DE PIETRI, Francesco
Nato a Napoli il 25 luglio 1575 da Giovan Girolamo ed Agnese Villarosa, apparteneva a una famiglia della buona borghesia, che tra gli antenati vantava un Raimo de Petris "consiliarius atque legatus" al tempo della regina Giovanna I d'Angiò. Comunque, già sul declinare del sec. XVI la famiglia doveva essere alquanto decaduta se Giovan Girolamo, sebbene definito "uomo di lettere ben agiato", era stato costretto ad alienare la casa avita che sorgeva nei pressi del "Seggio" di Montagna, ossia nel cuore dell'antico centro urbano.
Non per questo mancò al D. una raffinata educazione umanistica e poi giuridica. Come può dedursi da un epigramma giovanile, ebbe come primo maestro l'umanista Cesare Vetta (Vectius), al quale rimase sempre legato. Altrettanto buoni gli studi giuridici, compiuti sotto la guida di Giulio Berlingieri e del pisano Alessandro Turamini. Fu soprattutto quest'ultimo, seguace colto e intelligente del mos gallicus, ad orientare le scelte che avrebbero fatto del D. un protagonista della vita culturale e politica del Regno.
Addottorato in utroque nel 1598, intraprese la via del foro senza peraltro trascurare la poesia latina e la ricerca erudita. Soprattutto per questi interessi guadagnò, nella prima decade del secolo, amicizie illustri: quella del giurista padovano Paolo Beni e poi quella di Alberico Cibo Malaspina, duca di Massa, al quale dedicò un volumetto di Epigrammata (Neapoli 1607). Altri Doctissima epigrammata pubblicò, nello stesso anno, sempre a Napoli in appendice a una riedizione del De bis recepta Parthenope. Gonsalviae libri quatuor, di G. B. Cantalicio (G. B. Valentini).
Nell'Accademia degli Oziosi, fondata nel 1611 da Giambattista Manso marchese di Villa, il D. trovò spazio ed occasioni per coltivare molteplici interessi. Vi aderì scegliendo il nome accademico di Impedito e per emblema l'immagine di un "ruscello corrente, che arrestato et impedito, allargandosi si rende maggiore, quasi un mare", con il motto "obice maior" (Dell'Historia napoletana Libri due, Napoli 1634, p. 161). Vista in controluce, questa metafora barocca suona come confessione delle difficoltà incontrate ma anche come impegno di crescita intellettuale. A tale progetto il D. si attenne scrupolosamente, sino a rinunciare per esso a formarsi una famiglia. Né, caso abbastanza insolito per quei tempi, aspirò o brigò per ottenere cariche pubbliche. Lo appagavano l'attività forense e quella svolta all'interno dell'Accademia che, statutariamente, doveva occuparsi di cose relative "alla Poetica, alla Retorica, alle discipline Matematiche, et a tutte le partì della Filosofia". Vietato invece disquisire di teologia e di "cose appartenenti al publico governo, i quali si deve lasciare alla cura de' Principi che ne reggono". Era una grave limitazione cui il D. si attenne, pubblicando nel 1612, insieme ad altri membri del sodalizio, alcuni componimenti per celebrare la defunta regina di Spagna (cfr. O. Caputo, Relatione della pompa funerale che si celebrò in Napoli alla morte della serenissima reina Margherita d'Austria, Napoli 1612, I, pp. 13, 15, 17, 19; II, pp. 23, 28). Si fece anche carico di divulgare "le più famose Quistioni proposte nell'Illustrissima Accademia", mandando alle stampe (Napoli 1642) i Problemi accademici.
Il volume costituisce una preziosa testimonianza sulla cultura napoletana del Seicento, mostrandone limiti e fermenti. Accanto a "quistioni" che ripropongono una stantia erudizione letteraria, ve ne sono altre che indicano un crescente interesse per l'osservazione scientifica, quale, ad e s., quella relativa alle cause ed alle conseguenze dell'eruzione vesuviana del 1631 (ibid., n. LXXX, pp. 217-20).
Comunque la si voglia giudicare, l'Accademia degli Oziosi era divenuta, anche per merito del D., il punto d'incontro della migliore cultura in quel primo scorcio di secolo. Il libertino francese J.-J. Bouchard, in visita a Napoli, notava che vi avevano aderito "toutes les persones de qualité qui se piquent de bel esprit". Su questi intellettuali (avvocati, alti magistrati, ecclesiastici, medici) il D. influì profondamente, spiazzando in ciò il mediocre Manso. E tuttavia il sodalizio fra i due rimase strettissimo: nel 1619 il D. pubblicava a Napoli, dedicandolo al duca d'Acerenza, un Compendio della vita di Torquato Tasso scritta da Gio. Battista Manso. Né il rapporto si incrinò quando nel 1625 il D., allora avvocato del Manso, non seppe evitare al suo assistito la soccombenza nella causa per l'eredità di Giambattista Marino.
