DANDOLO, Francesco
Della nobile famiglia veneziana del ramo di S. Luca, nacque da Giovanni detto Cane intorno al 1258: scrive infatti il cronista Caroldo (f. 170r) che aveva settantuno anni quando fu eletto doge.
La carriera pubblica del D. anteriormente al dogato è ricostruibile con testimonianze documentarie (se si eccettua la missione ad Avignone ricordata in varie fonti narrative), sia pure con un certo margine di incertezza derivante dall'esistenza di almeno un omonimo, figlio di Filippo, di cui si sa soltanto che fu eletto arbitro in una contesa fra Venezia e Traù nel 1328.
Tra il 1302 e il 1304 il D. fu bailo di Negroponte: in questa veste fu probabilmente giudice di Giorgio Ghisi nella causa intentatagli dopo la conquista delle isole di Cèo e Sèrifo sottratte ai Bizantini. Belletto Giustinian e Bartolomeo Michiel, che con il Ghisi avevano realizzato l'impresa (probabilmente nel 1302), lo accusarono di aver violato i patti nella divisione del bottino ricorrendo al tribunale del bailo di Negroponte, che lo condannò. Nel 1307 il D. è ricordato fra i membri della Quarantia. Il 9 apr. 1309 concluse un trattato commerciale per conto della Repubblica con i Trevigiani e, ai primi di settembre dello stesso anno, fu inviato in missione ad Avignone assieme a Carlo Quirini, per comporre il dissidio insorto fra Venezia e papa Clemente V per il dominio di Ferrara.
L'inserimento veneziano nelle faccende di Ferrara aveva portato nel 1308 alla guerra con la S. Sede, culminata con la scomunica lanciata contro la Repubblica il 25 marzo 1309 e la sconfitta delle sue armi il 28 agosto dello stesso anno. Gli ambasciatori veneziani fecero tappa alla corte di Filippo il Bello perché interponesse i suoi buoni uffici presso il papa: questi, che in un primo tempo esigeva la completa sottomissione senza voler ascoltare alcuna giustificazione, su richiesta del re ammise alla sua presenza i due veneziani, che giunsero ad Avignone verso i primi di ottobre. I primi contatti non portarono ad alcun risultato e, nel marzo 1310, le trattative vere e proprie non erano ancora iniziate. Il papa esigeva che gli ambasciatori trattassero con un mandato molto ampio e il 19 marzo 1310 il doge e i consiglieri con il consenso unanime del Maggior Consiglio concessero la richiesta autorizzazione. Furono quindi iniziate le trattative con tre cardinali di Curia (Berengario vescovo di Tuscolo, Stefano prete di S. Ciriaco alle Terme e Raimondo diacono di S. Maria Nova) e fin dall'inizio dovettero presentarsi grandi difficoltà. Il 15 giugno 1310 gli ambasciatori inviarono una relazione al loro governo e il 27 dello stesso mese il Consiglio ducale rispose esprimendo soddisfazione. Ma in seguito si ebbe un rallentamento a causa dell'irrigidimento veneziano. L'anno seguente il Quirini fu richiamato in patria e il D. proseguì da solo i negoziati inviando a Venezia frequenti relazioni. Il 15 giugno 1310 si giunse ad un armistizio in forza del quale si concedeva ai Veneziani di recarsi nuovamente a Ferrara ed esercitarvi liberamente il commercio. La Repubblica si impegnava in cambio a pagare al pontefice una somma in fiorini d'oro di Firenze, che fu inviata in due rate ad Avignone. La controversia fu chiusa definitivamente soltanto nel 1313: il 26 gennaio di quell'anno il papa scrisse al doge Giovanni Soranzo annunziando che Venezia era di nuovo accolta nella Chiesa e il 17 febbraio emanò la bolla Decet sedis diretta ai Veneziani, che segnò la fine della contesa.
Ai primi di maggio del 1313 il D. tornò in patria dove fu accolto con grandi onori. Il 12 espose dinanzi al Maggior Consiglio, alla presenza del doge e del Consiglio ducale, gli accordi stipulati ad Avignone.
La pace costò cara a Venezia, ma è indubbio che l'abilità diplomatica del D. consentì di attenuare il rigore del papa. Si lega a questa ambasceria la leggenda dell'attribuzione al D. del soprannome di "cane" per essersi presentato a Clemente V con una catena al collo in atteggiamento supplice. La veridicità della notizia - già di per sé poco plausibile - viene smentita dall'attribuzione del soprannome ad altri membri della famiglia (fra cui il padre Giovanni), ma vale in ogni caso come testimonianza indiretta delle difficoltà incontrate ad Avignone.
