FRANCESCO di ser Gregorio (Sergregorio, Sergregori) da Gravedona
Non si conosce l'anno di nascita di questo orefice originario di Gravedona, nel Comasco, appartenente alla famiglia dei discendenti di ser Gregorio da Canova e attivo, come vuole la tradizione locale, con una sua bottega posta nel "vicolo degli orafi" del borgo lombardo. Il suo nome ricorre nella grafia "Franciscum Ser Grigorium" nelle tre croci autografe di Pianello (1489), Gravedona (1508), e Martinico (1513), lavori che forniscono anche gli estremi cronologici certi della sua attività. La firma sulla prima opera è seguita dalla specificazione "aurificum grabadonensem". Va inoltre rilevato che la famiglia dei Sergregorio, o Sergregori, è attestata nella zona per buona parte del Cinquecento.
Ricostruire l'attività di F. presenta due difficoltà connesse fra loro: la relativa scarsità di opere autografe, con il conseguente abbinarsi al suo nome di buona parte della produzione orafa di area comasca, valtellinese e valchiavennasca databile fra la metà del XV e la metà del XVI secolo, ma anche con la conseguente tendenza ipercorrettista volta a espungere dal catalogo tutte le opere non firmate; i rapporti, in buona parte ancora da chiarire ma essenziali, con gli orafi lombardi e soprattutto comaschi coevi, e in particolare con la personalità di G.P. Lierni.
Nell'unificato eppur differenziato mondo del Ducato milanese negli anni dello stabilizzarsi del dominio sforzesco con Francesco e poi con Galeazzo Maria, prima della crisi interna del 1478 e del crollo del 1499, l'area comasca vive una sua vicenda singolare: nodale per il controllo dei passi alpini e delle comunicazioni lacustri, essa presenta in campo artistico una singolare coesistenza di arcaismi anche pronunciati e di aggiornamento su scala europea. L'arte orafa, d'illustri tradizioni fin dall'età romanica, presenta chiari contatti con le altre aree settentrionali: non solo Cremona e Brescia - la cui scelta monumentale non è peraltro ignota a F. (si pensi per il primo caso alla Gran Croce del 1487 e alla Croce di S. Facio, entrambe nella cattedrale; per il secondo al Reliquiario della Croce del 1487 nel duomo vecchio o alla Croce di S. Francesco del 1501) - ma piuttosto Milano, ricca d'interscambi coi Comaschi, Genova, strettamente connessa alla capitale lombarda anche sul piano politico, Aosta, sede suffraganea dell'arcidiocesi ambrosiana la cui singolare versione del gotico internazionale non mancherà di lasciar traccia in area lariana.
Nel 1489 F. firma e data la Croce processionale per la chiesa parrocchiale di S. Martino a Pianello Lario: un'opera tradizionale nella disposizione delle figure (con la consueta centralità del Crocefisso e di Dio Padre sulle due facce), negli arcaismi tardogotici, nell'abbondanza di motivi ornamentali, come i caratteristici globi di bordatura; ma anche originale nell'ambito coevo per la vivacità narrativa e la sicurezza plastica delle appliques del Tetramorfo.
Intorno a quest'opera autografa si può raggruppare un nucleo di croci i cui legami formali non possono tradursi automaticamente in indicazione attributiva, ma che comunque attestano l'esistenza di una scuola di F., o almeno di un suo ambito di influenza. L'esemplare più vicino è la Grande Croce di Barzio, datata 1488 e singolare nel suo equilibrio fra le soluzioni arcaiche (decorazioni geometriche, globo con polilobi) e la corposità delle figure, giustamente connesse dallo Zastrow (1990) con quelle autografe della Croce di Martinico (1513): in effetti l'opera pare anticipatrice delle valenze moderate riscontrabili a Pianello, forse per la presenza di una committenza più tradizionalista e destinate a ripresa nei primi del Cinquecento; del resto l'importanza di Barzio, a guardia delle miniere di ferro sempre più importanti per l'economia lombarda, contribuisce a spiegare l'aggiornamento formale della Croce. È vicina sul piano stilistico la Croce, d'incerta origine, oggi nel santuario di Rho: malgrado la ridistribuzione delle appliques e alcune piccole reintegrazioni (le ali degli angeli, le corna del toro di Luca), essa presenta ancora forti analogie con gli esemplari di Pianello e di Barzio, per quanto più assimilabile ai goticismi del primo fin nella decorazione del fondo a rombi: non escludibile, l'autografia può essere limitata a vantaggio di un più generico inserimento nel diretto ambito di F. con proposta di datazione verso l'ultimo decennio del Quattrocento.
