DIEDO (Diedus, Dedus Didius), Francesco
Figlio di Alvise di Marco, del ramo di Ss. Apostoli dell'antica famiglia appartenente al patriziato veneziano, e di Creusa di Giovanni Boldù, nacque nella prima metà del secolo XV, probabilmente intorno al 1435.
Morì infatti nel 1484 e un suo epitaffio contenuto nel cod. 1366 della Biblioteca comunale di Verona (f. 24v) afferma "Non potuit denas flectere olympiadas". Primogenito di nove figli (sette maschi e due femmine), sposò nel 1465 una figlia di Antonio Erizzo, che gli diede due figli, Pietro e Luigi, e una figlia.
Quando l'imperatore eletto Federico III, nella primavera del 1452, passò per Venezia durante il viaggio per Roma, dove doveva ricevere la corona imperiale dal papa, fu accolto da Alvise Diedo a nome della Serenissima: egli e il D. vennero creati in quest'occasione conti palatini.
Il D. seguì le lezioni di Paolo della Pergola, che fu a capo della scuola di Rialto dal 1421 al 1454, ed anche di Ognibene da Lonigo. Passato nel 1456 all'università di Padova, vi studiò, insieme con Bernardo Bembo, prima filosofia e poi giurisprudenza, seguendo i corsi di Angelo Ubaldi; conseguì il dottorato in utroque in data non precisata, ma da fissare intorno al 1463.
Già nel periodo universitario il D. ebbe occasione di distinguersi: non erano ancora passati due anni dall'inizio degli studi accademici e già era in grande stima presso tutti; fu scelto infatti per porgere le congratulazioni dell'università di Padova a Pasquale Malipiero in occasione dell'elezione al dogado, avvenuta il 31 ott. 1457. Assistette varie volte come teste al conferimento di licenze e dottorati da parte dell'università di Padova, e il 20dic. 1458 tenne per il nobile vicentino Bartolomeo Pagliarini la Laudatio previa al conferimento del dottorato in giurisprudenza, esaltando le nobili virtù del candidato: nella Laudatio il D. trovò anche il modo di esaltare la propria famiglia.
Nello stesso anno 1458 il D. fu coinvolto in una polemica con Francesco Barozzi, professore di diritto canonico, nipote di Paolo II e più tardi vescovo di Treviso, che l'avrebbe ingiuriato. Il D. si abbandonò ad una veemente invettiva in forma di lettera scritta da un amico del Barozzi, Daniele Campolongo. Nel 1460 il D. venne eletto rettore. In quegli anni molti studenti dell'università di Padova andavano ad addottorarsi altrove a causa delle spese troppo elevate che vi si dovevano sostenere. Il D. volle rimediare a tale deplorevole situazione: dietro sua richiesta fu istituita una commissione, della quale facevano parte, oltre al D. stesso, Bernardo Bembo e due studenti della nazione alemanna, Giovanni Rebeim e Sisto Tamberger. Poiché in base agli statuti vigenti l'argomento non poteva nemmeno essere posto all'ordine del giorno, occorreva prima procedere ad una revisione di questi statuti. Su domanda della commissione furono emanate alcune nuove norme. Nel 1463 il D. risiedeva ancora a Padova dove, in occasione della morte di Vittore, suo fratello minore, il vicentino Leonello Chiericati compose un dialogo consolatorio pieno di elogi per il D.: Dialogus ... in quo et consolatio magnifici Francisci Didii et consultatio de mittendis orationibus quas traduxit ... continetur. Nella parte finale il D. compare come uno dei tre interlocutori che tentarono, con successo, di convincere Leonello a spedire a Niccolò d'Este le sue traduzioni latine di due orazioni parenetiche di Isocrate, ANicocle e Nicocle. Accanto a Bernardo Bembo e Angelo Ubaldi il D. appare come interlocutore anche nel dialogo De Constantini donatione, composto da Giangiacomo Can, professore di diritto a Padova; questi dedicò all'umanista veneziano una seconda opera, il De