Francesco di Bartolo da Buti
Maestro di grammatica allo Studio pisano e commentatore dantesco (Buti 1324 - Pisa 25 luglio 1405). Fitti i documenti della sua attività privata e pubblica d'insegnante e di dettatore ufficiale (cancelliere) del comune, talora (come si usava) con incarichi politici (ambascerie). Qui ci atterremo soprattutto a quanto più da vicino riguarda la sua opera di commentatore del poema, inscindibile d'altronde da quella di grammatico e chiosatore dei classici latini.
E saranno innanzitutto da correggere due affermazioni vulgate quanto erronee: la prima (consegnata nella lapide apposta l'anno 1858 dai conterranei sulla casa ove nacque, poi passata nella prefazione all'edizione del commento alla Commedia [p. XXXVI] e di lì giunta agli onori della Enciclopedia Italiana XV 850) definisce il commento di F. " il primo intero in lingua italiana ": se è vero che Iacopo della Lana (1324-1328) commentò le tre cantiche nel dialetto tipico, più o meno, della ‛ koiné ' emiliano-padana cui apparteneva, è pur anche vero che l'Ottimo commentatore, vale a dire Andrea Lancia, dettò la prima redazione del suo commento intorno al 1333-1334 in buon toscano, anzi in fiorentino (e fu perciò considerato testo di lingua dagli accademici della Crusca fin dall'edizione 1612 del Vocabolario); mentre F. da Buti lesse in Pisa la Commedia più o meno cinquant'anni dopo, e i codici oltretutto fedelmente rispettano la sincerità linguistica del chiosatore (ad apertura di libro Fiorensa, II 140, 141, 143, ecc.; gravessa, II 141; sensa, II 179; Provensale Silvano, II 263; Provensa, II 472, 802; pogo, II 472; garsone, II 740; speransa, II 742; Durasso, III 195).
L'altra affermazione (diffusa attraverso D. Guerri, Il commento del Boccaccio a D., p. 44 ss., ripresa un tempo dal Sapegno nel suo Trecento - non però nella Storia letteraria - e passata in dizionari enciclopedici) parla del nostro come di un frate: a parte il fatto che F. non si nomina come tale anche laddove gli sarebbe assai facile (cfr. la chiosa a If XVI 106 su la corda e D. " frate minore " ripresa in Pg XXX 73-75, nonché l'altra a Pd XI 85-87 su l'umile capestro), i documenti - alcuni dei quali, conservati all'Archivio di Stato di Firenze, messi in luce dal Battistini - provano che se mai fu frate (cioè tutt'al più terziario, probabilmente francescano), il nostro ebbe di certo moglie e almeno tre figliuoli: Bartolommeo, Antonio e Giovanni, poi tutti studiosi di leggi e notai. A ogni modo F. sicuramente coi frati ebbe dimestichezza, in particolare con quelli amanti delle buone lettere: basti pensare agli stretti rapporti di amicizia con fra Tedaldo della Casa (il dotto minorita noto ai dantisti quale antico possessore degli attuali Laur. 26 [S. Croce] sin. 1 e 26 [S. Croce] sin. 10, nonché di altri preziosi manoscritti passati dal convento fiorentino alla Laurenziana), al quale dedicò le glosse sopra Persio (proprio da fra Tedaldo trascritte nel 1375) tramandate, con quelle all'oraziana Ars Poetica, nel codice E 3 sup. della Biblioteca Ambrosiana, e composte appunto su invito dell'amico (" Movit tua caritativa exhortatio, frater in Christo Thedalde, me devotum tuum Franciscum de Buiti de Pisis... "). E può darsi che proprio in quel " frater in Christo " (oltre che nella sepoltura eletta nel chiostro pisano di S. Francesco) stia la remota origine dell'affermazione la cui portata abbiamo cercato di limitare. Oltre a Persio e a Orazio F. commentò il Doctrinale di Alexander Villadei, e compose un Dictamen (su cui cfr. R. Sabbadini, La scuola, pp. 40 ss.); nonché elaborò delle Regulae grammaticales, fornendo rudimenti di grammatica e retorica ai giovinetti in un testo (come fu scritto) né conciso né prolisso, " ut per has scalas facilior esset aditus ascensuris nec desperatione desisterent ab inceptis ". Il Compendio fu assai popolare, come prova la sua diffusione nei codici (su tutto cfr. F. Novati, Due grammatici, p. 253 n. 2).
