DE ATTELLIS, Francesco
Nacque a Campobasso il 2genn. 1763, in una famiglia tradizionalmente dedita all'esercizio della magistratura, da Giuseppe, marchese di Sant'Angelo, e da Ippolita dei conti Vignola di Milano.
Perduto il padre l'anno stesso della sua nascita e posto sotto la tutela della madre, prestissimo fu da questa inviato a Roma al Collegio Clementino. Secondogenito, e perciò senza speranza di succedere al padre nel titolo e nelle sostanze, venne destinato alla professione di avvocato e da Roma, unica città fuori del Regno visitata nel corso della sua vita, passò a Napoli dove seguì i corsi di giurisprudenza tenuti da Pasquale Ferrigno ed ebbe il Genovesi per maestro di filosofia. Non ancora ventenne esercitò per due anni la professione forense; ma, alla morte del fratello, divenuto erede delle sostanze paterne e con ciò libero da preoccupazioni professionali, abbandonò la giurisprudenza per dedicarsi interamente alla ricerca archeologica e agli studi di storia antica.
Filologo valente, studioso di un buon numero di lingue antiche - apprese, oltre al greco e al latino, l'ebraico, il siriaco, il caldeo, l'arabo ed altre lingue orientali -, il D. trascorse l'intera sua vita a raccogliere materiali per una storia dell'Italia preromana, in modo particolare dell'antico Sannio, compiendo indagini di tipo linguistico, prevalentemente etimologiche, e integrando lo studio delle vaghe e confuse testimonianze letterarie sugli antichi popolì italici con la ricerca di reperti archeologici, soprattutto medaglie, monete ed iscrizioni di cui fece una bella collezione confluita, poi, nella raccolta del conte G. Orloff.
Infelicissima fu la sua vita familiare; contrario ad ogni vincolo domestico, ebbe sempre rapporti assai turbolenti con la moglie Dorotea D'Auria e i figli. Il primogenito, Giuseppe, da lui accusato di aver tentato di avvelenarlo, fu costretto, nel 1790, ad abbandonare Napoli e a recarsi in Spagna, ove morì otto anni più tardi.
Il secondogenito, Orazio, così riassunse nelle proprie memorie il suo giudizio su di lui: "Presentava mio padre nel suo carattere personale un impeto singolare di grandezza e di bassezza, di sublimità e di volgarismo, di dottrina e di fanciullaggine, di amabilità e di ferocia; era il migliore degli amici ed il peggiore dei padri di famiglia: idolo, delizia di tutte le società galanti e letterarie, tiranno spietato di chiunque gli apparteneva per vincolo di sangue. Predominava in lui il vizio del giuoco.... Non è dunque meraviglia l'essere stata la sua casa il teatro di scandalose stranezze".
Sentì, invece, fortemente i vincoli dell'amicizia; tra i letterati napoletani in particolare gli furono amici F. Daniele, l'arcivescovo Capecelatro, M. Delfico, M. Arditi, G. M. Galanti. Il D. nascose in casa propria per due anni con grandissimo pericolo quest'ultimo, della cui Società letteraria e tipografica fu socio, salvandolo così dalla polizia borbonica che lo ricercava perché già membro della commissione Finanze della Repubblica Partenopea del 1799. Nel 1802,ammalatosi, accusò la moglie Adriana Rango d'Aragona, sposata in seconde nozze. d'avergli propinato del veleno.
La donna, arrestata e poi liberata dopo cinque anni di un dispendiosissimo processo, morì in un ritiro religioso. L'incidente rese ancora più precari i suoi rapporti con la famiglia, e il terrore, che non lo abbandonò più, di finire assassinato, accentuò i tratti eccentrici del suo carattere.
Tra il 1805 e il 1807 pubblicò due volumi dell'opera sulle origini della civiltà italica (Principi della civilizzazione d'Italia, I-II, Napoli 1805-07).