Nel settembre 1314 il D. si trovava in Romania donde spedì al doge un inventario dei danni provocati dai Genovesi ai Veneziani dopo la pace del 1299; il 15 dicembre dell'anno seguente era a Capodistria fra gli arbitri di una contesa circa il possesso di terre abusivamente occupate dal conte di Gorizia e il 6 marzo 1317 di nuovo a Venezia dove trattò con i Trevigiani per conto della Repubblica. Il 17 agosto dello stesso anno fu nuovamente eletto bailo di Negroponte dove arrivò da Venezia tra il 6 dicembre e il 3 marzo 1318 restandovi fino al 1319. A Venezia, nel giugno 1320, ebbe l'incarico di conferire con gli ambasciatori di Niccolò conte palatino, despota di Romania, assieme a Niccolò Zane e Marino Falier. Un documento del marzo 1321 lo ricorda come podestà di Capodistria e un altro dello stesso anno attesta che il 21 agosto fu eletto conte di Zara. Assieme a Marino Falier, Niccolò Arimondo ed Enrico Michiel condusse inoltre, per conto della Repubblica, le trattative con l'emissario del patriarca di Aquileia cui fece seguito un trattato concluso a Venezia l'8 dic. 1321. È ricordato infine il 2 apr. 1326 fra i creditori del fiorentino Andrea Pilestri e, il 9 maggio dell'anno seguente, fra i dieci savi eletti a Venezia per esaminare le questioni di Negroponte. Secondo il genealogista Cappellari Vivaro, sarebbe stato anche procuratore di S. Marco dopo la legazione ad Avignone, ma non se ne hanno testimonianze.
Il 4 genn. 1329 il D. fu eletto doge succedendo al Soranzo.
Poco tempo dopo inviò alcune navi in Sicilia per rifornire di grano Venezia travagliata dalla carestia, ottenendo così un ampio consenso fra il popolo. Il primo avvenimento rilevante in politica estera fu lo scontro con il patriarca di Aquileia in seguito alla dedizione di Pola e di Valle in Istria i cui abitanti, cacciati i governatori imposti dal patriarca, si sottomisero alla Repubblica. La breve guerra che ne seguì terminò con la cessione di Pola e di altre località ai Veneziani in cambio di un tributo annuale (gennaio 1334). Nel frattempo Venezia fu chiamata a partecipare alla crociata che si andava organizzando per iniziativa del papa Giovanni XXII e di Filippo VI re di Francia. I preparativi iniziarono nel 1330 e il 22 luglio 1332 il re prese la croce cercando di trascinare tutto l'Occidente nell'impresa. Il 18 nov. 1331 Filippo VI aveva scritto al doge annunziando il progetto e chiedendo l'invio di ambasciatori in Francia per informarlo in merito alla partecipazione veneziana. La Repubblica aderì alla richiesta ponendo una serie di condizioni preliminari e impegnandosi a fornire un certo numero di navi (11 maggio 1332). Ma in ogni caso il progetto di una crociata in Terrasanta non sembra aver infiammato i Veneziani, se non nelle aspirazioni letterarie di Marin Sanuto Torsello. Il loro interesse era semmai rivolto al contenimento dell'espansione ottomana laddove minacciava i possedimenti in Levante. In quest'ottica fu infatti conclusa una lega quinquennale con Andronico III imperatore di Bisanzio e i Cavalieri di Rodi, in forza della quale si stabilì di armare venti galere per combattere i Turchi (6 sett. 1332). In seguito anche il re di Francia, rispondendo alla richiesta del D., promise di inviare alcune navi in appoggio agli alleati (2 nov. 1333). Filippo VI scrisse nuovamente al D. l'11 nov. 1333 comunicandogli il prossimo inizio della spedizione e chiedendo l'invio di ambasciatori a Parigi. Nel marzo 1334, a Parigi, si misero a punto i dettagli dell'impresa che doveva iniziare in maggio con il concentramento delle navi a Negroponte. Ma la morte di Giovanni XXII e l'aggravarsi dei rapporti franco-inglesi ritardarono la crociata, che due anni più tardi Benedetto XII sospese.