Sarebbe tuttavia improprio circoscrivere la biografia intellettuale del D. alla sua militanza fra gli Oziosi. Bisogna guardare, piuttosto al giurista e allo storico per cogliere l'originalità del suo pensiero che, libero dalle convenzioni accademiche, ebbe non poca parte nel preparare e determinare la rivoluzione napoletana del 1647-48.
Per nascita, cultura e collocazione sociale egli era un tipico esponente di quella borghesia forense che lottava per estromettere l'antico patriziato feudale dai gangli del potere istituzionale. Una tale ideologia, comune a buona parte dei giuristi del Regno, era ravvivata dal D. con l'innesto dei canoni metodologici ed interpretativi della giurisprudenza "culta". Quasi una rivoluzione nelle acque stagnanti della cultura giuridica del Regno e tale da suscitare speranze ed incoraggiamenti. Già nel 1615 G. C. Capaccio lo esortava a portare avanti quest'opera di rinnovamento, sino a far esplodere le contraddizioni del vecchio sistema giurisprudenziale. I referenti che il Capaccio gli indicava erano inequivoci: "Accedis ad Alciatos, ad Tiraquellos, ad Cuiacios. Frugi horum messes est; at quorum semina nostri, qui insipidius gustant, explodunt".
Tale invito fu raccolto dal D., che nel 1622 pubblicava a Napoli le Festivarum lectiones libri tres, che può considerarsi il primo esplicito tentativo di superare il regime giuridico tramandato dal Medioevo.
Nel volume non risparmiava le critiche ai giuristi ed alla "communis opinio" che pretendevano d'esprimere. Su quest'ultimo punto egli era quanto mai esplicito: i giureconsulti - scriveva - agivano come "aves et oves ... ut quo una vix iter tetenderit, omnes turinatim advolare incipiant". In questo generalizzato conformismo la verità era sempre ridotta a mal partito. Privo di dogmi e preconcetti, il giurista doveva sempre valutare criticamente la "prudentis opinio", passarla al vaglio dell'esperienza, ritenendola solo "probabilis, plausibilis aut qualisqualis auctoritatis". Con lo stesso metro doveva esaminare la giurisprudenza dei grandi tribunali che, assicurava, "Evangelium non est". Anche la separatezza e la pretesa autosufficienza della "scientia iuris" era negata: più che indulgere in cavilli e sottigliezze, i giuristi dovevano guardare con attenzione alle altre scienze. La tradizione, insomma, non offriva sufficienti parametri di certezza al giudice, invitato ad attenersi a ciò che (i naturali aequitati et conscientiae faveat" (ibid., cap. VI, pp. 54-69). All'"immensa et numerosa nostratum volumina" egli contrapponeva di continuo le opere di A. Alciato, F. Connan, G. Budé, J. Coras, B. Chasseneuz, F. Duaren, fino ad allora quasi sconosciute a Napoli. L'umanesimo giuridico, insomma, faceva irruzione sulla scena culturale del Regno, prospettato dal D. come soluzione alla crisi del diritto comune. Il problema della definizione giuridica della nobiltà costituiva per il D. uno di questi nodi. A coloro che, sulla scia della tradizione, difendevano il carattere ereditario della nobiltà, legata al sangue ed alla stirpe, egli replicava con gli umanisti che era la virtù a nobilitare l'individuo. E, quasi provocatoriamente, aggiungeva che anche "divitiae nobilitant", essendo la ricchezza un indicatore di qualità rilevanti e riconoscibili. All'obiezione che il denaro non costituiva un valore, ribatteva che "etsi fortunae non mutent genus, illud tamen adeo qualificant ut videatur in aliam speciem transferre, unde ex adepta dignitate dicitur quis homo novus (ibid., cap. VII, pp. 70-100).
Con tale scelta di campo il D. aveva compiuto un'operazione rilevante anche sotto il profilo politico: legittimava il potere degli "homines novi" e dava un solido ancoraggio alle loro aspirazioni. Da ciò il successo dell'opera e del suo autore che, a dire del Capaccio, superò i confini del Regno. Di certo non se ne dolse l'alta burocrazia di toga che nel 1630 affidò proprio al D. l'incarico di ribattere alla pretesa del visitatore generale F. A. de Alarcón d'imporre agli avvocati del Regno un giuramento "de bene et fideliter exercendo". Lo scritto del D., vera e propria apologia dei giuristi e della loro funzione di "universi terrarum orbis moderatores et arbitri", riscosse gli elogi del reggente Scipione Rovito, quantunque riproponesse le tesi formulate nelle Festivarum lectiones. Ilsuccesso di quest'ultima opera non fu comunque caduco se, ad oltre un secolo dalla pubblicazione, Gerardus Meermann progettava di riproporla integralmente nel suo monumentale NovusThesaurus iuris civilis et canonici.