arbitris, con la richiesta di attenta revisione prima di un'eventuale diffusione.Compiuti gli studi, il D. entrò nel servizio politico e diplomatico della Serenissima, come altri membri della sua famiglia (ad es. due suoi omonimi ricoprirono alcuni uffici proprio nel medesimo periodo: Francesco, figlio di Pietro, e Francesco, figlio di suo zio Antonio). Nel 1464 il D. fu spedito alla corte di Sigismondo d'Austria-Tirolo, dove tra l'altro doveva tentare di metter fine alle incursioni in territorio veneto e alle scaramucce nella Pieve di Ledro. Nell'unica lettera conservataci della corrispondenza tra il D. e Lodovico Foscarini, quest'ultimo si congratulava con lui. Nel 1465 fu uno dei cinque savi agli Ordini, e il 2 apr. 1467, ricoprendo ancora la stessa funzione, fu eletto ambasciatore presso Mattia Corvino re d'Ungheria, in sostituzione di Francesco Venier. Pochi mesi dopo, e sicuramente nell'agosto 1467, era già a Buda. Benché non autorizzato, prese parte quasi immediatamente ai negoziati condotti dagli Ungheresi per arrivare ad un trattato di pace con i Turchi. Successivamente ottenne l'autorizzazione di proseguire le trattative con lo scopo di giungere ad una tregua più lunga possibile, con l'esplicita condizione che le navi da guerra turche intercettate fuori dei Dardanelli potessero essere catturate senza che tale atto significasse violazione della tregua. Mentre le discussioni in Ungheria si protraevano, venne spedito direttamente alla Porta l'ambasciatore veneziano Leonardo Boldù, ma benché i Turchi stessi avessero chiesto di negoziare non ne sortì alcun risultato positivo. Il 12 maggio 1468 venne dunque dato al D. l'ordine di continuare i negoziati in Ungheria e solo due mesi più tardi gli fu permesso di tornare a Venezia.
Anche in Occidente la situazione non era facile per Venezia: nel 1467 la Francia aveva proibito l'importazione di tutte le spezie trasportate con navi battenti bandiera straniera; la potenza marittima più forte dell'epoca fu perciò spinta a cercare legami più stretti con la Borgogna. D'altra parte sia il re di Francia sia il duca di Milano tentavano continuamente di espandere la loro influenza e il loro territorio a spese di Amedeo IX, duca di Savoia. Gli interessi comuni a Venezia e alla Savoia trovarono espressione in un patto difensivo contro Milano sottoscritto per Venezia da Antonio Dandolo.
Il 5 ag. 1469 il D. venne nominato ambasciatore a Chambéry in sostituzione del Dandolo che si era recato a Bruges presso il duca di Borgogna. Arrivato in settembre, il D. informò il duca di Savoia del trattato concluso tra Venezia e il papa e della mobilitazione delle truppe veneziane a causa della resistenza di Rimini contro Paolo II, che voleva prendere possesso della città dopo la morte di Sigismondo Malatesta. Il D. istigò ugualmente Amedeo a fare preparativi di guerra diretti contro il duca di Milano e forse con troppo calore, viste le nuove istruzioni speditegli il 27 ottobre.
Un punto di divergenza tra i due alleati era la questione di Cipro, dove il fratello di Amedeo, Luigi, sposato con l'unica figlia del defunto re Giovanni di Lusignano, aveva invano tentato di impossessarsi del potere sottraendolo al figlio naturale del re, Giacomo, sposato dal 1468 alla nobile veneziana Caterina Corner, e sostenuto da Venezia. A causa della grave malattia di Amedeo, il governo dello Stato sabaudo fu assunto dalla moglie Jolanda che, oggetto allo stesso tempo di minacce e adulazioni da parte dei potenti vicini, finì col concludere un patto col fratello Luigi XI, re di Francia, senza tuttavia recar pregiudizio agli interessi veneti, come si desume dalla lettera diretta dalla Serenissima al D. il 9 febbr. 1470.
