GUERRAZZI, Francesco Domenico
Scrittore e patriota, nato a Livorno il 12 agosto 1804, morto in una sua villa presso Cecina il 23 settembre 1873. Ebbe una fanciullezza scontrosa; della madre, popolana aspra e rozza, il G. parla sempre con molta, forse troppa severità; del padre, intagliatore in legno, ci ha invece lasciato un'immagine plutarchesca, nella quale però è certo da vedere un'idealizzazione dello scrittore; ma non mancarono screzî anche con lui, tanto che ancor giovinetto il G. fuggì di casa. Nel 1819, rappacificatosi col padre, si recò a Pisa a studiare legge, e dopo essere stato sospeso per un anno dagli studî per turbolenze solo in parte politiche, nel 1824 vi si laureò. A Pisa nel 1821 era arrivato il Byron, "uomo portentoso", come dice il G., che sembrava l'incarnazione dell'ideale tipo di poeta che le fantasie romantiche si erano costruito; la poesia di lui fu una rivelazione per il G., che appunto con alcune Stanze alla memoria di Lord Byron (Livorno 1825) esordì nella sua carriera di scrittore: un poema del 1824, La Società, anch'esso di spiriti byroniani, restò inedito fino al 1899. Seguirono in unico volume (Livorno 1826), una tragedia, Priamo, mai rappresentata, e due prose: Sul bello, che discute il sermone montiano Sulla mitologia e altre questioni consuete alla polemica classico-romantica, e Sulla lingua, che prende lo spunto dalla Proposta montiana. Un'altra tragedia, I Bianchi e i Neri, fu poco di poi fischiata a Livorno, ma raccolse plausi pubblicata in volume nel 1827: in quell'anno stesso e nel successivo uscirono, sempre a Livorno, i quattro volumi della prima delle opere maggiori del G., La battaglia di Benevento, in cui già si palesavano le qualità che resteranno pressoché costanti nello scrittore: un vivacissimo amor patrio, che a volte appare addirittura frenetico; sfrenatezza di passioni, stile gonfio e convulso, baroccheggiante, pur con pretensioni e pesantezze classicistiche; ricercata preziosità di lingua; predilezione per le tinte cupe, sino all'atroce e al macabro. Il G. più di una volta affermò di aver voluto fare poemi più che romanzi, e si vantò della sua "prosa poetica", come di quella che meglio di ogni altra gli serviva a raggiungere il suo scopo, politico più che estetico. Visibili le tracce dell'influenza che su di lui esercitarono in varia misura lo Scott e i romantici lombardi, lo Sterne e il Foscolo: ma il Byron fu il suo costante modello.
Con la Battaglia dî Benevento il G. è nel pieno della sua opera di propagandista delle idee nazionali e liberali. Quasi a prosecuzione dell'Indicatore genovese del Mazzini, soppresso nel' 28, fonda l'Indicatore livornese, di cui uscirono 48 numeri, dal 12 gennaio 1829 all'8 febbraio 1830; il 19 marzo di quello stesso anno sbalordisce i "bempensanti" suoi colleghi dell'Accademia Labronica di Livorno, pronunziando in memoria del generale napoleonico livornese C. Delfante un'infocata orazione. Questa gli fruttò una relegazione di sei mesi a Montepulciano, durante la quale cominciò l'Assedio di Firenze, e scrisse quella Serpicina, satira rapida e gustosa della giustizia umana e della vita forense, che, rimaneggiata radicalmente, fu pubblicata solo tra gli Scritti nel 1847, e resta tra le cose più felici del G.
