CRESPI, Francesco
Figlio di Antonio, nacque ad Arquà (provincia di Padova) nel 1733. Fu educato durante i primi anni dell'adolescenza da uno zio, probabilmente a Venezia. Quindi si fece frate cappuccino, assumendo il nome di fra Camillo da Venezia. Della sua vita non si hanno più notizie databili fino all'anno 1782, se non quelle assai confuse che egli stesso fornì, nel 1792, al giudice istruttore del tribunale del governatore di Roma.
Da questa deposizione e da un rapporto del generale dei cappuccini redatto nel 1794 risulterebbe che, poco dopo avere preso gli ordini, fuggì dal convento di Roma e girò per vari conventi d'Italia, sorprendendo la buona fede dei frati. In seguito si recò a Londra, dove visse con i proventi del giuoco e di altre speculazioni. Si recò quindi in Francia, a Lione ed infine a Parigi nel 1782, dove, fra l'altro, incontrò un negoziante inglese, certo Mistrada (nome probabilmente storpiato dal verbalizzatore o dallo stesso C.), il quale, conosciutolo durante il soggiorno a Londra, lo aveva colà iniziato alla massoneria. A Parigi, il C. frequentava le logge del Grande Oriente, vestito sempre da cappuccino. Da Parigi dovette recarsi in Spagna, dove si registra la sua presenza nel 1784 e dove fu motivo di grave scandalo per i suoi discorsi e per il suo comportamento. Perciò fu rimandato in Italia "ma - dice il citato rapporto del generale dei cappuccini - disparve dal porto, nel quale si era ancorato il naviglio, non si sa come". Si aggirò pertanto attraverso l'Italia, giungendo a Napoli, dove ebbe contatti con il principe di San Severo, venerabile di una loggia, che gli dette commendatizie per i "fratelli" di Messina. Infine ritornò in Francia, a Parigi, dove smise l'abito di frate e divenne con tutti i crismi prete secolare. Ivi assistette e probabilmente partecipò alle vicende rivoluzionarie.
Ritornò quindi in Spagna con il probabile incarico di fare proselitismo massonico, con scarso risultato evidentemente poiché, come egli stesso ebbe a dire, non riuscì a trovare altri "liberi muratori". Sembra che vivesse coi proventi di insegnante. Dopo un breve soggiorno, fu nuovamente arrestato e privatamente ("per rispetto all'Ordine professato") processato davanti al tribunale della Inquisizione.
I capi d'imputazione consistevano nel fatto che egli riprovasse le indulgenze, il culto della madre di Dio e che si beffasse di coloro che recitavano il rosario. Inoltre giudicava inutili le vigilie le prediche, le orazioni e anche le confessioni, eccettuata quella annuale; spregiava i preti regolari, ma soprattutto "con turpi ingiurie vituperava la santità di Pio VI" e aggiungeva che "le indulgenze si concedono e si canonizzano i beati solamente per un turpe e sordido interesse". Di che li scolari sommamente offesi e scandalizzati lo giudicarono "vero ebreo". Infine se la prendeva con il re e con il governo, invitando "i sudditi a fare quello che aveva veduto fare in Francia".
Per questo fu condannato a un anno di prigione e ad altre pene inflittegli dal tribunale della S. Inquisizione. Trasportato a Barcellona, per essere imbarcato per l'Italia, fuggì nuovamente dalla nave "per trascuratezza del capitano" e riparò in Francia, dove il suo nome "François Crespy, prètre romain" figura nell'elenco degli appartenenti alla loggia "Les Frères initiés", operante nell'ambito del Grande Oriente. A Parigi, come nei precedenti soggiorni, fu in contatto con esponenti del mondo massonico e rivoluzionario, ma questa volta fu in contatto anche con il pittore Augustin-Louis Belle, premio di Roma nel 1783, nonché ex venerabile della loggia romana, dopo la dissoluzione della quale, in seguito all'arresto di Cagliostro, era stato espulso dalla città.