Pochi mesi più tardi il D. tornò a Venezia e il 6 ag. 1470 assunse la carica di capitano a Vicenza. Rimase in questa città fino alla fine dell'anno seguente: il 29 dic. 1471 gli succedette Francesco Giustiniani. Nel luglio 1472 il D., di nuovo a Venezia, è menzionato fra i savi di Terraferma. L'11 agosto gli fu commesso l'incarico di recarsi il più presto possibile a Urbino dove avrebbe dovuto trovarsi assolutamente il 17 per assistere alle esequie della moglie del duca Federico III.
Non si sa cosa sia esattamente successo: il 15 venne infatti di nuovo eletto per la stessa missione, con minaccia, in caso di rifiuto, di 500 ducati di multa. Poiché avrebbe dovuto discutere altri e più importanti affari col duca, fu autorizzato a prendere con sé 12 cavalli da Ravenna. Rientrato dalla missione, il 1º apr. 1473 assunse l'ufficio di podestà e capitano di Ravenna, dove era morto Antonio Dandolo, rettore in carica. Il D. arrivò in città il 4, e già nel mese seguente dovette prendere misure energiche contro Carlo Manfredi, signore di Faenza, che aveva contestato la giurisdizione della Serenissima e addirittura costruito su territorio veneto alcune fortificazioni che il D., secondo le istruzioni, avrebbe dovuto distruggere quanto prima. Nel primi mesi del 1474 dovette frenare la cupidigia del clero cittadino, che aveva già ottenuto dal papa il permesso di vendere una grande tavola d'argento della basilica Ursiana. Il 6 settembre dello stesso anno le sue mansioni ebbero termine e il 14 settembre entrò in carica Luigi Da Lezze suo successore. Il D. ritornò a Venezia dove prese nuovamente posto tra i savi di Terraferma. La sua posizione si era ormai pienamente consolidata, come prova la decisione di far coniare da Bertoldo una medaglia con la sua effigie. Nella primavera del 1475 il D. venne designato capitano di Bergamo, come risulta da una sua lettera del 31 maggio indirizzata a Barbara, marchesa di Mantova. Assunse la carica il 20 luglio ed ebbe l'incarico di controllare, insieme con Candiano Bollani e Zaccaria Barbaro, capitano di Verona, i beni di Bartolomeo Colleoni, in modo che, alla morte di questo, prendessero la strada di Venezia; i parenti dovevano essere tenuti alla larga con vaghe promesse. Dopo la scadenza del mandato bergamasco (Giovanni Mauro, suo successore, entrò in carica l'11 dic. 1476), il D. prese posto nuovamente tra i savi di Terraferma.
L'8 marzo 1478 subentrò a Giovanni Emo come capitano di Brescia, ma lo scoppio di una violenta peste lo costrinse ben presto a fuggire per qualche mese a Gussago. La peste fu anche causa del ritardo con cui, il 23 luglio 1478, il D. e il collega Eustachio Balbi si congratularono con Federico Gonzaga per la successione nel Marchesato.
Al D. fu affidata una delicata e difficile missione quando, il 1º ott. 1479, venne inviato ambasciatore presso il duca di Milano. Il fluttuare dei rapporti di potenza tra gli Stati italiani influì sulle relazioni tra Venezia e Milano, che nei primi mesi del 1480 giunsero ad un trattato di pace, concluso il 13 marzo. Ma il patto tra Venezia e il papa del 17 apr. 1480 rapidamente deteriorò le relazioni tanto che il D. arrivò a temere per la propria incolumità e domandò con insistenza di essere sollevato dall'incarico. Probabilmente le minacce erano partite dal duca stesso, che infatti il 15 giugno congedò l'ambasciatore veneziano. Il D. prese allora posto tra i savi del Consiglio. Qualche mese più tardi, quando Zaccaria Barbaro, ambasciatore alla corte papale, dovette essere sostituito, la scelta cadde sul D., che rifiutò. Il 22 genn. 1481 fu scelto Giovanni Emo, che pure rifiutò. Il 6 febbraio, durante una terza riunione, fu scelto di nuovo il D., che dopo un ulteriore rifiuto, accettò il 17 febbraio.