Finita la relegazione, si stabilì per poco a Firenze, dove partecipò a un eroicomico tentativo organizzato da G. Libri per costringere il granduca a firmare la costituzione (1830). Tornato a Livorno, tenuto sempre d'occhio dalla polizia, dovette, accusato di mene rivoluzionarie, scontare un mese di carcere (agosto-settembre 1832) e poi ancora altri tre mesi di mite prigionia nel forte della Stella a Portoferraio (settembre-dicembre 1833), dove scrisse le Note autobiografiche (pubblicate poi da R. Guastalla a Firenze nel 1899), e condusse quasi a termine l'Assedio di Firenze, che, pubblicato la prima volta sotto il nome di Anselmo Gualandi a Parigi nel 1836, fu nelle sue molte edizioni lo scritto del G. più avidamente letto e che più di ogni altro suo contribuì alla propaganda per l'indipendenza. "Pieno di pazzie byroniane" lo trovava il Niccolini, ma il Mazzini ravvisava nel suo autore l'anima di un titano, un po' Aiace, un po' Capaneo. La predilezione per gli atteggiamenti gladiatorî, lo stile virulento, gonfio, ansimante, il rigurgito delle imprecazioni e delle bestemmie, la frequenza delle digressioni e delle apostrofi, ne rendono faticosa e nel complesso ingrata la lettura ai moderni, ormai fuori dell'atmosfera di quegli anni, rovente per sensi patriottici compressi e per il divampare della seconda fiammata del romanticismo italiano.
Seguirono, ai primi del '39, per una strenna livornese, un racconto, La duchessa di S. Giuliano, che dopo la 3ª edizione s'intitolò Veronica Cybo, duchessa di S. Giuliano; a Firenze nel 1844 uscì Isabella Orsini, duchessa di Bracciano, e nel 1847 una raccolta di Scritti in cui, oltre alla Veronica Cybo e alla Serpicina e a molte altre cose minori, comparve il racconto I nuovi tartufi. Ma questi sono per il G. essenzialmente anni di raccoglimento, di scarsa attività letteraria e politica e per converso d'intensa ed economicamente proficua attività professionale: raccoglimento da cui lo traggono i grandi avvenimenti del '48-'49, dei quali il G. è magna pars in Toscana. Imprigionato per poche settimane (6 gennaio-22 marzo 1848), fu più tardi eletto deputato e si adoperò a ristabilire l'ordine nella sua Livorno, non senza però che il suo desiderio d'incontrastato dominio gli facesse assumere arie dittatoriali inopportunamente contrastanti col governo centrale. Dimessosi intanto il gabinetto Capponi, il G. fu da G. Montanelli scelto a ministro dell'Interno; l'8 febbraio 1849, fuggito il granduca, egli costituì col Montanelli e con G. Mazzoni un governo provvisorio; il 27 marzo fu eletto capo del potere esecutivo, cioè di fatto dittatore. Non esitò dinnanzi a provvedimenti estremisti, che più tardi affermò essergli stati estorti da bande livornesi rivoluzionarie venute a Firenze, mentre quelle bande erano in effetti emanazione sua; ma suo massimo errore in questo periodo fu il non aver voluta l'unione della Toscana con Roma insistentemente chiesta dal Mazzini, che forse avrebbe reso più difficile nelle due provincie la restaurazione dei vecchi governi. Restaurato a Firenze col colpo di stato del 12 aprile il principato costituzionale, il G., pur essendo in un primo tempo autorizzato e invitato alla fuga, preferì rimanere, onde al ritorno del granduca s'imbastì contro di lui un lungo processo, in cui il G. si difese con grande eloquenza e abilità procedurale. Condannato a 15 anni di ergastolo, la pena gli fu subito commutata nell'esilio in Corsica (1853); dall'isola fuggi più tardi, e nel 1857 ottenne da Cavour di risiedere a Genova, dove restò sino al 1862, non avendo voluto dopo il '59 far ritorno in Toscana, se non a patto di esservi solennemente richiamato e accolto con grandi dimostrazioni di onore: al che B. Ricasoli si oppose per timore di torbidi.
Gli anni della prigionia e dell'esilio sono letterariamente fecondissimi. Nel 1853 furono pubblicati a Pisa Il marchese di S. Prassede o la vendetta paterna, racconto scritto in carcere, e Beatrice Cenci, storia del sec. XVI, che però era terminata già nel 1850. "Delirio continuo, manifestato talora con scrosci di riso, tale altra con ruggiti": cosi il G. stesso definiva la sua opera che, intesa essenzialmente a una feroce propaganda anticlericale, indulge più che tutte le altre opere del G. al gusto del macabro e del mostruoso morale. Anche l'Asino fu cominciato in carcere; ampliato in Corsica, apparve a Torino nel 1857: esso in sostanza sviluppa, non senza lungaggini e monotonia, il motivo fondamentale della Serpicina. Pure del 1857 e tutti stampati a Torino, sono i due racconti La torre di Nonza e Pasquale Sottocorno, e Fides, "fantasia"; l'anno successivo apparve nella Rivista contemporanea di Torino, e poi subito in volume nella stessa città, l'altro racconto Storia di un moscone, di argomento corso come già La torre di Nonza, che prelude al più importante tra gli scritti di questa seconda serie, Pasquale Paoli ossia La rotta di Pontenuovo (Milano 1860).
