COPPINI, Francesco (in religione Ignazio)
Nacque a Prato agli inizi del sec. XV da Guccio di Tommaso di Giusto. Le fonti lo qualificano iuris utriusque doctor, ma non si hanno testimonianze su di lui fino al 1433, quando figura tra i camerlenghi dello Studio fiorentino. Si può presumere che, morto il padre (nel 1429 l'intestatario dell'asse patrimoniale familiare è lo zio Mercatuccio), il C. si sia trasferito a Firenze con il fratello Tommaso, la cui famiglia compare nella documentazione fiorentina lungo l'arco del secolo, e fors'anche col minore Giubano. Ed è qui che dovette stringere numerose amicizie nell'ambiente umanistico e prendere i primi contatti con la corte del papa Eugenio IV, entrando con gli ordini minori negli uffici di Curia. Nel 1437 era a Bologna, dove, nella sua qualità di giureconsulto, svolgeva funzioni di ufficiale di Giustizia criminale e dove sollecitò dall'amico Leon Battista Alberti la composizione di un opuscolo De iure, che questi gli dedicava il 30 settembre dello stesso anno.
Poco dopo il C. prese gli ordini maggiori. La successiva assunzione della pievania di S. Paolo in Rosso, in diocesi di Fiesole, nel 1442 e l'ingresso fra i canonici della cattedrale fiorentina nel 1445 gli permisero di stringere o approfondire amicizie e rapporti di clientela attraverso l'influenza che nell'ambiente pontificio andava acquistando. Ne è preziosa testimonianza la ventennale corrispondenza con l'umanista benedettino Girolamo Aliotti, che a lungo funse da tramite fra il C. e la cultura fiorentina.
Le tappe della carriera del C. si susseguono negli anni seguenti senza scosse, in continua ascesa: Niccolò V lo nominò nel 1448 chierico di Camera; nel 1450 il C. si stabilì ancora a Bologna, come tesoriere apostolico, in compagnia dei fratelli Tommaso e Giuliano, assurto quest'ultimo nel frattempo al canonicato e agli uffici di Curia. L'epidemia di peste scoppiata nel 1456 lo privò però di entrambi i fratelli e di parecchi nipoti, proprio mentre, con il nuovo incarico di commissario apostolico per la crociata contro i Turchi bandita l'anno precedente, raccoglieva nei territori padani la decima imposta da Callisto III.
Quest'ultimo incarico è di grande importanza per la formazione diplomatica del C.: pur nella lontananza dai centri del potere ecclesiastico, egli consolidava la sua posizione ed anzi cresceva in credito e autorità nella Curia, circondandosi di un gruppo di amici dalla fedeltà a tutta prova, fra cui facevano spicco i pistolesi Niccolò "de Maconibus", suo procuratore, e Niccolò Forteguerra, poi cardinale vescovo di Teano, e il pisano Giliforte de' Buonconti, chierico di Camera e suo coadiutore negli ultimi tempi della missione in Lombardia; mentre, venuto in contatto nell'ottobre 1457 con il duca di Milano Francesco Sforza, gettava con lui le basi di un duraturo legame di amicizia e collaborazione.
Il 30 genn. 1458 Callisto III lo nominò vescovo di Temi. Con l'acquisto di questa carica, ceduto il canonicato fiorentino a Leonardo Dati, il C., mentre si faceva rappresentare a Temi da vicari, poteva tranquillamente concentrare i suoi interessi sulla Curia, prendendo stabile dimora in Roma con l'acquisto di una casa dalle parrocchie di S. Agnese e S. Nicola in Agone e, in seguito, del beneficio della chiesa di S. Salvatore in "Iulia".
Ai primi d'agosto del 1458, negli ultimi, aspri contrasti con il papa morente, il Collegio cardinalizio si servì di lui per trattare con le truppe di don Pedro Borja.
Nell'ottobre 1458 il C. era fra gli ecclesiastici di maggior dignità convocati dal nuovo papa Pio II, insieme con gli ambasciatori europei presenti a Roma, per gettare di nuovo le basi della crociata. Il 7 gennaio del 1459 Pio II lo sostituì nell'ufficio precedente e preparò le sue credenziali presso il re d'Inghilterra. Aveva così inizio l'intricata vicenda che nel giro di pochi anni avrebbe portato il C. alle soglie del cardinalato per poi bruciare tutta la brillante carriera costruita fino ad allora.
