DONATI, Francesco (detto Cecco frate)
Nacque a Seravezza (Lucca) il 16 marzo 1821 da Francesco e da Carlotta Canci. Entrò nell'Ordine degli scolopi il 26 febbr. 1845 e dopo un anno fu ordinato sacerdote. Compiuti gli studi di matematica all'università di Pisa, insegnò filosofia e matematica al ginnasio dell'istituto degli scolopi "S. Giovannino" di Firenze, e in questo istituto conobbe Giosue Carducci, che vi era stato brillante allievo tra il 1849 e il '52.
Come risulta da una lettera del Carducci dell'8 sett. 1855 (Epistolario, I, pp. 105-109, che ha in calce la nota "anniversario del giorno da cui data la nostra amicizia"), tra i due si stabilì subito un rapporto di stima e di amicizia che durò per tutta la vita, connotato dall'esplicita ammirazione di Carducci per il "maestro del bello stile e del sermon prisco" e per il "giudice competentissimo", al quale il poeta sottoponeva, in quella prima lettera, tre poesie da lui "composte ai tempi in che studiavo intensamente sui trecentisti" (p. 107). Il soprannome "Cecco frate" fu, secondo alcuni, coniato proprio da Carducci, mentre per altri a lui e agli amici fiorentini sarebbe dovuta soltanto la ripresa del nomignolo inventato dai cavatori di marmo di Seravezza. È certamente dovuto a Carducci invece l'appellativo di "padre Consagrata" con il quale scherzosamente gli si rivolgeva in un Frammento di sonetto gioioso a lui dedicato (28 ag. 1857): "O Cecco, o Consagrata, i' ti vuo' fare / In nova foggia una laudativa. / O Cecco mio da bene, o mio compare, O padre Consagrata, evviva, evviva!".
Il D. e il Carducci condividevano l'avversione per la sciattezza di lingua e di stile dei romantici e l'ammirazione per la letteratura italiana del Trecento; di qui l'adesione convinta del D. al programma del gruppo degli "amici pedanti" formato da Carducci e da G. Chiarini insieme a O. Targioni Tozzetti e T. Gargàni. Quando uscì a Firenze il Poliziano (gennaio-luglio 1859), primo organo degli "amici pedanti", il D. vi collaborò con un articolo, Saggio di un glossario etimologico di voci proprie della Versilia (fasc. 3, aprile 1859, pp. 180-191; fasc. 4, maggio '59, pp. 230-37), nel quale avviava una ricerca di carattere filologico e linguistico sul dialetto versiliese che fu poi ripetutamente sollecitato dai suoi amici ad ampliare in un vero e proprio dizionario. Queste sue annotazioni furono molto apprezzate dai maggiori studiosi dell'epoca di lingua e di letteratura popolare, come A. D'Ancona, N. Tommaseo, I. Del Lungo, con i quali entrò in rapporto epistolare (cfr. E. Pasquini, pp. 61-64).
Sull'organo pisano degli "amici pedanti", L'Osservatore, aveva pubblicato una ballata, In morte di Rosa Ferrucci (n. 20, 4 ag. 1858, p. 78) alla quale vanno accostate altre composizioni in versi come: Nella festa del morto Redentore solennizzata dai confratelli della Misericordia in Seravezza ildi14 apr. 1854. Versi... (Firenze 1854); la ballata La Vergine annunziata (ibid. s.d.); Alla Vergine del Soccorso, versi... (ibid. 1855); Sonetto dedicato ai venerabili confratelli de la Misericordia che la sera del XXIX marzo MDCCCLXI in Seravezza celebrano solennemente la commemorazione di Gesù morto (ibid. 1861; è preceduto da un breve scritto in prosa Ai venerabili miei confratelli).
Si tratta di composizioni modellate accuratamente sullo stile e il lessico trecentesco ("un cinquecentista sperso nel secolo nostro", scrisse G. Pascoli), di ispirazione decisamente classicista (il che spiega qualche eco giustiana e pariniana), di limitato interesse sul piano artistico e piuttosto da considerare sul terreno culturale, insieme a quei segnali diffusi nella letteratura italiana nel ventennio 1850-70di una decisa reazione alle poetiche romantiche e neoromantiche, nel nome del più puro classicismo di schietta tradizione nazionale. Va aggiunta a questa produzione, sulla medesima linea, la canzone A Enrico Pazzi quando scolpiva il busto di Giuseppe Parini (1856, riportata da G. Chiarini, in Memorie della vita di G. Carducci, pp. 409-413) che testimonia chiaramente il forte ascendente sul D. di Carducci, il quale l'anno precedente aveva indirizzato una canzone allo stesso scultore ravennate (A Enrico Pazzi quando scolpiva il busto di V. Alfieri e altri d'altri illustri uomini) e del programma classicista e purista degli "amici pedanti".