Quei principî dell'umanesimo giuridico formulati nelle Festivarum lectiones furono dal D. applicati anche nella prassi forense, in special modo nei processi per l'ammissione nei "seggi" nobili della capitale - istituzioni dell'antico patriziato preposte al governo municipale - di famiglie nobilitate da poco tempo.
Era quasi un secolo che questi gruppi familiari lottavano per ottenere dalla Corona la creazione di nuovi seggi o, in alternativa, l'"aggregazione" nei cinque già esistenti. Resasi impraticabile questa via, agli "homines novi" che aspiravano al pieno riconoscimento della loro nobiltà non era rimasta che la possibilità di una reintegrazione giudiziaria. Si trattava di processi clamorosi, spesso costruiti su documenti falsi e, per ciò stesso, occasione di conflitti che andavano ben oltre la fattispecie dedotta in giudizio.
Su questa materia incandescente il D. si cimentò ripetutamente, raccogliendo le relative allegazioni nel Responsorum sive Consiliorum liber unicus, pubblicato a Napoli nel 1638.
Nel volume gli scritti di tal genere sono numerosi (II, pro Ludovico Caracciolo, XIV, pro principe Monasteracii; XV, pro principe Sancti Boni; XX, pro Ioanne Francisco De Transo; XXX, pro Fabio et Francisco Capassis; XXXIX, pro Francisco Capano; XL, pro baronibus Pullicae, Domnici et Suessae; LIII, pro barone Andriani; LXII, pro Ioanne Francisco et aliis De Transo) e tutti improntati ad un forte impegno civile. L'allegazione LXIII (scritta pro nobilibus et proceribus Neapolitanis extra sedilia ed inviata nel 1628 a Filippo IV di Spagna) costituisce un violento atto d'accusa contro l'antico patriziato che per un anacronistico egoismo di casta negava ad altri nobili il diritto-dovere di partecipare al governo della capitale. Ciò costituiva una violazione al principio di giustizia distributiva ed impediva un armonioso assetto della società. "Vero enimvero - scriveva - cum civitas ex duobus constet ordinibus, altero Nobilium, Plebeiorum altero, Nobiles cum. sui ordinis Nobilibus necessario convenire debent". Nell'attuale situazione, invece, i nobili non di seggio erano ridotti al rango di "apolides et aborigines", privi di una precisa identità sociale. L'arroccamento della nobiltà di seggio era, via via, definito "abusus", "prava consuetudo", "usurpatio", laddove l'unione di tutto il patriziato avrebbe reso "tutius ac splendidius" l'ordinamento cittadino. Era piuttosto da seguirsi l'esempio di altre città italiane dove "Prudentissimi Senatus post aliquot tempora suos benemeritos cives recognoscentes, eosdeni ad Patritiatum, atque adeo ad senatorium ordinem subinde provehunt" (ibid., pp. 262-67).
L'impegno del D. per la piena nobilitazione dei ceti emergenti si evidenziò anche nella sua attività storiografica. Per dimostrare la sostanziale identità tra tutti i "genera" di nobiltà, sin dall'inizio del secolo aveva progettato di scrivere una monumentale storia della nobiltà italiana. Non andò oltre una Cronologia della famiglia Caracciolo (Napoli 1605). Ma la medesima ideologia ispirava la Historia Napoletana, pubblicata quando l'accondiscendenza della Corona nei confronti dell'antica nobiltà aveva gettato il Regno in una gravissima crisi costituzionale.
La Historia infatti costituisce la risposta del ceto "civile" alla politica della corte madrilena, che minacciava di travolgere la struttura burocratico-ministeriale dello Stato e, con essa, le fortune degli "homines novi". Da ciò il radicalismo del D. che, investitosi del ruolo di "patriae dignitatis restitutor", teorizzava la vocazione repubblicana di Napoli, nata "republica libera" e prospera finché governata da organi elettivi. Per il D. il crollo delle istituzioni repubblicane era avvenuto assai tardi, durante il regno di Carlo I d'Angiò "il qual pare che veramente soggiogasse del tutto la Città et estinguesse la Republica" (ibid., p. 50).
