FRANCESCO da Fiano
Nacque a Fiano (oggi Fiano Romano), poco distante da Roma, allora feudo della famiglia Orsini, intorno al 1350 da Antonio, con ogni probabilità notaio. Forse già dal 1368 egli faceva parte del seguito di Pandolfo Malatesta, allora vicario pontificio di Città di Castello, ove probabilmente F. strinse un'amicizia destinata a durare negli anni col cancelliere e notaio delle Riformagioni di quel Comune ser Ludovico di ser Romano da Fabriano, l'autore del poemetto anticuriale De casu Cesene. Il Malatesta, era rimasto singolarmente colpito dall'ingegno di F. e lo inviò così a sue spese, già dall'anno seguente, a studiare a Bologna ove F. si trattenne fino al 1372: qui egli frequentò - e sarà un incontro fondamentale per la sua formazione - la scuola di Pietro da Moglio dove udì commentare non solo i poeti antichi ma anche alcuni capolavori della poesia latina contemporanea, quali i carmi bucolici di Dante e di Giovanni Del Virgilio o il Bucolicum carmen del Petrarca.
Da Bologna nell'aprile del 1370 F. con un giovane collega, Matteo Fei d'Arezzo, indirizzò due lettere (edite da Weiss, 1949) al Petrarca nelle quali i due si rallegravano con lui per aver accertato come falsa la notizia, che si era allora diffusa, della sua morte a Ferrara per peste. La lettera di F. è un documento della riverenza e del culto che per il Petrarca si aveva all'interno della scuola di Pietro da Moglio e fu subito seguita da un'altra - perduta - nella quale F. annunciava al Petrarca la guarigione del suo maestro da una grave malattia. Solo più di un anno dopo, il 16 ott. 1371, il Petrarca, che nel frattempo si era informato presso il Malatesta sul conto del giovane, rispondeva a F. rallegrandosi della guarigione di Pietro e congratulandosi con lui sia della forbitezza del suo stile epistolare sia della sua origine romana.
Nel 1372 F. era a Pesaro presso il Malatesta, che, sempre consapevole delle qualità del giovane, propose al Petrarca - in una lettera perduta - di prenderlo con sé, in qualità di scrivano e di segretario, ma il Petrarca, rispondendo a Pandolfo il 4 genn. 1373 si dichiarava dolente di non poter esaudire la richiesta. F. si trovava, quindi presso Pandolfo quando questi morì poco dopo, proprio alla fine del gennaio 1373: per l'occasione F. compose alcuni esametri (editi da Weiss, 1949, p. 155) per un quadro raffigurante s. Francesco che presentava alla Madonna il defunto in abito di frate minore da porsi, forse, sulla tomba del Malatesta. La morte di Pandolfo fu una grande sventura per F., per il quale cominciò un periodo di vita raminga e di stenti conclusosi finalmente nel 1379 quando egli poté trovare un impiego presso la Curia da poco ritrasferitasi da Avignone a Roma. Probabilmente in quest'anno, infatti, egli venne nominato "scriptor et abbreviator apostolicus" e da allora in poi F. seguirà le varie vicissitudini e gli spostamenti se non del papa, almeno della Cancelleria pontificia: così, probabilmente, tra il 1379 ed il 1383 fu a Tivoli, dove si era allora stabilita la Curia (come allude il carme Porca spinosa al cardinale B. Mezzavacca ricordato dalla Monti, pp. 141 s.) e dopo l'aprile 1383, sempre seguendo gli spostamenti di Urbano VI - che appoggiava all'epoca Carlo di Durazzo nella sua conquista del Regno di Napoli - egli si recò nel Napoletano, rifiutando, quindi, l'offerta di una "lectura rethoricae et poetarum" a Perugia.
Probabilmente durante il suo soggiorno nel Regno, tra l'aprile 1383 e la fine del 1384, F. intraprese, forse stipendiato dalla corte, a scrivere le Res gestae in Regno Sicilie - mai terminate e comunque perdute - e certamente condusse a termine sia il perduto De beata ac activa et contemplativa vita dedicato al "logothetam Regni Sicilie" Gorello Caracciolo, sia la lettera-invettiva "In quendam Feolum Regie maiestatis cancellarium ac thesaurarium", una protesta contro il mancato pagamento da parte della Camera regia di un salario, dovutogli forse proprio per la composizione dell'anzidetta opera storica.