Durante il viaggio a Roma, il 10 maggio 1481 sostò a Ferrara, dove presentò al duca Ercole I d'Este le lamentele di Venezia per la violazione continua degli accordi. Si inaspriva infatti il conflitto tra Ferrara e Venezia e alla corte papale era necessario un ambasciatore astuto e tenace per tenere viva la fragile concordia tra Venezia ed il suo unico alleato italiano, la S. Sede. Il D. entrò a Roma il 10 giugno; quattro giorni più tardi fu ricevuto da Sisto IV. Per vari mesi riuscì a neutralizzare i tentativi di Arcamonio Anello, ambasciatore napoletano, che con ogni sorta di intrighi e promesse cercava di avvicinare Sisto IV agli Aragonesi di Napoli tramite Girolamo Riario, cugino e consigliere del pontefice. Nei primi mesi del 1482 la situazione divenne incandescente e il D. si vide costretto a difendere la posizione della Serenissima in una commossa orazione pronunciata il 5 gennaio davanti al papa. In questo agitato periodo le istruzioni da Venezia giungevano a ritmo serrato; spesso arrivavano più lettere in uno stesso giorno. Finalmente, con un'opera assidua di fine diplomatico, riuscì a raggiungere il suo obiettivo e il 30 aprile, alle 3 di notte, poté annunziare alla Signoria che il papa appoggiava incondizionatamente la politica veneziana. Già il 3 maggio le truppe della Repubblica invadevano Ferrara e davano inizio al conflitto. Insieme con Girolamo Riario il D. passò in rassegna le truppe papali il 24 maggio; due mesi più tardi entrambi si recarono incontro a Roberto Malatesta, mandato dalla Serenissima per proteggere lo Stato papale. Ma l'alleanza tra Venezia e il papa doveva sciogliersi verso la fine dell'anno: il papa concluse il 12 dicembre una pace separata con Napoli, Milano e Firenze. Le relazioni tra Sisto IV e Venezia si deteriorarono ulteriormente quando il papa cominciò a fare preparativi per partecipare attivamente alla lotta contro Venezia. Quando il D. venne messo al corrente di tali piani, ne informò la Signoria, che il 14 febbr. 1483 decise di metter fine alla presenza del proprio ambasciatore a Roma.
Poco dopo il ritorno a Venezia, al D. fu affidata la podesteria di Verona, carica assunta il 23 apr. 1483.
Il giorno seguente scrisse a Federico Gonzaga per comunicargli la nomina. Ricordando le ottime relazioni che aveva intrattenuto soprattutto a Roma col cardinal Francesco Gonzaga, offrì al marchese i propri servizi. Lo stesso giorno gli indirizzò, insieme con il collega Francesco Marcello, un'altra lettera per concedergli il permesso di far passare, attraverso il territorio della Republica, cavalli presi in Germania. Nei mesi seguenti il D. dovette intervenire varie volte, da solo o insieme con F. Marcello, presso il marchese per affari di minor importanza, come la restituzione di cavalli rubati e il risarcimento di danni sofferti.
Svolse questa missione fino alla morte, che lo colse improvvisamente a Verona il 25 marzo 1484.
Il corpo venne trasportato a Venezia via l'Adige per essere sepolto nella cripta mortuaria della famiglia nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo.
Gli impegni politici del D., non molto diversi da quelli dei suoi familiari e di tanti altri patrizi veneziani dell'epoca, non lo distolsero completamente dalle inclinazioni e attività letterarie, già manifestatesi nei primi anni universitari: lesse avidamente libri non solo di diritto, ma anche di letteratura classica e medievale, di filosofia e patristica. Nel periodo 1452-1456 ebbe in prestito da una sola persona, il nobile Girolamo Molin, più di quindici manoscritti.