Debole sotto il profilo filologico, l'opera aveva una valenza tutta politica: essa si faceva interprete di un diffuso antispagnolismo e di un repubblicanesimo che, se latente nella cultura del tempo, gli ultimi avvenimenti avevano ravvivato e fatto uscire allo scoperto come una praticabile soluzione istituzionale. E, tra le righe, emergeva la possibilità che il governo fosse esercitato da un Senato, espressione di tutte le élites.
Era inevitabile che un'opera siffatta producesse, sin dal suo apparire, violente polemiche. L'erudito Pietro Lasena accusò il D. di faciloneria e, nel secolo successivo, un giurista assai incline ai miti della nobiltà di sangue, G. D. Rogadei, rincarò la dose trattandolo da fomentatore del "fanatismo allignato nelle menti de' Napolitani ... lusingati dal nome di Repubblica, Doge e Consoli". Per il Rogadei, insomma, il D. era stato solo un sovversivo, preoccupato "di secondare il pendio della propria passione".
Questa feroce stroncatura di un'opera tanto apprezzata dai contemporanei non deve stupire: essa costituiva l'ultima eco di una polemica che si trascinava da oltre un secolo. Di fatto il repubblicanesimo del D., il suo spirito antinobiliare, erano indicati come una delle matrici della svolta repubblicana del 1647. Dal suo punto di vista il Rogadei non sbagliava: spentosi verso il 1645, il D. aveva tuttavia "vissuto" con le sue opere la rivoluzione, le aveva dato spessore e motivazioni ideali.
Fonti e Bibl.: Un autografo del D. relativo al suo incontro con Paolo Beni è nella Bibl. naz. di Napoli, Fondo S. Martino, ms. 572. Per la biografia, quale si è ricostruita, cfr. L. Giustiniani, Memorie istor. degli scrittori legali del Regno di Napoli, III, Napoli 1788, pp. 55-59 e, soprattutto, [F. Daniele] La vita di F. D. giureconsulto e storico napoletano scritta da un accademico fiorentino, Napoli 1803. Relativamente alla data della morte, cfr. C. Padiglione, Le leggi dell'Accademia degli oziosi in Napoli, Napoli 1878, pp. 29 s., n. 4. Sono peraltro numerosi i riferimenti autobiogr. nelle opere del D.: dagli Epigrammata (pp. n.n., XXX) ho tratto l'informazione relativa al Vectius e dalle Festivarum lectiones (p. 37) quella su Raimo de Petris. Altre testimonianze in G. C. Capaccio, Epistolarum liber., I, Neapoli 1615, pp. 32, 59 s., 120; Id., Il forastiero, Napoli 1634, p. 700; P. Lasena, Dell'antico ginnasio napolitano, s.l. né d. [ma Roma 1641], pp. 8 s.; N. Toppi, Biblioteca napoletana et apparato a gli huomini illustri in lettere di Napoli, Napoli 1678, p. 44; G. B. Pacichelli, Mem. novelle de' viaggi per l'Europa cristiana composte in varie lettere..., II, Napoli 1690, p. 353; G. D. Rogadei, Saggio di un'opera intitolata "Il diritto pubblico e politico del Regno di Napoli", Cosmopoli s. d., pp. 61 s.; N. Cortese, I ricordi di un avvocato napoletano del Seicento. Francesco D'Andrea, Napoli 1962, pp. 67, 247 s. Circa l'attribuzione della biografia tassiana cfr. C. Modestino, Della dimora di T. Tasso in Napoli negli anni 1588, 1592 e 1594, I, Napoli 1861, p.131, n. 2; G. I. Ferrazzi, T. Tasso, Studi biografici-critici-bibliografici, Bassano 1880, pp. 1 s.; A. Solerti, Vita di T. Tasso, I, Torino-Roma 1895, p. 843. Sulla personalità intellettuale e politica del D., cfr. V. I. Comparato, Uffici e società a Napoli (1600-1647). Aspetti dell'ideologia del magistrato nell'età moderna, Firenze 1974, pp. 279, 284, 288 n., 366, 368, 402-406, 408; P. L. Rovito, Respublica dei togati. Giuristi e società nella Napoli del Seicento, I, Le garanzie giuridiche, Napoli 1982, pp. 106, 127 n., 128 n., 158 s., 165-68, 192; I. Del Bagno, Reintegrazione nei Seggi napoletani e dialettica degli "status", in Arch. stor. per le prov. napolet., CII (1984), pp. 189-204; P. L. Rovito, La rivoluzione costituzionale di Napoli (1647-1648), in Riv. stor. ital., XCVIII (1986), pp. 389 s., 418, 427, 441.