In essi il D. negava la priorità dei Greci nella fondazione della civiltà italica, esaminava criticamente le tradizioni relative a quei tempi antichissimi e identificava nei Fenici, dei quali rintracciò in tutti i litorali italiani residui linguistici, riti religiosi, costumi, coloro che per primi avevano portato in Italia le nozioni del vivere civile. I Principi, se risentivano del razionalismo predominante, erano tuttavia, a cominciare dal titolo - come sottolineò V. Cuoco in tre articoli sul Corriere di Napoli, d'ispirazione vichiana.
A Vico, infatti, il D si rifaceva nel prendere le mosse dalla tripartizione varroniana dei tempi in oscuro, favoloso e storico, nell'asserire che le favole romane furono tardivamente plasmate su quelle greche, nell'usare le etimologie come prove storiche. E del Vico il D. fece, nell'opera, esplicitamente il nome come di colui "che ha tenuto un cammino del tutto nuovo per mettere a giorno la nascita delle nazioni... ha saputo riunire la filosofia alla filologia... ha seguito le tracce della natura e l'ordine delle cose u mane". In seguito i Principi furono ricordati da P. Ulloa come "ouvrage remarquable par l'érudition, mais qui a des raisonnements trop entortillés, et des étymologies trop forcées".
Puro deista in religione, in politica il D. restò sempre sostenitore dell'ancien règime e profondamente avverso ai Francesi. Quando nel 1806 l'esercito napoleonico invase il Regno, fu nominato da Giuseppe Bonaparte socio dell'Accademia di scienze e belle lettere, ma a monsignor Capecelatro, ministro dell'Interno, che personalmente lo invitò a far parte del Consiglio di Stato, il D., non volendosi compromettere con Ferdinando IV, rispose: "ho io più bisogno di consigli che talento per darne".
Ciononostante dimenticò il suo odio verso gli istituti francesi per difendere come "santo e augusto" quello del divorzio introdotto nell'Italia meridionale nel Decennio. Fu autore, infatti, di un opuscolo, senza note tipografiche ma sicuramente edito a Napoli nel 1809, in cui sosteneva il carattere antireligioso dell'indissolubifità del matrimonio attraverso l'esame dei divorzio nell'Antico Testamento, nel Vangelo e nella storia della Chiesa. Combatteva la separazione come insufficiente e dannosa e adduceva a favore del divorzio la necessità di sostenere l'autorità dello Stato contro le usurpazioni della Chiesa (Discorso sulla legge del divorzio, s. I. né d.).
Nel 1810 il D. preparava il terzo e più importante volume dei Principi, quello dedicato allo stato antico ed attuale del Sannio, quando, a Napoli, morì il 24 marzo. V. Cuoco, sul Corriere di Napoli, ne scrisse la necrologia. Il D. fu socio della Società d'incoraggiamento per le scienze naturali e per la rurale economia e della Commissione incaricata della statistica generale del Regno.
Fonti e Bibl.: Necrol. di V. Cuoco, in Corriere di Napoli, 24 marzo 1810; Id., ibid., 31 dic. 1806; 7 genn. 1807; 27 dic. 1807; 6 genn. 1808; 24 marzo 1810; Napoli, Bibl. naz., ms. V-A-48 M: O. De Attellis, Autobiografia, cap. I;V. Cuoco, Scritti vari, Bari 1924, ad Indicem; P. Napoli Signorelli, Vicende della cultura nelle Due Sicilie, VIII, Napoli 1811, pp. 185-93; G. Castaldi, Della regale Accademia Ercolanense dalla sua fondaz. sinora con un cenno biografico de suoi soci ordinari, Napoli 1840, pp. 78 ss.; P. Ulloa, Pensées et souvenirs sur la littérature contemp. du Royaume de Naples, I,Genève 1859, p. 120; P. Albino, Biografie e ritratti di uomini illustri della provincia del Molise, II,Campobasso 1865, pp. 115-31; B. Croce, Aneddoti e profili settecenteschi, Napoli 1914, pp. 324-27; G. Verrecchia, G. M. Galanti, Campobasso 1924. p. 11; N. Cortese, Le avventure ital. e americane di un giacobino molisano, Orazio de Attellis, Messina 1936, pp. 4-7; B. Croce, Bibliografia vichiana, a cura di F. Nicolini, Napoli 1947, ad Ind.