Più tardi il D. si dedicò attivamente alla composizione di opere latine in prosa e in versi. È però da avvertire che le poche rime scritte da un Francesco Diedo e conservate nel cod. Marc. ital. IX. 363 (7386), autografo di Marino Sanuto, sono probabilmente attribuibili al figlio di un cugino, Francesco di Baldassare Diedo, essendo state composte nel luglio 1495. A un amico non meno avido di lettere latine e greche, Marco Aurelio (1435-1478/9 c.), segretario della Serenissima e genero di Niccolò Sagundino, il D. dedicò il 15 marzo 1470 la traduzione latina della novella X, 8 del Decameron (cod. Vat. lat. 5336). La storia degli amici Tito e Gisippo, che più tardi, grazie soprattutto alla traduzione ugualmente latina di Filippo Beroaldo, avrà enorme diffusione, ricevette veste latina probabilmente per la prima volta da lui, essendo la traduzione di Jacopo Bracciolini (mss. a Firenze, Bibl. Laurenziana, Plut. 89 inf., cod. 16, ff. 47r-57r ed a Roma, Bibl. Angelica, cod. 141, ff. 137r-146r) approssimativamente databile tra il 1462 e il 1478. Sulle orme di Francesco Petrarca e di Leonardo Bruni, il D. la tradusse per trovare sollievo "inter graviora litterarum studia" dopo la conclusione del soggiorno diplomatico a Chambéry. Come il Bracciolini, il D. scelse di tradurre piuttosto liberamente, cercando di adornare lo stile con ripetizioni e sinonimi. Talvolta la traduzione riesce chiara solo con l'aiuto del testo italiano; in altri casi è chiaramente erronea, forse anche per anomalie o errori della copia del Decameron a disposizione dell'umanista.
Di studi letterari più severi diede prova l'anno seguente traducendo durante il capitanato a Vicenza il De bello et pace di Isocrate. Con lettera dedicatoria del 1º ag. 1471 offrì il manoscritto autografo (Venezia, Bibl. d. Civico Museo Correr, cod. 313) di questa prima traduzione latina a Lodovico Foscarini in occasione della nomina a procuratore di S. Marco. Spiccano nell'introduzione al trattato gli interessi eminentemente politici dell'autore, che dichiara di aver compiuto il lavoro con tanto maggior piacere perché proprio in quel periodo l'opera avrebbe potuto essere molto utile alla Repubblica.
All'inizio del 1473 il D. aveva preferito il rettorato di Ravenna alla missione diplomatica a Napoli. Secondo la lettera indirizzatagli dall'umanista vicentino Bartolomeo Pagello, il Senato gli avrebbe lasciato libera scelta tra le due cariche; se Pagello, che esalta le qualità del corrispondente, fosse stato consultato prima, avrebbe consigliato di accettare l'ambasceria a Napoli sia nell'interesse della Serenissima sia per la fama dello stesso Diedo.
Col medico e poeta bergamasco Giovanni Michele Alberto Carrara il D. aveva già stretto amicizia negli anni padovani. All'inizio della carriera, il Carrara si lamentava di essere costretto, dopo la morte del padre Guido (1457), ad esercitare la professione di medico, abbandonando le Muse, che non gli avrebbero certo fornito i mezzi per mantenere una famiglia numerosa. Le relazioni col D. si intensificarono durante il capitanato a Bergamo. Nell'orazione funebre per Bartolomeo Colleoni il Carrara lo chiamava "praecipue nostra aetate orator et iureconsultorum omnium princeps". Non si dimentichi che L. Chiericati (cfr. Gualdo Rosa) aveva già fatto menzione della brillante attività oratoria del D., e in una poesia gli attribuiva qualità poetiche maggiori di quelle di Orfeo. Dello stesso periodo sono anche altre composizioni del Carrara, come l'epistola poetica scritta a nome della moglie del D., che lamentava di trovarsi per troppo tempo sola e trascurata, o la poesia nella quale il Carrara si rallegrava della convalescenza di Creusa madre del Diedo. In altra composizione poetica di tono ironico, il Carrara tentava di ricuperare le proprie opere rimaste troppo a lungo presso l'amico; il Carrara gli intitolò anche il De pestilentia. I motivi sono esposti nella lettera dedicatoria: l'ottimo amico corre maggiori rischi a causa dei tanti viaggi; forse questi consigli radunati durante tutta una carriera di medico potranno essergli utili.