I problemi della politica europea del momento, ben più pressanti agli occhi della maggior parte dei principi occidentali di quanto non fosse il grande sogno medievale del Piccolomini, costringevano il papa a dedicarsi ad una paziente opera di ricucitura dei rapporti internazionali, nel tentativo di varare un'unità almeno provvisoria dell'antica Cristianità. Particolarmente idoneo sembrò il C. ad agire in Inghilterra per una pacificazione tra il partito regio di Lancaster e quello del duca di York, onde permettere una partecipazione inglese alla Dieta che Pio II avrebbe aperto a Mantova e consentire una leva d'uomini e di denaro nel regno. Ma anche agli occhi dello Sforza il viaggio del C. in Inghilterra rivestiva un ruolo importante: il duca di Milano, per impedire una penetrazione francese in Italia, si adoperava ad appoggiare Ferrante contro il pretendente angioino sostenuto dal re di Francia Carlo VII. Non restava dunque che tentare di colpire direttamente il regno di Francia, e a tale scopo lo Sforza vedeva favorevolmente un ritorno inglese in Normandia ed Aquitania, che non sarebbero certo stati i Lancaster, legati da parentela a Carlo VII per parte della moglie di Enrico VI, Margherita d'Angiò, ad assicurare. Lo avrebbero invece fatto, una volta giunti al potere, gli York, con l'appoggio del duca di Borgogna Filippo il Buono e con l'approvazione dello stesso delfino Luigi, che, in contrasto col padre, si era rifugiato alla sua corte. Bisognava, dunque, sostenere in ogni modo il partito di York, e nessuno avrebbe potuto farlo meglio dell'inviato pontificio in Inghilterra, munito di credenziali al disopra di ogni sospetto.
Il C., diretto verso le Fiandre per coprire temporaneamente l'ufficio di collettore delle decime per la crociata nel ducato di Borgogna e nelle diocesi di Besançon, Reims e Colonia, si fermò a Milano dove ebbe un abboccamento con lo Sforza alla fine di febbraio del 1459; è probabilmente in occasione di questo incontro che i due presero i primi accordi per l'attuazione del piano.
Dopo una breve puntata in Inghilterra nella primavera ed un rapido ritorno in Francia per procurare un salvacondotto agli ambasciatori inglesi alla Dieta di Mantova, il C., quale "referendarius et orator" del pontefice, sbarcò a Dover il 4 giugno, creando all'inizio attorno a sé un'atmosfera di stima e di attesa. Ma non era la personalità né l'autorità del debole e lunatico Enrico VI quella adatta ad una chiara e immediata adesione al progetto pontificio. Venne eletta una cospicua e nobile ambasceria per la Dieta; ma la legazione che il pontefice, dopo una lunga attesa punteggiata di messaggi di esortazione e di sollecito, vide venire a Mantova in autunno non era formata che da due preti con un biglietto personale del re. Pio II se ne adontò gravemente e si rifiutò perfino di trattare con essa. È assai probabile che, dopo il primo momento, la fazione dei Lancaster avesse concepito dei sospetti sulla dichiarata intenzione pacificatrice del legato, e l'infelice mossa del re, se segnava un risultato negativo per l'opera del C. come inviato pontificio, giocò in realtà a favore dei C. agente dello Sforza. Pio II, infatti, cominciò probabilmente da allora a non vedere di mal occhio un avvicendamento sul trono d'Inghilterra, nonostante che nei Commentarii si affanni a mostrare a posteriori un Papato assolutamente ignaro delle trame del legato e limpidamente favorevole alla monarchia inglese e alla Francia. E tanto era convinto dell'importanza del ruolo che il C. giocava in Inghilterra, da nominarlo, con due bolle del 4 e dell'11 dicembre, nunzio pontificio con i pieni poteri di legato de latere (procedura, questa, del tutto eccezionale) nei regni d'Inghilterra e Irlanda e di Scozia, perfezionando poi, con altre bolle agli inizi del 1460, la sua autorità di collettore delle decime per la crociata.