Ignoriamo se F. si trovasse col papa a Nocera quando la città fu assediata dal Durazzo e lo seguisse poi nella fuga attraverso il Regno sino a Bari e poi, da lì, a Genova: certo in una lettera a un amico, accennando ai flagelli della guerra e alla sua avversa fortuna, si lamenta di non poter uscire dal Regno e raggiungere di nuovo finalmente Roma per la mancanza di mezzi e la pericolosità delle strade (Monti, pp. 129 s.). Nel febbraio del 1387 F. era però di nuovo accanto a Urbano VI, allora a Lucca: è in questa città, infatti, che egli deve aver composto due epitaffi esametrici per la defunta sorella monaca del papa, Cizula Prignano; certamente egli riprese in quel periodo il suo lavoro negli uffici della Cancelleria e un registro di quell'anno, anzi, lo chiama computator.
Nell'aprile del 1388 seguì Urbano VI a Perugia e qui, in occasione del decennale del pontificato e a nome di tutta l'"Universitas scriptorum litterarum apostolicarum", indirizzava al pontefice un carme esametrico ove lo invitava tra l'altro a venire in aiuto delle borse dei poveri curiali che per lui avevano sin qui sopportato fatiche, viaggi e carcere. Insieme con tutta la corte quindi, F. rientrò a Roma nel settembre dello stesso anno invitando con un altro carme i Romani a festeggiare il rientro di Urbano VI dopo un'assenza di cinque anni. Ma è dal pontificato di Pietro Tomacelli, eletto papa l'anno seguente col nome di Bonifacio IX, che F. parve consolidare la sua posizione in Curia iniziando a cumulare oltre alla sua carica di scriptor anche vari benefici: infatti il 7 ag. 1391 Bonifacio IX lo nominò canonico di Sutri e il 21 agosto dello stesso anno lo provvide di due canonicati e altri benefici a Foligno, città ove risiedeva suo fratello Pepo e con i signori della quale - i Trinci - egli aveva già da tempo un rapporto di ossequio e di clientela che si andò poi rafforzando negli anni seguenti. In quegli anni, tra il 1399 ed il 1404, Bonifacio IX lo nominò - solamente a voce - "principalis et maior cancellarius litterarum populi romani penes conservatores camerae urbis"; sempre in questo periodo F. scrisse la sua operetta più significativa, quella che si distingue tra le altre sue scritture per accenti di intima e accorata convinzione, il Contra ridiculos oblocutores poetarum dedicato a un protettore di umanisti, il cardinal C. Migliorati - il futuro Innocenzo VII - all'epoca a capo della Cancelleria pontificia: un'appassionata difesa del valore della poesia antica ma anche una vivace apologia della "virtù dei pagani", che nel suo tono ci permette, d'altro canto, di intravedere il severo giudizio che F. formulava in cuor suo sulla decadenza religiosa dell'età sua. Non gli furono infatti estranei i moti spirituali che attraversarono la vita dei suoi tempi: nel 1400, anno del Giubileo, il movimento dei bianchi - compagnie di uomini vestiti di bianco che convergevano su Roma da ogni parte d'Italia commuovendola a devozione ma anche a fanatica pietà non scevra di imposture e ciurmerie - travolse anche F.; anzi in un sonetto (l'unico scritto volgare venato di forme dialettali romanesche che di lui ci sia rimasto: edito da Weiss, 1957, p. 206) egli si lamentò di dover abbandonare "la bianca veste" proprio per ordine di Bonifacio IX, che aveva infatti subito proibito queste compagnie.
Dal 1406, cioè dal ritorno della Curia e di Innocenzo VII da Viterbo a Roma, F. si trovava nella Cancelleria papale insieme a uomini come L. Bruni, P. Bracciolini, A. Loschi e P.P. Vergerio: amici e colleghi più giovani, destinati a più grandi carriere e a maggior fama letteraria, che lo circondavano comunque di venerazione e di stima.