Altrettanto importante dell'amicizia con Carducci fu infatti il legame che lo unì a G. Chiarini, il quale lo spronò incessantemente a scrivere per le riviste che dirigeva. Sulla Rivista italiana di scienze, lettere ed arti colle effemeridi della PubblicaIstruzione di Torino il D. pubblicò Seconde "Giunte e osservazioni" al "Vocabolariodell'uso toscano compilato da Pietro Fanfani (VI [1865], pp. 197-200, 325-29; Recensione del "Saggio di uno studio sopra i parlari vernacoli della Toscana" di Gherardo Nerucci (V [1865] pp. 2655 s.); Recensione del volume "Sul vivente linguaggiodella Toscana" di G. B. Giuliani ([1865], pp. 353-57, 369-73, 385-90). Su L'Ateneo italiano di Firenze pubblicò Note filologiche (nn. 21genn., 4 febbr., 11 marzo 1866, pp. 38 ss., 72 ss., 151-54). Con questi scritti il D. si conquistò una notevole fama di filologo finissimo e competente anche se, qualche decennio più tardi, un suo allievo, R. Renier, avanzò qualche riserva su un'impostazione filologica come la sua, nutrita esclusivamente di letture dei classici, senza alcuna attenzione ai risultati delle ricerche scientifiche della contemporanea scuola filologica tedesca.
In effetti il metodo e la cultura del D. sono di carattere completamente diverso da quelli dominanti, poi, in piena epoca positivista. L'erudizione, la larghissima cultura, testimoniate da tutti coloro che lo conobbero, e soprattutto un'attitudine opposta a quella scientifica, fondata piuttosto sulle inclinazioni personali e sulla pratica assidua di lettura dei testi: queste sono le caratteristiche dell'esercizio filologico eseguito dal D., che poteva perciò innalzare su una base documentaria attendibile e accurata interpretazioni fantasiose e persino bizzarre, come nel saggio Della maniera d'interpretare le pitture ne' vasi fittili antichi ritrovata e dimostrata ... (Firenze 1861), la cui ipotesi centrale è che le pitture sui vasi fittili antichi siano decifrabili come rebus o indovinelli. Recensendo l'opuscolo (su La Nazione, 23 sett. 1861, poiin Ceneri e faville, s. 1, Bologna 1920, pp. 229 ss.), Carducci apprezzava la maestria del filologo e ne sottolineava la capacità di "divinazione archeologica".
Le dissertazioni filologiche del D. sono caratterizzate dalla stessa cura puntigliosa per le scelte lessicali e le costruzioni stilistiche, nel nome del purismo classicista, delle composizioni in versi già ricordate e degli scritti in prosa, come Notizie storiche della Madonna del Soccorso e della suacappella (Massa 1858); Della poesia popolare scritta (Firenze 1862; estratto da L'Italia - Veglie letterarie, I, nn. 13-14); Inlode di Cosimo Mariani buonanima ... (Siena 1864); In lode di Giovacchino Rossini. Discorso letto nel liceo "Raffaello", 17 marzo 1869 (Urbino 1869); Lettereinedite di Pietro Giordani a Giuseppe Ligidi Urbino, pubblicate da F. Donati (ibid. 1870); e Sull'insegnamento della linguanelle scuole elementari (Imola 1874), che è di questi lo scritto più interessante. Qui infatti il D. espone con chiarezza e lucidità il suo metodo didattico, a proposito dell'utilità dell'insegnamento della lingua attraverso la grammatica nella scuola elementare, rigettando impostazioni rigidamente tecnicistiche e astrattamente normative, a favore di un insegnamento fondato sulla lettura, la conoscenza e l'apprezzamento dei testi letterari, senza mediazioni e operazioni riduttive. Naturalmente anche in questo caso il D. sostiene l'eccellenza dei testi trecenteschi come indispussi modelli del bello scrivere e della lingua italiana.
Numerose sono le testimonianze di ex allievi sulla straordinaria maestria del D. come insegnante; scrive R. Renier: "La scolaresca loadorava, nonostante gli scatti del suo indomito temperamento. Lo adorava perché sentiva in lui il vero maestro, innamorato dei classici, innamorato dell'arte, largo di pensiero, efficace nella dizione, variamente ed elegantemente dotto" (p. 13) - Pascoli, che lo ebbe come insegnante nel collegio di Urbino (anno scol. 1870-71) in prima liceo, lo ricorda "ingegno elegante e ardito, anima fiera e gentile ... efficacissimo maestro e puro e nervoso scrittore" e gli attribuisce il merito di averlo avviato all'ammirazione per Carducci.