Nel frattempo però in Inghilterra la situazione politica si era ulteriormente deteriorata, né valeva a migliorarla l'opera del legato, cui era particolarmente ostile l'ambiente di Margherita d'Angiò. Il papa, da parte sua, tentava di facilitare il suo compito di esattore, abbondando in indulgenze e riducendo le imposizioni. La bolla della crociata, emanata il 10 genn. 1460, a chiusura della Dieta di Mantova, non era neppur presa in considerazione (si sarebbe poi detto addirittura che il C. l'aveva tenuta nascosta); d'altra parte richieste di denaro in un momento simile, nota il Gottlob, potevano spingere facilmente gli Inglesi dalla parte dei tiepidi Lancaster. A prescindere da ogni proposito del C. a favore del piano dello Sforza, erano veramente gli York gli unici a poter garantire, per il futuro, una piena adesione alla crociata.
Così fra l'aprile e il maggio del 1460 il C. ripassava la Manica, sdegnato, come narra Pio II, per il poco rispetto di cui era fatto oggetto e per gli ostacoli che venivano posti all'esercizio dei suoi poteri. In realtà, nulla tratteneva più il legato fra gli ostili Lancaster, mentre a Calais lo attendeva John Neville conte di Warwick, il paladino della fazione di York, insieme con i partigiani più ragguardevoli del duca Riccardo. Gli yorkisti non mancarono di porsi agli occhi del C. in un atteggiamento ben diverso da quello degli ostinati ed irosi Lancaster, dichiarandosi totalmente fedeli alla Chiesa e pronti ad una mediazione con il re. Insieme con l'armata di Warwick il C. tornò sull'isola il 26 giugno; ed è da Londra, dove i ribelli erano trionfalmente entrati, che scrisse il 3 luglio una lettera al re Enrico per sollecitare ancora un incontro fra le due fazioni, protestando a più riprese la propria fedeltà alla Corona, caduta in sospetto ad opera di detrattori contrari alla pace, e riproponendo il suo ruolo di mediatore inviato dal papa. Un ruolo che lo stesso sinodo inglese riconobbe, confermando la sua autorità di legato. Il C. stesso ne scriveva al papa il 4, curando di mettere in rilievo il vasto appoggio popolare riscosso a Londra dagli York. Ma la situazione era ormai tale da non ammettere sfumature di comportamento: la presenza del C. a fianco dell'armata di York alla battaglia di Northampton del 10 luglio, che vide la vittoria yorkista, la cattura dello stesso Enrico e la fuga della regina; la scomunica da lui lanciata, secondo un'accusa mai smentita a sufficienza, contro l'esercito regio; la sua successiva partecipazione, in un ruolo di primo piano, al recupero del controllo sul paese da parte degli York, ormai padroni di un re fantoccio; tutto questo non lasciava più dubbi sulla condotta scelta dal legato.
Il C. ne scriveva allo Sforza in agosto, pregandolo di inviare un messo al papa per richiedere il suo consenso, anche segreto, e di adoperarsi per quello che era a un tempo un mezzo indispensabile per il trionfo di York e il fine ultimo della sua ambizione personale: la promozione al cardinalato. Sarebbe stato, questo, un motivo ricorrente, fino all'ossessione, in tutta la sua successiva corrispondenza con lo Sforza; ma, nonostante la politica assidua, pur se prudente, del duca di Milano in questo senso e nonostante le richieste dei lords yorkisti e dello stesso Enrico VI, che giunse a concedere al C., in dicembre, la "licentia acceptandi" per un vescovato inglese, il papa non ritenne mai opportuno aggiungere il crisma finale ai già eccezionali poteri del suo legato, fosse sua cautela o, piuttosto, l'opposizione crescente che incontrava nella Curia, soprattutto fra i cardinali francesi, la libertà d'iniziativa del vescovo di Terni.
Pio II, comunque, non mancava di esprimere approvazione e lode al C., che lo informò minutamente dei diritti al trono della casa di York, e con bolla del 9 ottobre gli concesse di portare innanzi a sé il vessillo della Chiesa, alla maniera dei legati de latere.
