MOROZZO, Francesco
di. – Discendente da una famiglia di vassalli del vescovo di Asti che fin dal secolo XII avevano esercitato poteri signorili nel Piemonte meridionale, nacque nella prima metà del secolo XIV probabilmente a Mondovì – dove nel 1328 alcuni consanguinei (il dominus Antonio de Morocio, Martino e Francesco) erano consiglieri del Comune – figlio, secondo una tradizione erudita di qualche attendibilità, di Luchino di Morozzo.
Ebbe un fratello di nome Giorgio, ricordato come «egregio milite» dal necrologio della cattedrale di Asti. Fu canonico del capitolo cattedrale di Asti – di cui aveva già fatto parte un Ogerio di Morozzo nel 1311-15 – e arciprete della pieve astigiana di Guarene, cappellano e familiare di papa Gregorio XI, poi vicario generale della diocesi, secondo quanto appare dalla sua prima attestazione in una lettera inviatagli il 29 ottobre 1374 da Pierre Flandrin, cardinale di S. Eustachio. Svolse le sue funzioni in un momento di particolare turbolenza per la diocesi astigiana, coinvolta nelle lotte per il predominio del Piemonte fra i conti di Savoia, i marchesi di Monferrato e i Visconti di Milano, ai quali di volta in volta aderivano anche i vassalli della Chiesa di Asti che ne controllavano i numerosi castelli feudali.
Nel 1370 il suo predecessore, il vescovo Giovanni Malabaila, ostile ai Visconti, aveva affidato i castelli di Bene (ora Benevagienna), di S. Albano e di Trinità alla custodia di Stefano Abellonio Malabaila, abate di S. Marziano di Tortona, e del fratello Petrino, ma nel dicembre del 1372, caduto prigioniero di Taddeo Pepoli, capitano di Gian Galeazzo Visconti, era stato incarcerato a Bra, rimanendovi per tutto l’anno successivo. Fra i diversi vicari nominati per fronteggiare la drammatica situazione (l’abate di Vallombrosa Giovanni nell’ottobre 1373, l’abate Stefano Malabaila nell’aprile 1374) il canonico Francesco di Morozzo compare il 29 ottobre 1374 nella ricordata lettera del cardinale di S. Eustachio con la quale si chiariva che delle decisioni prese dal vescovo durante la prigionia dovevano considerarsi nulle solo quelle pregiudizievoli del potere temporale e non quelle relative allo spirituale. Nel marzo di quello stesso anno, il vescovo Giovanni e Gian Galeazzo erano comunque addivenuti a una tregua e in seguito il presule riottenne la libertà; fin da agosto il papa Gregorio XI aveva aperto le trattative con i Visconti, che già si erano rappacificati con i Savoia, inviando il cardinale Gilles Aycelin de Montaigu, favorevole alla pace con i milanesi, per valutare le loro proposte.
Giovanni Malabaila, ritornato in possesso della sua sede forse alla fine del 1374, manifestò però l’intenzione di lasciarla – fu dapprima designato alla diocesi di Savona, ma rifiutò e accettò poi nel 1376 quella di Moriana – perché provato dalla dura esperienza della prigionia e minacciato dall’intraprendenza dei suoi riottosi vassalli. Fra il 1374 e il 1375, infatti, Percivalle Roero e i suoi fratelli – appartenenti a una potente famiglia di uomini d’affari astigiani, detentori di numerosi feudi della Chiesa – avevano riconquistato il castello vescovile di Castagnito (già per metà loro feudo) e si erano impossessati di quello di Vezza, ottenendo nel marzo 1375 dal legato apostolico Giovanni vescovo di Arezzo la promessa di riceverli in feudo. Non paghi, poco dopo i Roero, filoviscontei, avevano sferrato l’offensiva anche contro il castello vescovile di Monticello, cacciandone il custode Ludovico Malabaila, nipote del vescovo, e occupandolo militarmente. Va detto che fin dal giugno 1375 il papa e i Visconti avevano stipulato un armistizio e che dunque l’opposizione della Chiesa di Asti non era gradita, sicché i legati apostolici tendevano ormai a governarne direttamente l’azione politica.