Si guardava a lui, a Roma, fatte le debite differenze, un po' come a Firenze si era guardato a C. Salutati - suo vecchio amico e corrispondente da anni - come a un esponente della vecchia scuola retorica italiana, forse meno filologicamente preparato e meno stilisticamente accurato, ma nel quale più genuinamente si riusciva a riconoscere l'originaria tensione morale che aveva mosso all'ammirazione per gli esempi dell'antichità classica. Nel caso di F., anzi, vissuto per la maggior parte del tempo a Roma, legato dal bisogno alla corte papale, ma anche spettatore e giudice severo della sua corruzione, questa tensione assumeva un atteggiamento pieno di inquietudini anticuriali e di intolleranza verso lo stato presente sia politico sia religioso dell'Italia.
Risale al 1406 un suo carme ad A. Loschi e una risposta di questo, scambio poetico che il Vergerio celebrerà poi in forma di allegoria; già negli anni 1407-1408, inoltre, egli era in rapporto, come ci testimonia una sua poesia, con il cardinale G. Condulmer, il futuro Eugenio IV, protettore di tanti umanisti. Il 16 genn. 1406 Innocenzo VII lo nominò canonico di S. Maria Maggiore, dispensandolo in pari tempo dal ricevere gli ordini sacri (aveva infatti solo gli ordini minori), dispensa che gli venne rinnovata altre volte, forse fino alla sua morte. Per un certo tempo F. fu anche costretto a prestare servizi di coro, come attesta una sua lettera al Bruni, posteriore al 1415, nella quale egli lamenta il fastidio e l'insofferenza per tale mansione.
Le necessità economiche, l'esigenza di sistemare i suoi figli illegittimi, Annibaldo e Jacopo, nonché i suoi nipoti fulginati, i figli di Pepo, proprio nel difficilissimo momento di instabilità politica e religiosa creatasi in quegli anni per la lotta tra papa Gregorio XII e l'antipapa Giovanni XXIII, allora padrone di Roma, portarono F. a impegnarsi per un ulteriore consolidamento della sua posizione in Curia: così, il 1° sett. 1412, Giovanni XXIII lo riconfermò nella carica di cancelliere principale del Comune di Roma, mentre il 27 dicembre di quello stesso anno trasferì, dietro preghiera di F., i due canonicati folignati ai nipoti Mattia e Antonio. È forse attraverso questa parentela che egli strinse ancora di più i rapporti con i signori di Foligno, i Trinci, al punto che, il 2 giugno 1415, fu proprio F. a redigere a Roma l'istrumento con il quale Niccolò, Corrado e Bartolomeo Trinci, succeduti al padre Ugolino, giuravano fedeltà alla Sede apostolica. Proprio per Ugolino, F. aveva composto una corona di venti esastici esametrici sui grandi capitani dell'antichità da porsi sotto i ritratti affrescati nella sala grande, detta degli Imperatori, nel palazzo Trinci di Foligno.
L'opera (edita parzialmente in Anthologia Latina, a cura di A. Riese, I, Lipsiae 1906, nn. 831-847, 851, 855 s., 855 d., poi a cura di L. Bertalot, Humanistisches in der Anthologia Latina, in Rheinisches Museum, LXVI [1991], pp. 65-76) avrà una vastissima circolazione manoscritta e riscuoterà tanto successo da essere considerata in seguito lavoro di età tardoantica; solo questo piccolo corpus poetico assieme ai bei versi indirizzati al parmense G. Segarelli in lode della povertà (editi da Weiss, 1957) conservò fino al Cinquecento, all'interno degli zibaldoni umanistici, un'esile memoria del nome di Francesco.
Giunto probabilmente sulla soglia dei settant'anni, F. era ormai malato: il 28 apr. 1420 Martino V gli concesse infatti di poter continuare a percepire lo stipendio di scriptor apostolicus nonostante non potesse più esercitare l'ufficio per le molte indisposizioni. Già il 14 ott. 1421 il papa poté disporre come vacante di un beneficio che F. aveva ottenuto probabilmente alcuni anni prima, quello dell'altare di S. Giacomo nella chiesa di S. Biagio de Olivo: probabilmente F. era quindi morto nell'estate di quello stesso anno.