Le notizie certe sulla vita di F. da Buti (tratte in gran parte da documenti dell'Archivio di Stato Pisano, che abbrevieremo asp) sono raccolte nei preziosi studi del Novati, del Silva, del Battistini; ne richiameremo le principali.
In un atto privato del 14 febbraio 1351 (pubblicato dal Battistini) lo vediamo pattuire con maestro Marco da Fagiano (cui poi succederà quale insegnante nello Studio di Pisa) l'ufficio di ripetitore alla sua scuola, dietro mercede annua di 36 lire di denari pisani " pro repetitione ipsius magistri Marci ". Questa la prima attestazione sicura di un'attività professionale che, con alterne vicende (come vedremo, anche finanziarie), durerà fino alla morte. Nell'aprile 1355, succeduto a Marco da Fagiano e a Francesco da Cremona, F. già teneva in Pisa pubblico insegnamento, sussidiato dal comune con lire 50 annue (Silva, p. 486). Il 17 dicembre di tale anno è infatti disposto il pagamento di un semestre di stipendio " Magistro Francischo condam Bartali de Buiti de Cappella Sancti Pauli ad Ortum doctori gramaticae tenenti scholas in civitate pisana et gramaticam docenti " (asp, Comune A, Registro 123, f. 21 v.). Nel 1360 F. è sempre in Pisa e vi tiene scuola frequentata. In un documento di tale anno è chiamato " giovane ", a distinguerlo da Francesco Merolla di Vico, cancelliere degli Anziani nel 1361 (stile pisano); poco dopo, per l'inasprimento del carico tributario a causa della guerra contro Firenze, lascia la città e l'insegnamento: sicché gli Anziani, il 10 settembre 1363, decidono di liberarlo da tutte le imposte presenti e future purché torni in patria a riaprire la scuola e paghi la propria quota di 20 fiorini su una prestanza globale di 12.000 emessa nel mese di agosto: " Francischo condam Bartali de Buiti civi pisano... doctori gramaticae nunc absenti a civitate pisana... franchisiam et immunitatem ab et de omnibus et singulis servitiis et oneribusrealibus et personalibus... dum modo dictus Francischus redeat ad civitatem pisanam et in ea scholas gramaticae teneat, et solvat ipse, vel alius pro eo, comuni pisano florenos viginti de auro sibi impositos de praestantia florenorum " (Asp, Comune A, Registro 138, ff. 155 v.-156 v.). Dopo tale provvisione F. torna a Pisa: e insegna senza alcun pubblico stipendio, ma con l'esenzione dalle tasse e il cespite delle quote pagate dagli allievi. Sette anni dopo - nominata nell'ottobre 1369 una commissione di savi per la riforma dello Studio - è ufficialmente chiamato alla cattedra di grammatica per un periodo di tre anni, con lo stipendio di 40 fiorini l'anno e l'esenzione da ogni onere reale e personale (asp, Comune A, Registro 438, f. 290; Silva, p. 490). Scaduti i tre anni viene riconfermato " ad legendum in gramatica libros in termino unius anni incipiendi de mense octubris cum salario et aliis consuetis " (asp, Comune A, Reg. 38, f. 292; Silva, p. 490); e tali riconferme avvengono puntualmente nel 1377 e negli anni successivi (si hanno mandati di pagamento per il 1379, per il 1385 - anno in cui lo stipendio appare elevato a lire 308 di denari pisani - e per il 1399). In tale ultimo anno, per le pesanti ristrettezze economiche in cui versa il comune, lo stipendio viene diminuito a lire 200, con la soppressione di ogni franchigia (asp, Comune A, Registro 197, f. 220); e tale stipendio ridotto appare conservato in ugual misura nel 1404, all'atto di nuove, più drastiche riduzioni: segno del rispetto che circondava l'opera e la persona del vecchio maestro. Il quale pochi mesi dopo, il 25 luglio 1405, moriva, dopo aver fornito per quasi undici lustri istituzioni di grammatica e retorica alla gioventù pisana. Fu sepolto nel primo chiostro della chiesa di S. Francesco in Pisa, sotto il terzo arco a sinistra di chi entra; sulla tomba questa lapide: " Seris Magistri Francisci doctoris Gramaticae olim Bartoli de Buti filiorum heredumque suorum ".