Dopo questo soggiorno parigino lo troviamo incamminato verso Roma, per regolarizzare la sua posizione di ecclesiastico e rientrare nell'Ordine dei cappuccini, secondo quanto affermò al giudice istruttore; ma più probabilmente intraprese questo viaggio come emissario di qualche loggia francese o nella veste di propagandista rivoluzionario. Certo è che, giunto a Loreto, fu di nuovo arrestato sotto l'accusa di essere sostenitore "delle massime francesi e rivoluzionario", nonché di avere insultato nei suoi discorsi sia il papa, sia il cardinale Zelada. Gli furono poi trovati, entro la fodera del cappello, una patente massonica, una medaglia commemorativa del 10 ag. 1792, celebrante l'assalto alle Tuileries, e infine un libretto con la dichiarazione dei diritti dell'uomo.
Il C. di fronte al tribunale del governatore in Roma si comportò con molta abilità, non rinnegando la sua appartenenza alla massoneria, ma nello stesso tempo affermando il suo desiderio di dimettersi, per quanto in questa associazione nulla egli avesse mai riscontrato di contrario alla religione e alle autorità costituite. Rivelò i riti ed i cerimoniali massonici, per altro già noti a tutti, e - su richiesta formale - fece molti nomi di "fratelli", evidenziando soprattutto quelli di prelati francesi, storpiando i nomi e rifiutandosi di fare quelli dei massoni ancora viventi negli Stati romani. E nemmeno nascose gli intendimenti del governo rivoluzionario francese di vendicare la morte di Basseville con una invasione dello Stato pontificio, ricorrendo eventualmente a mezzi fino allora ignoti, come l'aerostato.
Dopo una serie di interrogatori - di cui sono conservati i verbali - finora nessun'altra notizia ci è pervenuta sulla sorte del C.; probabilmente fu condannato ad una pena detentiva e liberato successivamente, al più tardi il 10 febbr. 1798, con l'arrivo delle truppe liberatrici francesi.
È ragionevole supporre che, data la travagliata vicenda della Repubblica giacobina romana, il C. cercasse rifugio, non nella natia Repubblica di S. Marco, occupata dagli Austriaci, ma nell'ancora libera Repubblica Cisalpina. Qui dovette ugualmente farsi notare per lo spirito rivoluzionario, poiché lo troviamo fra le centinaia di patrioti", rei di avere espresso opinioni favorevoli alla Francia, e perciò condannati dal restaurato governo imperiale alla deportazione prima in Dalmazia, e poi in Ungheria. Ben nota è l'odissea di questi "patrioti" cisalpini, sottoposti a straordinari disagi ed a gravi sofferenze, che anche il C. dovette sopportare, nonostante il peso degli anni, con grande dignità.
Francesco Apostoli nelle sue Lettere sirmiensi, ricordando quei tempi, narra come nei sotterranei della fortezza di Sebenico i prigionieri, per passare il tempo e anche per risolvere i gravi problemi della comunità dei deportati, si fossero costituiti in assemblea, che imitava le divisioni politiche della Convenzione. Ed a questo proposito afferma: "Il singolare si era che tra noi sedeva uno, che effettivamente era stato deputato delle Alpi Marittime all'Assemblea legislativa; il vecchio ex cappuccino Crespi, veneziano, sezionario, giacobino, fratello visitatore dell'Oriente di Parigi...".
Che il C., durante il suo soggiorno parigino, partecipasse alle vicende della rivoluzione in veste di giacobino e alla vita massonica del Grande Oriente sono cose vere o verosimili, ma che fosse deputato all'Assemblea legislativa non risulta da alcun documento o testimonianza. È probabile che si tratti di una errata interpretazione dell'Apostoli o di una vanteria del Crespi.
Da allora non si hanno altre notizie della sua vita. Egli figura tra il numero di coloro che rientrarono salvi in patria, dove dovette trascorrere, lontano dagli affari politici, gli ultimi giorni della sua vita.
Fonti e Bibl.: Le carte riguardanti l'arresto e l'inchiesta cui fusottoposto il C. a Roma nel 1794, sono state in gran parte pubblicati da C. Trasselli, Processi politici romani dal 1792 al 1798, in Rass. stor. del Risorg., XXV (1938), II, pp. 1504-1509; 12, pp. 1620-1626. Per la sua appartenenza alla massoneria francese, cfr. A. Le Bihan, Francs-Maçons parisiens du Grand Orient de France, Paris 1966, p. 143. Sulla deportaz. in Dalmazia, cfr. F. Apostoli, Le lettere sirmiensi, a cura di A. D'Ancona, Roma-Milano 1906, pp. 173 s., 380; R. Giusti, I deportati cisalpini (1799-1801), Mantova 1963, pp. 33, 72.