Dopo i primi anni al "S. Giovannino" di Firenze, il D. insegnò a Pietrasanta, ad Empoli, al collegio di Urbino (1865-72) e infine a Imola (su presentazione e raccomandazione di Carducci), dove rimase fino all'agosto 1876, quando, ammalato, si ritirò a Seravezza, dove morì il 5 luglio 1877.
A di poche settimane prima l'ultima visita che gli fece Carducci insieme al Chiarini, che ne fissò poi il ricordo (Memorie della vita di G. Carducci, pp. 199-203).
La sua carriera scolastica fu alquanto travagliata dai ripetuti contrasti con le superiori autorità religiose e specialmente con l'Ordine degli scolopi, dovuti al suo temperamento indocile, ribelle e collerico, ma anche al sospetto di scarsa ortodossia dottrinale e di filomazzinianesimo che fu avanzato dai superiori. Qualche documento in merito è stato pubblicato da P. Vannucci che rimanda, per ulteriore documentazione, alle lettere inedite custodite nell'Archivio generalizio scolopio di Roma e nell'Archivio provincializio scolopio di Firenze. Certo è che nel 1866 il D. chiese l'interessamento del Chiarini per conseguire l'abilitazione per l'insegnamento della letteratura italiana nei licei (la ottenne il 24 dicembre di quell'anno), progettando di abbandonare l'Ordine e di proseguire tuttavia l'insegnamento. Effettivamente, per un certo periodo, abbandonò l'Ordine scolopio, con un regolare decreto di secolarizzazione, continuando ad insegnare, e fu riammesso nell'Ordine poco prima di morire. Queste vicende precisano il profilo di una figura intellettuale e umana come quella del D. che risulta molto più interessante in tale senso che per la sua scarsa produzione a stampa. Anche per questo i suoi scritti più significativi sono seriz'altro compresi nel carteggio, dove sono esaltati, a seconda degli interlocutori, più o meno celebri, gli aspetti salienti del suo temperamento, della sua cultura e della sua vitalità, nonché della sua scrittura che qui abbandona i paludamenti e le pedanterie dello stile artificiosamente trecentista, per acquistare in vivacita e pregnanza espressiva. Soprattutto dalle lettere emergono i tratti di un personaggio attivo e contraddittorio, fortemente legato a una fase di vita culturale e politica specifica della vicenda storica toscana e versiliese in particolare.
Convinto liberale, il D. fu in effetti partecipe a suo modo del clima patriottico risorgimentale, dal suo particolare versante di classicista e di purista che lo portava a individuare nella tradizione letteraria nazionale la motivazione più profonda di una rivendicazione di identità e di autonomia legittimata dalla intensa vita artistica e culturale dei secoli passati.
Fonti e Bibl.: Lettere di Cecco frate (F. D.), a cura di A. Pellizzari, Napoli 1918; G. Pascoli, Ricordi di un vecchio scolaro, in Limpido rivo, Bologna 1928, pp. 48-53; A. Grilli, Cecco frate e Giosuè Carducci in Imola, con lettere e documenti inediti e poco noti, Bologna 1936; G. Carducci, Epistolario (ed. naz.), I, Bologna 1938, pp. 105-11; II, ibid. 1939, pp. 4 ss.; IV, ibid. 1939, pp. 36 s.; IX, ibid. 1942, pp. 274 s.; G. Chiarini, Memorie della vita di Giosuè Carducci, Fìrenze 1903, pp. 65 s., 92, 110 ss., 199-203, 409-13, 455-57; Albo carducciano, a cura di G. Fumagalli-F. Salveraglio, Bologna 1909, p. 58; R. Renier, Un amico del Carducci, in Fanfulla della domenica, 1913, n. 9, pp. 1 s.; n. 10, pp. 1 s. (poi in Lettere di Cecco frate); R. Galli, Ceccofrate, Paolo Galeati e Giosuè Carducci, in La Romagna, XV (1924), 3, pp. 67-72; L. Viani, Il poeta dei cavatori. Un'erma a Cecco frate, in Il Corriere della sera, 21 nov. 1934, p. 5; E. Pasquini, Cecco frate, Firenze 1935; P. Vannucci, "Cecco frate", in Pascoli e gli scolopi, Roma 1950, pp, 55-101; Id., Un inedito di "Cecco frate", in Belfagor, XIII (1958), pp. 715-21; P. Treves, L'abate G. Tigri e la cultura del '59, in Nuova Riv. storica, XLIV (1960), I, pp. 112-52.