Abbiamo visto che nel 1385 lo stipendio ammontava a 308 lire annue di denari pisani: l'aumento, conseguito probabilmente qualche tempo prima, andrà di sicuro connesso all'incarico ufficiale di commentare pubblicamente la Commedia in aggiunta al normale insegnamento. A tale pubblica lettura, iniziata dunque intorno a tale anno (ma alquanto prima secondo l'autore delle Memorie Istoriche, IV 170, 180, nn. 31 e 32), F. fa esplicito riferimento quando, alcuni anni dopo, dietro preciso invito di autorevoli amici, si accinge a mettere per iscritto il frutto della sua fatica: " Non so, se io farò pregio d'opera scrivendo la lettura sopra il poema del chiaro poeta Dante Allighieri fiorentino, secondo il modo e l'ordine che per me si lesse pubblicamente nella città di Pisa... Ma credendo a' conforti incitativi delli amici e massimamente delli uditori, ai quali, per la continuanza, la lezione mostrava essere piaciuta... ò preso ardire favoreggiandomi la divina bontà... " (I 4-5). Dal proemio al Purgatorio si ricava poi che l'esposizione (quella orale e pubblica) della seconda cantica non fu condotta a compimento, in quanto il da Buti ne venne a suo tempo " impedito da due gravi infermitadi "; prevalse in seguito il desiderio di proseguire nell'opera intrapresa, anche per " li preghi dei cari amici che me ne ànno sollicitato... et oltra ciò l'amore che abbo al prefato autore, che quanto più lo leggo più mi piace... " (II 1). Parole che si commentano da sole, e che subito ispirano simpatia pel vecchio espositore, quali che siano i concreti risultati cui giunge. Se dobbiamo credere all'esattezza di una precisa indicazione fornita dall'explicit nel codice Riccardiano 1008, la stesura dell'opera terminò nel 1395 (" Qui finisce... la... lectura facta per maestro Francescho di Bartholo da Buti, et compiuta lo dì della festa di Sancto Bernardo a dì 11 di giugno 1395 "): datazione che risponde a precisi elementi interni, se a III 163 si legge: " è ora Vinceslao re di Boemia figliuolo del detto Carlo lo quale non è anco coronato benché corra 1393 dalla incarnazione ".
Dal punto di vista tecnico, il commento (conservato in una trentina di codici) mantiene in parte l'originaria fisionomia di collatio, e articola l'esposizione di ciascun canto in due lezioni, votate a illustrarne una metà. Nella chiosa all'Inferno, per più diretto e manifesto influsso della Expositio di Guido da Pisa e del commento boccaccesco, precede un'esposizione strettamente letterale, meramente parafrastica (la quale - cfr. I 12 - risale direttamente alla lettura pubblica); indi segue la dichiarazione storico-culturale e allegorica. A partire dal Purgatorio la parafrasi, la postilla grammaticale, la chiosa erudita, l'interpretazione allegorica vengono fuse e presentate in compresenza, man mano che lo esige il testo; permane però sempre la divisione in lezioni, in ognuna delle quali il dettato dantesco, a gruppi di terzine (per lo più da due a sei) viene esposto " singularmente, ponendo l'allegorico intelletto ", talora con scoperti residui della primitiva stesura destinata agli uditori. Ma passiamo dalla forma esterna a quella interna dell'opera, esaminando le prospettive da cui muove e definendone la fisionomia. E diciamo subito che scorrendo le pagine dell'ultimo fra i grandi ‛ lettori ' del sec. XIV sembra a prima vista di ritornare indietro nel tempo: la chiosa è condotta mediante rigide partizioni scolastiche degli argomenti contenuti in ogni canto e in ogni gruppo di terzine; abbondano le digressioni didascalico-erudite, e, soprattutto, l'interpretazione allegorica si muove su un terreno quanto mai generico eppur concettosamente astratto, tipico ad esempio delle Chiose di Iacopo, e che si sovrappone al testo anche laddove non sopporta manifestamente una dichiarazione polisema. Ma non è che la storia torni indietro: anche a non tener conto che il da Buti ovviamente commentava, lui vecchio, secondo una tecnica e una cultura fondate su schemi ed esperienze della giovinezza, è proprio il tono astrattamente moraleggiante e talora accesamente fideistico della sua interpretazione che si adegua perfettamente alla temperie spirituale della fine del secolo; alle esperienze giovanili, come alla tecnica della lezione magisteriale andranno caso mai riportate sia la struttura estrinseca del commentare (la collatio) sia l'analitica attenzione per gli elementi dottrinali come per i dati grammaticali.