Nello stesso tempo, però, il papa si preoccupava di mantenere ufficialmente una posizione amichevole nei confronti di Margherita d'Angiò, il che non rendeva più facile il compito del C., impossibilitato ad avviare concrete trattative di pace, almeno a quanto egli stesso affermava, per la sua ormai completa compromissione con gli York e per la propaganda avversaria che aveva buon gioco nel far notare la sua mancata promozione.
La sconfitta e la morte di Riccardo di York a Wakefield, il 30 dicembre, aggravarono ancora la situazione. Lo Sforza e il papa furono, nei primi mesi del 1461, letteralmente tempestati di messaggi nei quali si metteva in chiaro che, nonostante la completa malleabilità del re nelle mani degli York - e del legato -, nulla si sarebbe potuto ottenere se questi non fosse divenuto cardinale.
Prima che gli yorkisti fossero sconfitti un'altra volta a Saint Albans (17 febbr. 1461), perdendo anche il re che tornò coi suoi, il C. lasciò l'Inghilterra, sbarcando il 10 febbraio in Olanda, e di lì si diresse a Bruges, nell'intento di seguire dalle Fiandre gli sviluppi della situazione e di battere possibilmente sul tasto dell'alleanza fra il duca di Borgogna, il delfino e la parte degli York. Intrecciò una fitta corrispondenza con lo Sforza, insistendo ancora sulla necessità di un "segno della Chiesa" per il buon fine di un'impresa che, altrimenti, minacciava completa rovina. Lo Sforza, da parte sua, tentò perfino di strappare al papa, sempre sordo alla richiesta, la concessione al C. dell'arcivescovato di Firenze.
Nel frattempo però Edoardo, figlio e successore del duca di York, con l'aiuto di Warwick sconfiggeva definitivamente i Lancaster a Towton il 29 marzo, catturando di nuovo Enrico, mentre la regina si rifugiava col figlio in Scozia, e saliva sul trono d'Inghilterra col nome di Edoardo IV. Il che conferiva di colpo al C. l'importanza e il ruolo di legato pontificio e di agente dello Sforza non più, come in precedenza, in un paese diviso e presso una sola fazione politica, ma presso una monarchia che, per quanto non del tutto consolidata, pure lo conosceva come amico, lo stimava e sollecitava il suo ritorno. Sembrava dunque il trionfo della lunga e controversa trama tessuta dal C.; ma quel trionfo segnava anche l'inizio del suo irreversibile declino presso la Curia romana.
Margherita aveva inviato a Roma le sue lamentele sul C. e Pio II, che riceveva con ritardo le notizie sull'avvicendarsi vorticoso degli eventi inglesi, cominciò a prenderle in considerazione. Può anche darsi che il papa ignorasse molti particolari dell'azione del suo legato; sta di fatto che il C. stesso, dai sintomi che gli giungevano da Roma, cominciava a sua volta a sentirsi mancare gradualmente il terreno sotto i piedi, e se ne colgono qua e là gli accenni sia nelle risposte ai lords yorkisti, che gli annunciano la vittoria e lo invitano a tornare, sia nelle lettere allo Sforza e agli altri corrispondenti in Italia.
Il momento era comunque opportuno per stringere i tempi ed incontrarsi con il duca di Borgogna ed il delfino, onde concretizzare il progetto di uno sbarco inglese in Francia. L'attività del C. in Fiandra diventava frenetica. Il suo progetto era di tornare in Inghilterra, accompagnato da Prospero da Camogli, con il pretesto di completare la sua opera di legato pontificio, ma con l'alleanza del duca di Borgogna in mano; gli Inglesi avrebbero potuto così passare in Francia, con la protezione di navi genovesi procurate da quanto il C. avrebbe potuto ricavare dalle diocesi inglesi. Il C. si preoccupò peraltro di avere l'assenso del papa a questo spericolato progetto finanziario e pregò lo Sforza di adoperarsi a convincerlo. Restò a lungo in attesa a Saint-Omer: mentre Filippo il Buono si guardava bene dal muoversi, in attesa degli sviluppi dell'alleanza fra Margherita d'Angiò e la Scozia, il papa tardava a farsi vivo con istruzioni, tanto che il 10 giugno il C. gli inviava un "compendiurn status occidentalis" per saggiarne le reazioni. Nonostante che il 10 giugno si fossero presentati ad Anversa due inviati dello Sforza, latori di credenziali per il C. presso Edoardo, il legato non poté recarsi a presenziare alla sua incoronazione.