Un suo discepolo bresciano, Bartolomeo Bayguera, ha lasciato nel suo Liber itinerarii, memoria della morte di Francesco. Bayguera racconta che egli nel 1421 aveva chiesto al suo vecchio maestro di fargli da guida ai monumenti romani e F., acconsentendo con piacere, lo aveva guidato tra le rovine e aveva terminato poi la giornata con una visita al Gianicolo e a S. Pietro, quando un'improvvisa e violenta febbre lo aveva colto, portandolo in pochi giorni alla tomba.
L'opera superstite di F., dispersa in vari codici (ora censiti da C.M. Monti), consiste in ventisei lettere e venticinque carmi latini, nella corona di epigrammi composti per i Trinci, nel suaccennato sonetto volgare e nel Contra ridiculos oblocutores et fellitos detractores poetarum (edito da I. Taù, pp. 295-340). Quest'operetta contiene, come osserva il Baron (p. 332), "una sfida alla tradizione medievale che rivela una irriverenza più aggressiva di quella reperibile fra gli ammiratori dell'antichità di molte generazioni successive".
Il Contra ridiculos oblocutores prende spunto da un fatto avvenuto presso la corte papale, dove un maestro di eloquenza era stato criticato per aver citato davanti al pontefice l'autorità dei poeti pagani. F. prende le sue difese e vuole dimostrare, invece, che quello dei poeti antichi fu un "pium et fructuosum gregem" e che le loro allegorie, non meno di quelle delle Sacre Scritture, contengono profonde verità, non contrastanti con quelle del Cristianesimo. Nel breve scritto di F. c'è la rivendicazione, all'interno di una più decisa rivalutazione dell'antichità classica, della parità del mondo antico con quello cristiano, proprio nella sfera della religione. I poeti antichi, con i loro dei e quelle vicende apparentemente indecenti di adulteri e rapimenti, hanno voluto alludere a profonde verità, F. quindi non accetta che siano condannati per l'eternità uomini di poderosa statura intellettuale e soprattutto morale solo perché essi non poterono conoscere una religione che si sarebbe diffusa soltanto secoli dopo. Recisa è quindi in F. - ed è uno degli aspetti più notevoli dell'operetta - la critica implicita alla dottrina agostiniana che condannava come vizi le virtù dei pagani: tutto ciò che nell'uomo, rivela F., è più propriamente umano, gli affetti e tra essi, in primo luogo, la "cupiditas gloriae" - tanto attiva nell'antichità quale stimolo che aveva elevato gli uomini al di sopra degli animali e aveva posto alcune menti superiori a guida dei popoli - non può che essere lodevole: i fini a cui essi ci traggono non sono opposti all'amore per Dio, proprio perché vivendo noi con essi e tratti da essi non ci distogliamo "essenzialmente" dal compiere la volontà di Dio. Il riconoscimento della rilevanza religiosa delle virtù degli antichi, per nulla condizionato - come nella dottrina tomistica della salvezza dei grandi pagani - alla rilevazione in essi di una "fides implicita", caratterizza quindi l'intero assunto del lavoro di Francesco.
Attribuibile a F. è, secondo la Monti (p. 134), un'orazione in lode di Cicerone, mentre è da escludere secondo Schizzerotto l'attribuzione a F. di sei lettere indirizzate a Ludovico da Fabriano. F. amò inoltre raccogliere, trascrivere e fittamente postillare vari codici (per l'identificazione dei quali cfr. Taù, pp. 270 s., e Billanovich, in part. pp. 204-208, 218, 279 s.).