Quanto alla formula poetica, alla categoria entro cui iscrivere l'opera, per il da Buti la Commedia è una " visione " (cfr. almeno II 181, III 849), nell'ambito cioè a dire dell'ermeneutica di Guido da Pisa (espressamente citato in I 189, 717, ma noto - si badi - soltanto attraverso il volgarizzamento dell'Expositio ancor oggi inedito nel codice di antichi commenti già Ginori Conti, limitato ai primi 27 canti dell'Inferno: dice infatti il nostro a If VI 73: " Disse frate Guido del Carmino, nello scritto che fé sopra li 27 canti della prima cantica, che questi due erano Dante, e messer Guido Cavalcanti... "); ma contrariamente alla dimensione tutta ‛ profetica ' impressa dal carmelitano, la visione dantesca è per il da Buti essa stessa una fictio, una " fizione ": vale a dire che siamo di fronte a un espediente retorico, all'invenzione poetica di una ‛ lettera ' che ben può post factum subire, da parte del chiosatore, un'allegorizzazione. Si veda, come assai indicativa, la postilla a Pd XXXII 139: " e finge qui l'autore questo, per continuare la fizione che puose nel principio de la sua comedia, cioè nel 1300 lo venerdì santo la notte in sul sabato santo elli avesse questa visione, e che in visione li fusseno mostrate queste cose che si contegnano in questo poema " (III 849). Le linee maestre dell'allegoria, quale il nostro presenta ai lettori, risentono indubbiamente dell'inquadramento fornito da Pietro col suo Commentarium (ma anche dell'epistola a Cangrande, nota al da Buti attraverso gli ampi stralci presenti nell'Expositio di Guido e nel commento del Boccaccio): si veda come il commento tenda, sul piano generale, a riportare la figurazione oltremondana all'hic et nunc, risolvendo le immagini dantesche in una caratterizzazione tipologica dei vari momenti esistenziali (" E l'allegorico o vero morale è dello stato delle persone che sono nel mondo in tre differenzie; cioè o nel peccato o nella penitenzia o nella contemplazione divina. Per li quali stati vuole moralmente et allegoricamente mostrare sé essere discorso nella vita sua, dicendo essere stato menato per li tre diversi luoghi soprascritti ", I 24; " l'autore tratta letteralmente dello stato che ànno l'anime separate dal corpo di coloro che muoiano ine la grazia di Dio, infine a tanto che sono purgate dei peccati commessi in questa vita; e moralmente, o vero allegoricamente, tratta de lo stato de le persone che sono nel mondo o in atto o in stato di penitenzia... ", II 2; " debiamo sapere che l'autore nostro... tratta dell'ascendimento che de' fare l'anima contemplativa, venuta alle virtù de l'animo purgato, suso all'eterna beatitudine, sagliendo col pensieri di cielo in cielo... fingendo secondo la lettera sé corporalmente questo montamento avere fatto, lo quale veramente secondo l'allegoria fece collo studio della santa Teologia e colla mente contemplativa, figurando secondo le fizioni poetiche li luoghi e l'anime sante e beate... ", III 2). Ma non appena la chiosa trascorre dal generale al particolare, cade il più delle volte in pesanti astrazioni didascalico moralistiche, lontane dalla mirabile concretezza di rappresentazione del poetare dantesco e dai precisi termini storico culturali dell'esperienza gnoseologica obiettivata di volta in volta nelle imagini della poesia. E ciò nonostante che il chiosatore si renda ben conto del rischio insito in tale metodo di astratta allegorizzazione: sicché ad esempio, dopo aver visto personificata in Virgilio " la ragione inferiore... la quale comanda alla libertà dell'arbitrio che seguiti lo suo imperio nelle cose pratiche e mondane ", e spiegato di conseguenza il " lungo silenzio " virgiliano come " tutto il tempo della vita umana, infinché è passata