Irriducibile e astioso avversario del Cavour e poi dell'"empia setta dei moderati" il G., sebbene deputato fino al 1870, partecipò via via sempre meno alla vita politica, crucciato che non gli si facesse nella cosa pubblica quel posto a cui gli sembrava d'aver diritto. Ma d'altra parte egli era troppo fazioso e insofferente di quanto fosse di ostacolo all'esaltazione di sé stesso, per poter governare saggiamente o per poter equamente giudicare l'opera altrui: onde assunse negli ultimi anni la parte odiosa di perpetuo profeta di sciagure. A quest'ultima fase della sua vita risalgono, oltre a un tentativo d'illustrare la storia d'Italia con una serie di plutarcheggianti biografie, rimasto interrotto dopo i primi volumi, Lo assedio di Roma (Livorno 1863-65), Paolo Pelliccioni (Milano 1864), La figlia di Curzio Picchena (dapprima con altro titolo nell'Opinione nazionale di Firenze, 1867-68, parzialmente; poi nella Gazzetta di Milano, 1869; infine postumo in volume, Milano 1874); Destino (dapprima nel Romanziere contemporaneo, 1868-69, poi in volume, Milano 1869), Il Castello di Pentidattilo (Torino 1868), e l'opera più serena e artisticamente più notevole del G., Il buco nel muro (Milano-Torino 1862), col suo poco felice seguito, Il secolo che muore (pubbl. per intero postumo, Roma 1885).
Il buco nel muro, in cui il G. dipinse sé stesso nel burbero Orazio e il nipote Franceschino, a cui fece da padre e per il quale nutrì sempre un affetto tenerissimo, nello scapato Marcello, basterebbe da solo a mostrare come il calore del sentiment0 e l'entusiasmo per la patria e il bene e il bello, fossero nel G. genuini, e non soprastrutture rettoriche, come la falsità artistica complessiva delle sue opere maggiori spingerebbe a credere. E la riprova di ciò si ha nelle lettere, specie in quelle non destinate alla pubblicità. Il Mazzini rinunciò nel 1830 a iscriverlo tra i carbonari: pur ammirandone l'ingegno, intuì che il G. non era uomo da annullare sé stesso in una gerarchia, e di fatto anche dalla Giovine Italia egli si staccò presto. Certo, un esasperato individualismo sta alla base dei molti suoi errori politici, ma questi non sono tali da superare il gran bene che i suoi scritti fecero alla causa del Risorgimento, né da far dimenticare che il G. seppe, e più di una volta, pagare di persona.
Bibl.: Cfr. anzitutto gli scritti autobiografici: Note autobiografiche, cit.; Memorie, 1ª ed., Bastia 1848; Apologia della sua vita politica, Firenze 1851; Appendice all'Apologia, ivi 1852; Discorsi davanti la corte regia di Firenze, ivi 1853; Orazione a difesa, ivi 1853; e parecchi altri volumi, tutti stampati a Firenze in quegli anni, contenenti la storia e i documenti del processo di lesa maestà; Guerrazzi difeso da messer Arlotto Mainardi, Genova 1860 (dapprima nel mensile Piovano Arlotto, 1860), V. poi le Lettere, a cura di G. Carducci, Livorno 1880-1882, voll. 2, e di F. Martini, Torino 1891: ambedue le raccolte sono incompiute. Inoltre: R. Guastalla, La vita e le opere di F. D. G., I (1804-1835), Rocca S. Casciano 1903 (solo pubbl.); B. Croce, in lett. d. nuova Italia, I 3ª ed., Bari 1929, pp. 27-44; F. Lopez-Celly, F. D. G. nell'arte e nella vita, Milano-Roma-Napoli 1918; F. Martini, Due dell'estrema: il G. e il Brofferio, Firenze 1920; F. D. G. - Studi e docum. a cura del Comit. tosc. per la st. del Risorg., Firenze 1924; P. Miniati, F. D. G. (guida bibl.), Roma 1927.