Senza possibilità d'ipotesi di autografia paiono le croci di un gruppo abbastanza omogeneo, che sono però accomunate dai legami di dipendenza formale dall'arte di F. e dalla probabile datazione all'ultimo decennio del Quattrocento o ai primissimi anni del Cinquecento, e distribuite su di una vasta area dalla Valsassina e Valvarrone all'Alto Lario. Ad esempio la seconda Croce di Barzio, che non è necessariamente l'esemplare più antico sostituito da quello del 1488 ma che può essere il pezzo di uso feriale, come del resto confermerebbe l'uso del rame anziché dell'argento; l'applique col Padre Eterno, unico resto della Croce di Perledo, rifusa nel Settecento (parrocchiale di S. Martino); la Croce nella parrocchiale di S. Agata a Tremenico che, a parte il globo rifatto, rivela nelle appliques del Tetramorfo chiari legami di dipendenza dal modello di Rho, coniugati però con una sicurezza espressiva palese nel Leone di s. Marco e coesistente con il tono arcaico dell'insieme, a cominciare dalla marcata sagomatura; la Croce di Noceno (S. Gregorio Magno), edita dallo Zastrow (1983) con datazione al tardo XIV secolo e collocazione nell'ambito aostano, che, stante l'effettivo arcaismo, che trova del resto riflessi a Tremenico, andrà collocata cronologicamente intorno all'ottavo decennio del XV secolo.
Forse alla stessa mano che eseguì la Croce di Tremenico si può riferire la Croce della parrocchiale di S. Martino a Introzzo, la cui brillante applique con la Carità di s. Martino indurrebbe a una sistemazione cronologica nei primi decenni del Cinquecento; ed è analoga la Croce di Esino Lario, mentre quella della chiesa di S. Giorgio a Dorio presenta una variante più arcaica, che l'accomuna all'esemplare di Peglio.
La fonte primaria dell'influenza di F. è la grande Croce processionale firmata e datata 1508, destinata alla prepositurale di S. Vincenzo in Gravedona; rubata e distrutta nel 1920, è però nota in base alla documentazione fotografica e alla copia realizzata nel 1927-28 dai fratelli Stanislao e Cornelio Borghi.
Fra le pochissime a non aver subito spostamenti delle appliques, la croce argentea era basata sulla classica centralità nel diritto del Crocefisso con ai lati Maria e Giovanni, ai piedi la Maddalena e in alto una Pia donna; nel rovescio del Padre Eterno con agli estremi il Tetramorfo e sulle braccia quattro tondi con gli smalti dei Padri della Chiesa latina; il nodo, a nicchie con gugliette, racchiudeva sei smalti della Passione; alla sommità del tutto, forse non originale, vi era un Cristo risorto.