Fonti e Bibl.: F. Petrarca, Rerum senilium, XIII, 7, 11, in Opera, Venetiis 1501, cc. 101v, 102rv; C. Salutati, Epistolae, a cura di I. Rigacci, I, Florentiae 1741, pp. 156-160; A. Loschi, Carmina quae supersunt fere omnia, Padova 1858, pp. 51-58; F. Petrarca, Epistolae de rebus familiaribus et Variae, a cura di G. Fracassetti, III, Firenze 1863, pp. 320-323; P.P. Vergerio, Epistolario, a cura di L. Smith, Roma 1934, pp. 453-456; D. Dorio, Istoria della famiglia Trincia, Foligno 1638, p. 198; F. Novati, La giovinezza di Coluccio Salutati (1331-1353), Torino 1888, pp. 38, 91 ss., 117 s.; G. Pansa, Giovanni Quatrario da Sulmona, Sulmona 1912, pp. 4 s., 106, 161 ss., 369, 414-419; V. Zabughin, Vergilio nel Rinascimento italiano da Dante a Torquato Tasso, I, Bologna 1921, pp. 110-117; L. Bertalot, Cencius Romanus und seine Briefe, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, XXI (1929-1930), pp. 222-229; S. Locatelli, Bartolomeo Bayguera e il suo "Itinerarium", in Commentari dell'Ateneo di Brescia, 1931, pp. 83-90; A. Messini, Documenti per la storia del palazzo Trinci, in Rivista d'arte, XXIV (1942), pp. 74-98; R. Weiss, A humanist invective against an unnamed English poet, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, X (1948), pp. 155 s. (con l'edizione del carme "Contra quaendam Anglicum…"); E. Panofsky, Emendation to F.'s invective, ibid., XI (1949), pp. 191 s.; R. Weiss, Il primo secolo dell'Umanesimo, Roma 1949, pp. 93-96, 147-158; A. Altamura, La letteratura dell'età angioina, Napoli 1952, pp. 104, 145-148; Id., Studi di filologia medievale e umanistica, Napoli 1954, pp. 93 s.; R. Weiss, Poesie religiose di F., in Archivio italiano per la storia della pietà, II (1957), pp. 199-206; G. Radetti, Le origini dell'Umanesimo civile fiorentino nel Quattrocento, in Giornale critico della filosofia italiana, XXXVIII (1959), pp. 114-119; M.L. Plaisant, Un opuscolo inedito di F. in difesa della poesia, in Rinascimento, XII (1961), pp. 119-162 (con l'edizione a pp. 124-162 del Contra… oblocutores… poetarum); G. Billanovich, Giovanni Del Virgilio, Pietro da Moglio, F., in Italia medioevale e umanistica, VI (1963), pp. 203-234; VII (1964), pp. 279-324; H.M. Gold- brunner, Die Übergabe Perugias an Giangaleazzo Visconti (1400), in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, XLII-XLIII (1964), pp. 293-296, 308; A. Stäuble, F. in difesa della poesia, in Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance, XXVI (1964), pp. 256-259; I. Taù, Il "contra oblocutores et detractores poetarum" di F. (con appendice di documenti biografici), in Archivio italiano per la storia della pietà, IV (1965), pp. 281-340; G. Schizzerotto, Teatro e cultura in Romagna dal Medioevo al Rinascimento. La tragedia "De casu Cesene" di Lodovico da Fabriano…, Ravenna 1969, pp. 11-22; H. Baron, La crisi del primo Rinascimento italiano, Firenze 1970, ad Ind.; L. Bertalot, Uno zibaldone poetico umanistico del Quattrocento a Praga, in Studien zum italienischen und deutschen Humanismus, I, Roma 1975, pp. 405 s.; C.M. Monti, Una raccolta di "exempla epistolarum", I, Lettere e carmi di F., in Italia medioevale e umanistica, XXVII (1984), pp. 121-160; V. De Caprio, Roma, in Letteratura italiana (Einaudi), VIII, 1, Storia e geografia, Torino 1988, pp. 356-358; R. Guerrini, Anthologia Latina 831-855 d. Per un'edizione critica degli epigrammi di F. (Sala degli Imperatori, Palazzo Trinci, Foligno), in Materiali e discussioni per l'analisi dei testi classici, XX-XXI (1988), pp. 1-14; Id., I venerati volti degli antichi. Gli epigrammi di F. nel salone dei Trinci a Foligno, in Signorie in Umbria tra Medioevo e Rinascimento: L'esperienza dei Trinci. Atti del Convegno (Foligno 1986), II, Perugia 1989, pp. 459-467; P.O. Kristeller, Iter Italicum, I-V, ad Ind., s.v.Fiano, Franciscus de.