Nel 1336 Venezia entrò in guerra con gli Scaligeri. L'espansionismo di Mastino II della Scala (nel 1336 signore di Verona, Vicenza, Padova, Feltre, Belluno, Brescia, Lucca e di altre località minori) portò al conflitto con Venezia quando questa vide direttamente minacciati i propri interessi. I motivi di attrito andavano dalle rivendicazioni territoriali dello Scaligero al boicottaggio delle proprietà veneziane in Terraferma, ma la crisi fu acuita dall'imposizione di un dazio a Ostiglia per le barche che navigavano nel Po e, soprattutto, dal tentativo di impiantare saline a Petadebò nei pressi di Chioggia. La Repubblica rispose con rappresaglie economiche e Mastino, a sua volta, interruppe il rifornimento di Venezia dalla Terraferma. Si tentò comunque una conciliazione per iniziativa dei Veneziani, che esitavano ad impegnarsi al di fuori del loro ambito tradizionale. Ma le trattative fallirono per l'intransigenza dello Scaligero, che nel frattempo terminava di costruire un castello a Petadebò. Si decise quindi la guerra, sia pure fra molte opposizioni: il doge stesso fu un tenace avversario dell'intervento. Il 21 giugno 1336 Venezia strinse con Firenze un'alleanza antiscaligera, cui in seguito aderirono i signori di Milano, Ferrara, Mantova (10 marzo 1337), il principe Carlo di Boemia e il fratello Giovanni di Carinzia (28 luglio 1337). Le operazioni militari fin dall'inizio furono favorevoli agli alleati. Pietro de' Rossi, che gli Scaligeri avevano cacciato dalla signoria di Parma, fu nominato comandante dell'armata veneto-fiorentina ricevendo solennemente dalle mani del D. il vessillo della Repubblica (10 ott. 1336). Con l'aiuto dei Chioggiotti il de' Rossi occupò il castello di Petadebò, che fu raso al suolo (22 nov. 1336). Il 3 agosto dell'anno seguente Padova si consegnò al de' Rossi e, poco tempo dopo, Brescia e Bergamo si arresero ai Visconti, Feltre e Belluno a Carlo di Boemia. Nel frattempo Lucca era minacciata dalle truppe di Rolando de' Rossi, succeduto nel comando al fratello ucciso all'assedio di Monselice. Vistosi alle strette, Mastino chiese la pace che fu sottoscritta a Venezia il 24 genn. 1339. La Repubblica ottenne il ripristino della libertà di navigazione lungo il Po con l'abolizione dei dazi, il pagamento dei danni e la cessione di Treviso, di Castelbaldo e di Bassano con i relativi territori. Castelbaldo e Bassano vennero ceduti a Ubertino da Carrara signore di Padova, che aveva favorito la presa della città. Il 14 febbr. 1339 la pace fu solennemente celebrata con un torneo in piazza S. Marco. Con l'acquisto di Treviso, Venezia si assicurava per la prima volta un ampio possesso di Terraferma. Si inaugurava così una politica che, seppure abbandonata dagli immediati successori del D., sarebbe stata portata in seguito a più ampi sviluppi. La Repubblica prese possesso di Treviso nello stesso anno inviandovi i propri governatori, ma l'atto formale di dedizione fu sottoscritto soltanto all'inizio del 1344 sotto il dogato di Andrea Dandolo. La conquista consolidò la potenza veneziana rivelandosi vantaggiosa anche sotto il profilo economico.
Il D. morì a Venezia il 31 ott. 1339.
Lasciava la moglie Elisabetta Contarini e tre figlie, Marchesina sposata in Sanuto, Sofia moglie di Nicolò Gradenigo e Agneta sposata a un Falier. L'unico figlio, Gratone, gli era premorto ma il D. aveva un figlio naturale, di nome Zanino, cui lasciò quasi tutte le proprie sostanze fra cui erano il palazzo situato a S. Polo e notevoli proprietà nel Ferrarese. Nel testamento, che risale a cinque giorni prima della, morte, il doge chiese di essere sepolto nella chiesa di S. Maria dei Frari - di cui era stato benefattore - destinando l'arca a sé e alla moglie, se anche questa lo avesse voluto. E in effetti nel testamento del 22 apr. 1348 Elisabetta Contarini dispose di essere tumulata ai Frari: ma all'apertura della tomba (il 27 maggio 1818) le sue ossa non furono trovate accanto a quelle del marito. Il D. la indicò inoltre come esecutrice del testamento e amministratrice del patrimonio, lasciandole i suoi oggetti personali. La tomba monumentale del D., recentemente ricomposta nell'aspetto originario, si trova nella sala del capitolo della chiesa dei Frari. Il sarcofago, che presenta in altorilievo la scena della morte