l'adolescenzia ", il nostro si affretta ad aggiungere, per i versi successivi: " Quello che seguita poi non à allegoria: imperò che non fu intenzione dell'autore porre ogni cosa allegoricamente, né io intendo ogni parola moralizzare: ché sarebbe esporre un altro Dante " (I 40). Ma spesso " un altro Dante " F. da Buti finisce per esporlo, preso nelle spire del doppio binario di un'interpretazione fondata su un allegorismo tutto equivoco, anche laddove la chiosa puntuale s'accende magari di una subitanea reazione di gusto e in più si richiami al criterio ermeneutico globale. Si veda ad es. la presentazione dei golosi a If VI: " In questi due ternari è bella allegoria: imperò che Dante intende di quelli del mondo, benché litteralmente dica di quelli dell'inferno, volendo significare che li golosi che sono nel mondo giacciono tutti per terra, considerando la loro intenzione che non è se non nelle cose terrene... E la ragione significata per Virgilio, e la sensualità significata per Dante che in ciò non s'avviluppa, passa sopra loro per eccellenzia di vita, e pone le piante, scalpitando la loro vile condizione e dispregiando, sopra la vanità di tali peccatori... " (I 184). Vediamo ancora qualche esempio degli equilibrismi cui il chiosatore è costretto per adeguare la dichiarazione delle immagini al suo canone d'interpretazione; all'attacco di If IX, il reciproco trascolorare nel volto dei due poeti, inteso come una pennellata allegorica, pone dei problemi quasi irresolubili di esegesi puntuale: " Ancora si può muovere qui uno dubbio: con ciò sia cosa che sia detto di sopra che Virgilio tenga figura di ragione, e Dante di sensualità, come si può intendere, e dèe, che Dante diventasse insieme pallido e rosso, come seguitarebbe per quello che detto è di sopra? A questo si può rispondere espeditamente, che non sempre Dante pone che Virgilio tenga figura di ragione... Potrebbesi ancor dubitare come andò la sensualità di Dante a queste cose. A che si può rispondere che quanto al vero non v'andò, se non la sua ragione; ma la sua poesia finge per sì fatto modo, che pare che andasse ancora la sensualità, ponendo tutte queste cose sensibili, come appare nel testo " (I 249-250). Non si potrebbe essere più ingegnosamente aridi, più lontani, proprio come misura interpretativa, dalla concretezza della rappresentazione. Un altro esempio, trascelto fra i molti possibili, non come il più indicativo, ma anzi proprio come una delle tante astrazioni che rendono il commento, nella sua parte allegorica, un fantasioso centone di ipotesi bizzarre, l'abbiamo nella chiosa sul ‛ disdegno ' di Guido. Come conciliare infatti la già veduta equazione Virgilio ragione superiore e inferiore, con il disdegno cavalcantiano? Ancora una volta si ricorre all'equivoco simbolismo, che supera ogni ostacolo e dissolve in apparenza ogni dubbio: " Et è qui da notare che alcuna volta Virgilio in questa Comedia si pone pure per Virgilio come nel primo canto et ancor qui; et alcuna volta per la ragione pratica della poesia... alcuna volta e per la ragione superiore et inferiore, et alcuna volta per l'una solamente; e però è necessario che lo lettore intenda secondo che è necessario al testo, e però ora, quando dice che Virgilio l'aspettava, vuole intendere che a parlamentare con questi suoi Fiorentini non usava la ragione pratica della poesia... e così si dèe intendere, quando dice che Guido ebbe a disdegno Virgilio " (I 285). Fin troppo facile sottolineare a quali aberrazioni esegetiche induca una tecnica siffatta (Guido che tiene a vile la ragion pratica della poesia...): basterà indicare globalmente il rischio insito nel metodo, e piuttosto completare la descrizione della fisionomia culturale del commentatore.