Passò invece, insieme con Prospero da Camogli, ad assistere a quella del delfino, che succedeva a Carlo VII, morto il 22 luglio, col nome di Luigi XI. L'ambiente della corte francese non gli era certo favorevole, ed egli contribuì ad inimicarselo con un'indebita benedizione impartita alla tomba di Carlo a Saint-Denis; la libertà d'iniziativa nel prendere contatti con Luigi circa l'abolizione della prammatica sanzione e nel discutere con lui della situazione italiana irritò profondamente il già incerto Pio II, tanto più che l'improvvisa richiesta del re di un cambio di politica da parte del Papato e del ducato di Milano sembrava dovuta a prima vista, più che a un immedesimarsi di Luigi nei suoi nuovi interessi di re di Francia, all'immischiarsi del C. in affari di Stato che non lo riguardavano, nell'estremo tentativo di procurarsi il cappello cardinalizio.
In realtà la posizione del C. nelle vesti di agente diplomatico in Francia, dopo le proteste sul suo comportamento in Inghilterra fatte pervenire al papa dallo stesso Carlo VII e riprese dalla fazione filofrancese in Curia, era divenuta assolutamente insostenibile e rischiava seriamente di danneggiare quella del pontefice stesso. Così, il 16 ag. 1461, Pio II, con la scusa di voler sentire dal C. un resoconto dei fatti d'Inghilterra prima che giungesse un'ambasceria inviata da Edoardo, lo richiamò a Roma e trasferì la sua carica e i suoi poteri di legato de latere per Francia, Inghilterra, Scozia e Borgogna a Jean Jouffroy, vescovo di Arras. Prima di tornare a Roma, però, il C. cercò sostegni per difendersi contro l'ormai evidente ostilità del papa.
Il vescovo di Arras, dal canto suo, riteneva opportuno utilizzare ancora la sua opera presso la corte d'Inghilterra, tanto più che Edoardo stesso insisteva per averlo come mediatore tra lui e il re di Francia. Verso la fine del settembre 1461 il C. partì per l'isola, dove si trattenne più del previsto senza riuscire ad ottenere dall'ancora insicuro Edoardo impegni precisi sulla crociata. Ottenne, comunque, dal re inglese una serie di commissioni a testimonianza dei meriti acquisiti presso di lui: il re lo creò il 20 nov. 1461 suo procuratore presso la Curia, e il 23 gli concesse una pensione di cento sterline annue. Anche lo Sforza si preoccupò di rafforzare la posizione del suo agente caduto in disgrazia, creandolo il 22 febbr. 1462 membro del suo Consiglio segreto; in marzo fece anzi un ultimo tentativo per proporre il C. come arcivescovo di Firenze; ma invano. Il proposito del papa era così evidente che Margherita d'Angiò poteva permettersi di far diffondere in Inghilterra la voce che Pio II avesse già sconfessato tutta l'opera del suo ex legato.
Per la verità, in Curia il C. non aveva solo nemici; Giliforte de' Buonconti e il cardinale di Teano si adoperavano a suo favore. Fu forse per questo che Pio II decise di agire con un vero colpo di mano. Il 17 maggio il papa lasciò Roma diretto ai bagni di Viterbo, fomentando nel C. l'illusione di esser sfuggito, almeno per qualche tempo, ad un'inchiesta; ma pochi giorni dopo, con un ordine segreto, lo fece arrestare e rinchiudere in Castel Sant'Angelo. Inutili le proteste dei cardinali e dei prelati di Curia - "fere omnes", ammette lo stesso papa - per il procedimento non ortodosso, inutili gli appelli dello stesso Sforza: Pio II si teneva lontano da Roma e il tempo lavorava per lui. Mentre i suoi giudici perquisivano la casa del C., esaminavano tutti i suoi documenti e registri contabili e strappavano infine al vescovo una confessione in cui si dichiarava reo di aver levato il vessillo della Chiesa per una guerra civile, di aver scagliato l'anatema contro l'esercito regio e di aver fatto mercato simoniaco di benefici, ordini sacri e indulgenze, il papa poteva provvedere alla cancellazione politica del suo operato con una bolla al popolo inglese, inviata il 30 agosto.