di Maria, è sormontata dall'ancona con la lunetta dipinta da Paolo Veneziano in cui si vedono s. Francesco e s. Elisabetta che presentano alla Vergine il doge e la dogaressa. Un'altra immagine del doge si ha in una miniatura riprodotta dal Cecchetti da un codice dell'Archivio di Stato di Venezia. Si conserva un inventario delle cose lasciate dal D., in data 11 ag. 1341 (edito dal Molmenti, I, pp. 513 ss.), che fornisce un'interessante testimonianza sull'arredamento delle sue stanze in palazzo ducale. La presenza di una ventina di manoscritti sembra attestare una certa attenzione per la cultura, implicitamente confermata dalle opere che gli furono dedicate (il poema di Castellano da Bassano sulla pace di Venezia fra Chiesa e Impero, la cronaca della guerra veneto-scaligera di Iacopo Piacentino e un poema sullo stesso argomento). Si conosce inoltre un mottetto anonimo celebrante la visita che, secondo la consuetudine, il doge compiva annualmente all'isola di San Giorgio Maggiore la sera di Natale e il giorno seguente. Gli si attribuisce infine una raccolta di deliberazioni del Maggior Consiglio, che anticipa la revisione della legislazione veneziana poi compiuta dal doge Andrea Dandolo.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Frari, reg. 1, cc. 3, 4, 16; Ibid., Procuratori di S. Marco, Atti Misti, b. 173, fasc. 6 (commissaria del D.); Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 128a (= 8639): G. Caroldo, Historia di Venetia, ff. 170r-188r; Ibid., Mss. It., cl. VII, 16 (= 8305): G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, II, ff.4v-5r; Andreae Danduli Chronica Brevis, in Rerum Italicar. Script., 2 ed., XII, 1, a cura di E. Pastorello, pp. 371 s.; N. Sanuto, Vitae ducum Venetorum, in L. A. Muratori, Rer. Ital. Script., XXII, Mediolani 1733, cc. 600-606; A.S. Minotto, Documenta ad Belunum Cenetam Feltria Tarvisium spectania, I, Continens docc. usque ad a. MCCCXXIII, Venetiis 1870, pp. 102, 130; Ilibri commemoriali della Repubblica di Venezia, Regesti, a cura di R. Predelli, I, Venezia 1876, l. 1, nn. 148, 225, 316, 634, 669; l. 2, nn. 106, 110, 164, 182, 222, 271, 292, 309; II, ibid. 1878, l. 3, nn. 154-454; Diplomatarium Veneto-Levantinum sive acta et diplomata res Venetas Graecasarque Levantis illustrantia, a cura di G. M. Thomas, I, 1300-1350, Venetiis 1880, nn. 108-128; Antichi testam. tratti dagli archivi della Congregazione di Carità di Venezia, s. 7, Venezia 1888, pp. 9-16; G. Soranzo, La guerra fra Venezia e la S. Sede per il dominio di Ferrara (1308-1313), Città di Castello 1905, doc. 20, pp. 170-74; J. Piacentino, Cronaca della guerra veneto-scaligera, a cura di L. Simeoni, Venezia 1931, passim; Le deliberazioni del Consiglio dei Rogati (Senato), "Serie Mixtorum", a cura di R. Cessi-P. Sambin, I, Venezia 1960, pp. 195 (V, n. 212), 199 (V, n. 258), 230 (VI, n. 113); Venetiarum historia vulgo Petro Iustiniano Iustiniani filio adiudicata, a cura di R. Cessi-F. Bennato, Venezia 1964, pp. 216-23; P. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, I, Bergamo 1927, pp. 513 ss.; S. Romanin, Storia docum. di Venezia, III,Venezia 1855, pp. 108-38; B. Cecchetti, La vita dei Veneziani nel 1300. Le vesti, Venezia 1886, tav. III, 1; G. Soranzo, La guerra fra Venezia e la S. Sede, cit., pp. 207-34; H. Kretschmayr, Gesch. von Venedig, II, Gotha 1920, pp. 186-89; R. Cessi, D. F., in Enc. Ital., XII, Milano 1931, p. 289; A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1960, pp. 106-10; A. Pertusi, Quedam regalia insignia. Ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia durante il Medioevo, in Studi venez., VII (1967), pp. 53, 58 s. e tavv. XXI 2, XXIV; G. Cracco, Società e Stato nel Medioevoveneziano (sec. XII-XIV), Firenze 1967, pp. 385, 389-94; R. J. Loenertz, Les Ghisi. Dynastes vénitiens dans l'Archipel, 1207-1390, Firenze 1975, pp. 112, 137 n., 142, 149, 157, 212-24, 297, 304, 331 n., 465; L. Gargan, Il preumanesimo a Vicenza, Treviso e Venezia, in Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, p. 153; G. Cracco, La cultura giuridico-politica nella Venezia della "Serrata", ibid., p. 243 n.; P. Petrobelli, La musica nelle cattedrali enelle città ed i suoi rapporti con la cultura letter., ibid., pp. 456 s.; A. Loredan, I Dandolo, Varese 1981, pp. 275-81.