossia tra i savi -, o perlomeno alla sua elezione a qualche magistratura senatoria. Nulla di tutto ciò; il Segretario alle Voci propone il suo nome soltanto alla data del 26 genn. 1625: capitano a Vicenza. Rifiutò. Ancora silenzio per quasi due anni, e il 25 nov. '26 eccolo nuovamente designato rettore: capitano a Bergamo. Stavolta gli toccò accettare e nel giugno 1627 raggiunse la sua nuova sede, in un paese profondamente segnato dalla presenza di una feudalità forte e numerosa, dove ancora non si erano spenti gli echi della crisi della Valtellina; tutto sommato fu però un reggimento abbastanza tranquillo, eccezion fatta per gli efferati delitti che impegnarono le sue truppe a motivo dell'imperversare di bravi ed altri "scellerati siccarij" che taglieggiavano il paese, costringendolo ad un incessante carteggio col Consiglio dei dieci.
Tra le pieghe di queste incombenze, il D. trovò modo di riaprire una delle porte della città, che da oltre un ventennio era impraticabile, e di restaurare il forte di S. Marco, ai confini con i Grigioni, "con istupore di tutto il Mondo, attesa l'altezza, et horridezza del luogo, da lui reso coll'eccellenza dell'arte commodo, riguardevole et delicioso".
Un quadro tanto edificante viene però, almeno in parte, ridimensionato proprio dalla relazione, cosi scialba e monotona, che il D. presentò una volta tornato a casa, il 24 ott. 1628, dove l'unico motivo degno di attenzione è rappresentato, ancora una volta, dalla denuncia dei pericoli connessi al fenomeno di continuo impoverimento degli abitanti della campagna rispetto a quelli dei centri urbani; evidentemente, passata la bufera di Agnadello, la Repubblica riteneva di non aver più bisogno della fedeltà dei contadini.
"Li populi in generale di quel territorio sono ben affetti - annota il D. -, seben non creddo che da loro emanassero quelle meravigliose operationi di fede, che si sono vedute nelli altri tempi, et ciò perché in effetto è cessata la causa, la quale è che diffendevano li loro proprij beni, li quali non hanno al presente".
Ancora una volta, inspiegabilmente, il rientro a Venezia fu seguito da una sorta di contumacia politica, che venne interrotta soltanto il 4 ott. 1633, allorché il D. fu eletto camerlengo di Comun: una carica "minore", assolutamente inadeguata alle responsabilità, o quantomeno alle spese, che egli aveva incontrato nel corso del duplice rettorato in Terraferma. La tenne per cinque mesi, poi presentò le dimissioni, e chiuse definitivamente con la politica.
Da allora, le uniche notizie che abbiamo su di lui riguardano l'amministrazione delle vaste proprietà che la famiglia possedeva attorno a Monselice (si tratta, per lo più, di acquisti di campi, case coloniche, livelli fondiari) e l'esercizio delle pratiche religiose, alle quali si dedicò con sempre maggior frequenza e convinzione. Devoto alla S. Sede come tutti i Duodo, sappiamo dalle cronache che era anche religiosissimo e che tutti i giorni ascoltava la messa; recatosi dunque a Roma in occasione del giubileo del 1650, ebbe da Innocenzo X il corpo di s. Anastasio martire e reliquie di s. Agata, s. Apollonia, s. Aurelia, s. Candida e s. Giustina, che nel '56 furono collocate nell'altare di famiglia nella chiesa di S. Maria Zobenigo, ad opera del fratello Girolamo.
Il D. mori, a Venezia, agli inizi di aprile del 1652.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, Storia veneta 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii…, III, p. 387; Ibid., Avogaria di Comun. Libro d'oro nascite. Schedario 170, sub voce; per la data di morte, sulla quale erra il Barbaro e che non risulta presso le normali fonti, Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, cod. 844 (= 8923): Consegli, c. 8v; cod. 16 (= 8305): G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto…, II, c. 48r; per la carriera politica, Arch. di Stato, di Venezia, Segretario alle Voci. Elezioni del Maggior Consiglio, reg. 13, c. 134; reg. 14, cc. 160, 169; reg. 16, c. 20; Ibid., Lettere rettori ai capi del Consiglio dei dieci, b. 4, nn. 153 s., 159-162, 165; sui beni del D. e la loro amministrazione cfr. Ibid., Giudici di petizion. Inventari, b. 364, nn. 26 s.; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. P. D. C 757/44; C 2184/XLI; C 2322/9; C 2445/8 s.; C 2467/XIII.
Cfr. inoltre: G. B. Catellani, Oratione in lode dell'ill.mo sig. F. D. capitanio grande di Bergamo…, Bergamo 1628; Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, a cura di A. Tagliaferri, II, Podestaria e capitanato di Belluno. Podestaria e capitanato di Feltre, Milano 1974, pp. 73-78; Ibid., XII, Podestaria e capitanato di Bergamo, Milano 1978, pp. 457-463; F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare…, Venetia 1663, p. 114; G. Cognolato, Saggio di memorie della terra di Monselice…, Padova 1794, p. 59.