Da Castel Sant'Angelo intanto il C., nonostante la confessione, continuava a negare recisamente l'unica accusa non "politica" che gli veniva fatta, quella di aver stornato 70.000 ducati dal tesoro della Chiesa, pur rendendosi lucidamente conto che, nonostante potesse essere decisiva nel quadro formale del processo, non era in realtà la causa prima della sua disgrazia. Al suo ritorno a Roma, il 18 novembre, Pio II poteva sottoporre in segreto al Tribunale di Rota la confessione del vescovo e ottenerne una sentenza, con la quale stroncò decisamente le esitazioni e le obiezioni del Collegio cardinalizio. Il 14 febbr. 1463 il C. era deposto dall'episcopato, privato di ogni beneficio e i suoi beni confiscati per essere venduti all'asta.
Il C. chiese allora, ed ottenne, di entrare come monaco benedettino in S. Paolo fuori le Mura a Roma, dove fece la sua professione il 21 marzo 1463, assumendo il nome di Ignazio e conservando il presbiterato. Qui non si rassegnò certamente alla disgrazia e continuò a sperare, come risulta dalla corrispondenza di questo periodo, di risollevarsi. Nulla poteva comunque fare finché sul soglio pontificio fosse restato Pio II; ma alla sua morte, l'anno seguente, poté prepararsi a pronunciare di fronte al Collegio cardinalizio presieduto da Paolo II un'appassionata autodifesa, il cui testo fu redatto dall'Aliotti, in cui rievocava i fatti della sua legazione, la sua speranza nel cardinalato, il subito voltafaccia del papa provocato dall'invidia dei suoi nemici, e passava in rassegna i soprusi subiti, l'ingratitudine del pontefice, le calunnie montate con odiosa determinazione. Lamentava l'ingiusta miseria in cui erano stati lasciati i suoi nipoti, protestava la venticinquennale fedeltà alla Chiesa; e chiedeva infine, in nome della giustizia non solo divina, ma anche umana, la reintegrazione nel grado e nella dignità.
Morì prima di pronunciarla, probabilmente a Roma, il 29 sett. 1464; ed avrebbe forse ottenuto qualche riabilitazione, se sulla lapide della sua tomba, ora dispersa, fu scritto per ordine di Paolo II che l'opera sua aveva meritato le lodi del pontefice.
Fonti e Bibl.: Sulla famiglia Coppini, con dati riguardanti anche i secc. XVI-XVIII, Arch. di Stato di Prato, Comunale, 581, c. 445rv; Miscellanea (Buonamici), 1/25, c. 4rv (con la biografia del C. dell'erudito A. Guardini); si veda anche: Prato, Bibl. Roncioniana, ms. 105: G. M. Casotti, Spogli di famiglie pratest. cc. 405 s.; G. M. Casotti, Lunario ist. pratese, in Arch. stor. pratese, VIII (1929), pp. 169 s.; IX (1930), p. 69; E. Fiumi, Demografia, movimento urbanistico e classi sociali in Prato dall'età comunale ai tempi moderni, Firenze 1968, pp. 122, 356. La fonte più ampia per la vita dei C., pur se parte solo dal 1446, è il copioso e preziosissimo epistolario dell'Aliotti, edito in H. Aliotti Epistolae et opuscula..., a cura di G. M. Scarmagli, Arretii 1769; cfr. anche M. Armellini, Catalogi tres episcoporum, reformatorum et virorum sanctitate illustrium e Congregatione Casinensi alias S. Iustinae Patavinae, Assisii 1713, pp. 23-27; Id., Bibliotheca Benedictino-Casinemis, I, Assisii 1731, pp. 201-208. Per il periodo anteriore al pontif. di Pio II: Firenze, Arch. capitolare: S. Salvini, Vite dei nostri canonici (ms.), II, cc. n. num.; Statuti della Università e Studio fiorentino dell'anno MCCCLXXXVII..., a cura di