Rispetto al precedente di Pianello, la Croce di Gravedona attesta con chiarezza il cammino di maturazione compiuto da F.: la maggior sapienza tecnica, dimostrata dall'alternanza di materiali e lavorazioni, si abbinava a una conquista plastica che è in rapporto con gli analoghi risultati del Maestro di Primaluna - a meno di non scorgere in quest'ultimo un dotato allievo di F. - e che condivide il richiamo al mondo bresciano e, meno direttamente, cremonese; del resto gli smalti, per quanto è possibile intuire dalle fotografie d'epoca, non paiono ignorare, pur con il goticismo di soluzioni come il Christus patiens che esce dal sepolcro, l'ambito tardoquattrocentesco vicino ai De' Predis raccolto intorno ad opere oggi nel Museo Poldi Pezzoli di Milano come il Tabernacolo di Rivolta, il Dittico Trivulzio e la Targa della Pietà. Perfino l'arcaismo dell'accentuata sporgenza delle decorazioni laterali a pigna incontrerà grande successo in ambito comasco per tutto il Cinquecento.
È stata riferita a F. la Croce di Cernobbio, che condivide con quella di Gravedona la datazione al 1508: in effetti le analogie formali sono molte, anche se alla maggior durezza dei tratti delle figure si abbina l'aggiornamento rinascimentale del nodo trasformato in struttura con smalti centrali, lesene angolari e timpani tondi sommitali. Il nodo potrebbe essere successivo ma la croce potrebbe inserirsi, se non nello sviluppo dell'arte di F., almeno nel suo ambito immediato, pur non avendo quegli elementi di spigliatezza formale che contraddistinguono il coevo manufatto gravedonese.
Pare influenzata dagli esemplari di Gravedona e Cernobbio una Croce, anch'essa datata 1508, nella chiesa di S. Maria di Vico presso Nesso, possibile opera di ambito comasco o gravedonese; ed è comunque interessante questo infittirsi di committenze alla fine del secondo decennio, negli anni cioè dell'apparente stabilizzarsi del dominio francese su Milano e di un conseguente miglioramento della situazione economica.
L'ultima opera sicura di F. è la Croce di Martinico, firmata e datata 1513: molto simile all'esemplare di Gravedona del quale riprende l'impostazione compresi gli smalti del nodo - rilevante il S. Giorgio, non lontano dal modello del Dittico Trivulzio - se ne distacca però per un tono più goticheggiante, quasi a ripresa di motivi presenti a Pianello.
La serie Gravedona-Cernobbio-Martinico ha una notevole importanza culturale anche come modello per l'attività successiva nella zona. È emblematico il caso di Giovanni Pietro Lierni da Como, che è difficile non considerare allievo o collaboratore di F. tali e tanti sono i richiami all'arte del gravedonese nella sua produzione.
L'esame della produzione di F. va ora affrontato sotto un altro profilo, quello della produzione di calici. L'unico esemplare sicuramente autografo, datato 1506, si trovava nella prepositurale di Gravedona ma ha condiviso con la Croce le vicende di distruzione e rifacimento in stile. Le fotografie ci restituiscono un pregevole manufatto, con alta base, lobi smaltati, nodo a nicchie con smalti, coppa decorata inferiormente a motivi geometrici forse araldici. Sono molte le analogie con la Croce, al punto da rendere sicura l'autografia mentre solo ipotizzabile è l'attribuzione a F. della perduta Pace di Gravedona, anc'essa distrutta nel 1920, a lungo ritenuta opera di fine Duecento-inizi Trecento.
Su base stilistica è affiancabile al calice gravedonese l'esemplare della collegiata chiavennasca di S. Lorenzo, in effetti di stile ancora più accentuatamente gotico; il riferimento del calice a Giovanni de Castello è suggestivo ma non sicuro, anche se pone in luce a ragione il legame continuo fra Chiavenna e Como, e comunque una datazione anticipata intorno al nono decennio del Quattrocento, ossia al tempo della Croce di Pianello, ci pare più consona all'opera. Sono legati al modello di Chiavenna, il nucleo di Caspano (tre calici, una patena, una cassetta) oggi alle Civiche Raccolte d'arte di Milano e gli esemplari di Perledo, Esino, Gittana, Avano, Cernobbio; è forse opera giovanile la perduta Pace di Gravedona.
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