Ancora un altro bergamasco, Marco Publio Fontana, offrì al D., capitano di Bergamo, una poesia del quarto libro dei suoi Heroica carmina. Poco tempo dopo il D. si trovava a Brescia, dove imperversava la peste. Fece voto a s. Rocco di far costruire una bella basilica in suo onore e di mettere per iscritto la sua Vita. Appena gettate le fondamenta dell'edificio la peste cessò; benché le occupazioni ufficiali e private gli lasciassero poco tempo, il D. volle tener fede anche alla seconda promessa e redasse in latino la Vita di s. Rocco offrendola alla città di Brescia con una lettera dedicatoria datata 1º giugno 1479.
Trasferitosi a Roma, il D. difese molto abilmente gli interessi veneziani con l'apologia del 5 genn. 1482. Al termine del soggiorno a Roma (v. 2: "Grata recessuro munera, Dedi, tibi"), il giovane padovano Andrea Brenta, professore nello Studio romano e segretario del cardinale Oliviero Carafa, gli offrì con un tetrastico la traduzione di alcuni brani di Ippocrate raccolti sotto il titolo: Hippocrates. De natura hominis (cfr. Miglio, 1972, p. 151).
All'inizio della podesteria veronese, che esercitò di nuovo, come a Bergamo, insieme al capitano Francesco Marcello, il D. fu accolto dal poeta Dante [III] Alighieri con un lungo e ampolloso carme, conservato nell'esemplare di dedica e ornato con lo stemma della famiglia (Venezia, Marc. lat. XII. 205 [4406]). Giovanni Stefano Buzoni da Salò gli dedicò il secondo libro dei suoi epigrammi, rievocando nel primo componimento tutta la carriera del Diedo. Il famoso maestro veronese Giovanni Antonio Panteo, ricevendo l'incarico di comporre il proemio dei nuovi statuti della Casa dei mercanti, volle celebrare le lodi della sua città natale con una sua poesia De laudibus Veronae. Prima di renderla pubblica la spedì al D. con una lettera del 7 gennaio 1484, pregandolo di leggere e correggere questa sua opera: il D. rispose molto gentilmente con un'elegante epistola datata il 1º marzo 1484, affermando che l'opera non aveva bisogno di correzione, anzi non la si sarebbe potuta lodare a sufficienza e che l'autore doveva consacrare tutto il suo tempo alle lettere, per le quali dimostrava tanto talento.
Pochi giorni dopo il D. assistette ad una festa pubblica, l'Actio Panthea, nella quale i discepoli del Panteo conferirono al venerato maestro la laurea poetica. Questi stessi letterati veronesi dedicarono al D., dopo la morte improvvisa, alcuni epitaffi colmi di elogi: cinque si leggono tuttora nel cod. 1366 della Biblioteca comunale di Verona, cc. 24r-25v.