Abbiamo rammentato i debiti che F. da Buti ha verso l'opera di Guido da Pisa e le Esposizioni del Boccaccio. I fitti rapporti tra il proemio del commento e, appunto, il proemio (e altre parti) delle Esposizioni, fornirono al Guerri uno dei capisaldi per avanzare la sua ben nota tesi (cfr. D. Guerri, Il commento del Boccaccio a D., pp. 44-49, 65-77). Fu facile al Vandelli, in un'acuta, documentatissima recensione, dimostrare che è proprio il da Buti a ormeggiare il Boccaccio (più volte espressamente citato), e non il presunto falsificatore a saccheggiare il butese. Oltre a Guido da Pisa il nostro conosce e segue lacopo della Lana, anche senza citarlo esplicitamente; lo stesso dicasi per Pietro. Un'indicazione sommaria di luoghi paralleli è fornita, per i primi commenti, dallo Hegel (pp. 52-53); il che ci dispensa da confronti minuti. Sempre lo Hegel, proprio mentre nota che spesso per le parti storiche F. da Buti segue il Villani, deve osservare che fitti sono nella chiosa gli errori circa fatti e personaggi storici, antichi o recenti: F. da Buti confonde ad esempio Giulio Cesare e Caio Cesare figlio di Germanico (III 192), o fa incoronare Carlo IV nel 1355 a opera di Clemente VI e dei suoi cardinali, quando il papa era morto nel 1352. Di maggior valore, ovviamente, le notizie di storia, o di cronaca pisana (cfr. almeno 1828, II 125, 178): e non ce ne stupiremo davvero. Buona - ma non all'altezza della cronologia dell'opera e, vorremmo dire, della professione del suo autore - la conoscenza e lo spiegamento degli Auctores: in particolare Ovidio, Orazio, Virgilio, Lucano, Stazio (ma anche Plauto e Persio), Cicerone. Fitti i richiami patristici, da s. Agostino a s. Bonaventura e a s. Tommaso; anche gli autori mediolatini forniscono auctoritates, da Boezio a Eberardo di Béthune ad Alano di Lilla. E, per la parte strettamente filosofica, non trascuriamo la presenza dell'usitato Aristotele, per lo più nei commenti tomisti. Nel complesso, dunque, nulla di eccezionale, nel lungo, minuto, appassionato commentare del butese: anche dal punto di vista dell'erudizione si sente più il vecchio maestro che l'uomo che avrebbe potuto più francamente attingere (con altra formazione e con altro temperamento) alla cultura nuova, che premeva lungo la strada aperta non dirò dal Boccaccio, ma certo dal Petrarca, citato una sola volta (I 543) a proposito della questione del titolo del poema. E forse aveva ragione, or è quasi cent'anni, lo Hegel, quando, certo un po' troppo schematicamente, giudicava che, fra i commentatori trecenteschi il da Buti fosse da pregiare quale grammatico, come Pietro quale scolastico e l'imolese quale storico: indubbiamente nelle attestazioni grammaticali e linguistiche (ancor oggi utili sia sul piano diacronico che dal punto di vista di una testimonianza pur sempre del ‛ buon secolo ') e nella parafrasi letterale, risiede la maggiore utilità della lettura del butese; quanto al suo entusiastico amore per D. poeta (che ce lo rende in ogni caso simpatico) appartiene necessariamente alla fortuna secolare dell'Alighieri, non costituisce di per sé un apporto critico al secolare commento.
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