La lotta dei vassalli contro il loro vescovo antivisconteo comunque continuò fino all’11 marzo 1376, quando fu patteggiata la sospensione per due mesi del conflitto fra il vescovo Giovanni, Percivalle Roero e altri vassalli ribelli. Alla scadenza della tregua, il cardinale Roberto di Ginevra, giunto in Piemonte con una compagnia di guasconi, il 16 giugno provvedeva ad alienare ai Roero per 15.000 fiorini d’oro (serviti, secondo alcuni, a pagare le sue truppe di ventura) i castelli di Monticello e di Castagnito. L’atto di vendita conteneva una dura requisitoria contro il vescovo Giovanni, giudicato impotente a sostenere il debole stato della Chiesa e cattivo amministratore, sicché il cardinale, «vocato moderno episcopo Astensi», procedeva alla vendita. Il vescovo Giovanni era stato dunque allontanato, se già esisteva un «modernus episcopus»? Sappiamo che Francesco di Morozzo fu consacrato l’11 agosto 1376 e che lo stesso giorno anche Giovanni Malabaila prese possesso della diocesi di Moriana, ma Francesco doveva essere stato eletto da almeno due mesi, se non prima, dal momento che l’ultimo atto in cui compare il vescovo Giovanni è proprio la tregua dell’11 marzo.
Dopo l’alienazione dei castelli della Chiesa di Asti, in luglio Roberto di Ginevra aveva stipulato a Samoggia nel Bolognese la pace con i Visconti da parte del papa e dei suoi alleati; nello stesso torno di tempo, il legato Gilles Aycelin de Montaigu provvedeva a vendere anche il castello vescovile di Corveglia ad Antonio e Giacomo de Ponte, esponenti di un’altra ricca famiglia astigiana.
Con l’avvento del nuovo vescovo, sicuramente ispirato da sentimenti filoviscontei, si assistette a un totale capovolgimento della politica della Chiesa astigiana: nel 1377 Francesco richiese infatti a Stefano e a Petrino Malabaila, divenuti ora «rebelles et usurpatores», l’immediata restituzione dei castelli di Bene, di Sant’Albano, di Trinità e di Piozzo, però senza successo. Il vescovo si rivolse allora ai de Ponte dai quali ottenne un prestito di 2000 fiorini per assoldare armati per riconquistare i castelli: riebbe Trinità e Piozzo, ma non i castelli di Bene e di Sant’Albano. Poiché i fratelli Malabaila per rilasciare i due castelli richiedevano una forte somma a copertura delle spese sostenute per la custodia per conto della Chiesa, si ricorse a una commissione arbitrale che nel 1378 stabilì che il vescovo dovesse versare ai Malabaila 2000 fiorini per il castello di Bene e 4000 per quello di Sant’Albano, somma che Morozzo ottenne ancora una volta in prestito dai de Ponte ai quali a settembre concedeva in pegno per il debito complessivo di 8000 fiorini la «custodia et comenda» del castello vescovile di Vezza. Pare tuttavia che la lite si protraesse fino al 1380.
Già nel febbraio 1378 Gian Galeazzo Visconti, forse con l’appoggio dal vescovo, era riuscito a farsi nominare governatore di Asti per conto del marchese di Monferrato, legittimo signore della città, e in autunno Francesco di Morozzo stipulò con lui un vero e proprio patto di aderenza, certo ambìto da entrambi, anche per le buone entrature che il vescovo aveva presso la corte di Roberto di Ginevra, appena eletto antipapa col nome di Clemente VII: sappiamo infatti che in aprile Francesco, cappellano di Gregorio XI, era a Roma in occasione del conclave indetto alla sua morte. I rapporti con Gian Galeazzo, schierato con l’antipapa, si rafforzarono nel febbraio 1379, quando il vescovo gli concedette in feudo il castello di Rocca d’Arazzo, aprendogli così la strada al definitivo insignorimento sulla città, deliberato il 27 marzo dal Comune di Asti con l’esplicito parere favorevole di Francesco, presente in consiglio. L’ultimo suo atto conservato, del 12 ottobre 1379, è una procura generale rilasciata al prete francese Alain de Ruelle per rappresentarlo nelle liti e nei dibattimenti, probabilmente per la risoluzione del conflitto con i Malabaila. È interessante rilevare che in questo atto, per la prima volta nella storia della Chiesa di Asti, Francesco ricorre alla titolatura di «episcopus et comes».
Morozzo seppe abilmente sfruttare le circostanze, capovolgendo la tradizionale politica dei vescovi di Asti a favore della potenza emergente dei Visconti e al tempo stesso mettendo fine all’ingerenza dei legati apostolici negli affari della Chiesa astigiana con il consolidamento del potere vescovile, ma al suo successo diplomatico non sopravvisse più di un anno, in quanto morì nel 1380.
Del tutto destituita di fondamento risulta essere invece la notizia fornita da Ughelli di una sua prigionia fino al 1379 ad Avignone.
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