Fonti e Bibl.: Bergamo, Bibl. civica A. Mai, codd. Gamma 2.37; Gamma 6, 8; Delta 7.7; Lambda 1. 17; Lambda 1. 18; Rho 67.5 (7); Sigma 2.59; Phi 2.4; Bologna, Bibl. comun. dell'Archiginnasio, cod. A. 172; Ferrara, Bibl. comun. Ariostea, cod. II. 162, ff. 60r-77v e 78r-94v; Archivio di Stato di Mantova, Fondo Gonzaga E 846; E 1431; E 1596; E 1599; Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Codd. lat. 350, ff. 122r-128r; Padova, Archivio della Curia vescovile, Libri diversorum, voll. 28 e 30, passim; Padova, Bibl. univ., cod. 239, ff. 34v-56v; Parigi, Bibl. nat., Mss. Lat. 8749, ff. 96r-101v; Archivio di Stato di Ravenna, S. Vitale, voll. 616 e 619; Notai di Ravenna, prot. 39, c. 499r; Ravenna, Archivio del Comune, Codice Ducali Venete, nn. 651-663, 665-688, 691, 729, 799; Deposito Testi, nn. 78, 83; Ibid., Archivio vecchio comunale, Cancelleria 7, nn. 51-56; Reggio Emilia, Bibl. municip., Cod. Turri F. 73; San Severino Marche, Bibl. comun., cod. 3 (CCV), ff. 14 ss.; Trento, Bibl. capitolare, cod. 258; Treviso, Bibl. comun., cod. 85, pp. 564 s.; Udine, Bibl. comun., Fondo Manin, cod. 1335 (76); Vicenza, Bibl. comun., Fondo principale, cod. 3.9.20; Archivio di Stato di Venezia, Deliberazioni Segr. Senato, voll. 22-30, passim; Miscell., Atti diversi, filza 6A (= Rei Ferrariensis liber); Misti, Segretario alle Voci, regg. 5, 6; Senato, Terra, regg. 6-8; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Morosini-Grimani 326, f. 55r; ibid. 313; Ibid., Bibl. naz. Marciana, Mss. Ital. VII, 16 (8305): G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, ff. 25v-27v; Mss. Ital. VII, 156 (8492), f. 28r; Mss. Ital. VII, 169 (8186), ff. 168v-169r; Mss. Ital. VII, 198 (8383), passim; Mss. Ital. VII, 313 (8809); A. Zeno, Alberi genealogici, ff. 122r-125r, 303r; Mss. Ital. VII, 926 (8595), II: M. Barbaro, Genealogie delle famiglie patrizie venete, ff. 55v-58r; Mss. Ital. IX, 363 (7386), f. 83r; Mss. Lat. XII, 205 (4406); Mss. Lat. XIV, 236 (4499), ff. 64v-76r; Mss. Lat. XIV, 251 (4685); Verona, Bibl. comunale, Mss. 1366, ff. 3r-24v; Bibl. apost. Vaticana, Vat. lat- 5336, ff. 45r-72v; Cod. Chig. J. VII. 266, ff. 89v-90r; Ildiario romano di Jacopo Gherardi da Volterra, in Rerum Italic. Script., 2 ed., XXIII, 3, a cura di E. Carusi, pp. 56-58, 86; Cronaca di anonimo veronese (1446-1488), a cura di G. Soranzo, Venezia 1915, pp. 314 s., 380 s., 392; B. Zambetti, Diario ferrarese dell'anno 1476sino al 1504, a cura di G. Pardi, Bologna 1934, p. 91; G. Angelini, Catalogo cronologico de' rettori di Bergonio, cioè de' podestà e capitani, Bergamo 1742, p. 42; A. Zeno, Dissertazioni Vossiane, II, Venezia 1753, pp. 56-62; D. Malipiero, Annali veneti dall'anno 1457al 1500, in Arch. stor. ital., VII, 1 (1843-44), p. 43; 2 (1844), pp. 244, 268, 278 e passim; M. Foscarini, Della letteratura venez. ed altri scritti intorno ad essa, Venezia 1854, pp. 74, 383; A. Capelli, Lettere di Lorenzo de' Medici ... con notizie tratte dai carteggi diplomatici degli oratori Estensi a Firenze, in Atti e mem. delle Rr. Deput. di storia patria per le provv. modenesi e parmensi, I (1863), p. 265; D. Pasolini, Delle antiche relazioni fra Venezia e Ravenna, Firenze 1874, pp. 228, 234 s.; V. Bressan, Serie dei podestà e vicari della città e territorio di Vicenza durante la signoria veneziana, Vicenza 1877, p. 135; B. Cecchetti, Una libreria circolante a Venezia nel sec. XV, in Archivio veneto, n. s., XXXII (1886), pp. 161-168; A. Heiss, Les médailleurs de la Renaissance. Venise et les Vénitiens du XVe au XVIIe siècle, Paris 1887, p. 181 e figg. XIII, 3 e XXVII, 2; A. D'Ancona-A. Medin, Rime storiche del secolo XV, in Bull. dell'Ist. stor. ital., VI (1888), pp. 17-35; F. Gabotto, Lo Stato sabaudo da Amedeo VIII ad Emanuele Filiberto, I-III, Torino-Roma 1892-1895, ad Ind. (in particolare II, pp. 13-30); P.-M. Perret, Histoire des relations de la France avec Venise du XIIIe siècle à l'avènement de Charles VIII, I-II, Paris 1896, ad Ind.; A. Segre, Delle relazion tra Savoia e Venezia da Amedeo VI a Carlo II (III) [1366-1553], in Atti della R. Acc. delle scienze di Torino, s. 2, XLIX (1898-1899), ad Ind.; S. Bernicoli, Governi di Ravenna e di Romagna dalla fine del secolo XII alla fine del secolo XIX, Ravenna 1898; F. Fossati, Sulle relazioni tra Venezia e Milano durante gli ultimi negoziati per la pace del 13marzo 1480, in NuovoArchivio veneto, n. s., X (1905), 2, pp. 179-239; Id., Sulla partenza degli oratori Leonardo Botta da Venezia e F. D. da Milano, ibid., XIV (1907), 2, pp. 229-257; E. Piva, La cessione di Ferrara fatta da Sisto IV alla Repubblica di Venezia (1482), con documenti, ibid., pp. 396-426; C. Perpolli, l'"Actio Panthea" e l'umanesimo veronese, in Atti dell'Acc. d'agric., scienze e lettere di Verona, s. 4, XVI (1915), pp. 5, 10, 50, 55-58, 93; Id., Maestro Colombino veronese alla corte dei Gonzaga nel sec. XV, ibid., XIX (1918), pp. 71-136; G. F. Hill, A corpus of Italian medals of the Renaissance before Cellini, I-II, London 1930, pp. 132, 242, nn. 505 s.; A. Loredana Zorzi, Caterina Cornaro, patrizia veneziana, regina di Cipro, Roma 1938, passim; B. Nardi, Saggi sulla cultura veneta del Quattro e Cinquecento, Padova 1943, passim; M. Brion, Cathérine Cornaro, reine de Chypre, Paris 1945, passim; B. Belotti, Storia di Bergamo e dei Bergamaschi, III, Bergamo 1959, p. 435; IV, ibid. 1959, p. 484; C. Pasero, Il dominio veneto fino all'incendio della loggia (1426-1575), in Storia di Brescia, II, Brescia 1963, pp. 177 s.; G. M. A. Carrara, Opera poetica, philosophica, rhetorica, theologica, a cura di G. Giroldi, Novara 1967, p. XLV e passim; G. Ballistreri, Bonisoli, Ognibene, in Diz. biografico d. Italiani, XII, Roma 1970, pp. 234 ss.; G. Tournoy, F. D., Venetian humanist and politician of the Quattrocento, in Humanistica Lovaniensia, XIX (1970), pp. 201-234; L. Gualdo Rosa, Un documento inedito sull'ambiente culturale padovano della seconda metà del secolo XV: il "Dialogus" di Leonello Chieregati, in Quaderni per la storia dell'Università di Padova, IV (1971), pp. 1-37; M. Miglio, Brenta Andrea, in Diz. biogr. d. Ital., XIV, Roma 1972, pp. 149 ss.; Bartolomeo Pagello, Epistolae familiares (1464-1525). Materialien zur vicentiner Kulturgeschichte des 15. Jahrhunderts und kritische Edition des Briefwechsels, a cura di B. Marx, Padova 1978, ad Ind.; R. Avesani, Verona nel Quattrocento. La civiltà delle lettere, in Verona e il suo territorio, IV, 2, Verona 1984, pp. 221 s.; M. L. King, Venetian humanism in an age of patrician dominance, Princeton 1986, pp. 361 s.