A. Gherardi, Firenze 1881, pp. 425 s.; S. Salvini, Catalogo cronologico de' canonici della Chiesa metropol. fiorentina, Firenze 1782, pp. 43 s.; J. Valentinelli, Bibliotheca manuscripta ad S. Marci Venetiarum. Codices manuscripti Latini, III, Venetiis 1870, pp. 8 s.; L. v. Pastor, Acta ined. historiam Pontificum Romanorum... illustrantia, I, Freiburg 1904, n. 61; C. Piana, Chartularium Studii Bononiensis s. Francisci (saec. XIII-XVI), ad Claras Aquas-Florentiae 1970, pp. 74, 82. La document. pontificia parte soltanto dal 1457: Arch. Segr. Vat., Reg. Vat. 451, cc. 126r-127r; 452, cc. 133r-135v; 459, cc. 259r-260r; 498, c. 27rv; Reg. Lat., 536, cc. 205r-207r; Arm. XXXIX, 7, c. 141rv; 8, c. 16r; Oblig. et sol., 76, c. 172v; Intr. et exitus, 438, cc. 23v, 119r; 441, cc. 94r, 114v. Per la nomina a vescovo di Terni: F. Angeloni, Storia di Terni, Pisa 1878, pp. 222 s.; C. Eubel, Hierarchia catholica medii aevi..., II, Monasterii 1914, p. 168. La data esatta della nomina si trova in B. Katterbach, Referendarfl utriusque signaturae..., Città del Vaticano 1931, pp. 33 s. Per le vicende della legaz. inglese, data la complessità e vastità dell'argomento, ci si limita ad indicare, oltre alla docum. archiv., solo i titoli che riguardano strettamente il ruolo del C.: Arch. Segr. Vaticano, Reg. Vat. 469, cc. 308r-309r; 470, cc. 253r. 348v-350r; 472, cc. 315r-316v; 489, cc. 85r-86v; 508, cc. 375r-376r; 509, cc. 278v-279r; 512, cc. 148r-149r; Reg. Lat. 564, cc. 222r-224r; Arm. XXXIX, 8, cc. 42v-43r; 9, cc. 56v, 77r, 124rv, 227rv, 239rv, 245rv, 240v-247r, 248v-249r; A. A. Arm. XVIII, 1443, cc. 30r-36r; Intr. et exitus 441, c. 116r; 449, c. 57r; 452, c. 93v. Regesti di documenti papali, milanesi ed inglesi in Th. Rymer, Foedera, conventiones, literae... inter reges Angliae ei alios..., XI, Londini 1710, pp. 419, 468, 479 s.; Calendar of State Papers and Manuscripts relating to English Affairs existing in the Archives and Collections of Venice and in other Libraries of Northern Italy, a cura di R. Brown, I, London 1864, nn. 358-365, 367, 370-373, 375-380, 382, 386; Calendar of State Papers and Manuscripts existing in the Archives and Collections of Milan, a cura di A. B. Hinds, I, London 1912, nn. 20, 32, 39 s., 42, 45 s., 49 ss., 68, 70, 72, 84, 100 s., 107, 113, 118, 121 ss., 125 s.; J. A. Twemlow, Calendar of Entries in the Papal Registers relating to Great Britain and Ireland. Papal Letters, XI, London 1921, pp. 397 s., 401 ss., 529 s., 580 ss.: 675 s., 680 s.; atti milanesi, di cui alcuni già apparsi in traduzione nelle suddette raccolte, in Dispatches with Related Documents of Milanese Ambassadors in France and Burgundy, 1450-1483, a cura di P. M. Kendall-V. Ilardi, II, Athens, Ohio, 1971, nn. 59, 63, 83 s., 86, 93 s., 97 s., 100-106, 109, 112 s., 115 s., 119 s. (cfr. anche l'introd., pp. XXII-XXVI). La sintesi più immediata e rapida dei fatti resta quella dei Pii secundi pont. max. Commentarii rerum memorabilium, Francofurti 1614, pp. 88 ss., 277 s.; nella stessa edizione (pp. 586 ss.) è la lettera 162 del cardinale Iacopo Ammannati che reca testimonianza di una correzione imposta al Campano nella Vita Pii II, là dove aveva inteso attribuire al papa il merito della svolta politica in Inghilterra. Brevi cenni nel Crivelli, nel Campano e nel Platina (Leodrisii Cribelli de expedizione Pii Papae II adversus Turcos, in Rerum Italic. Script., 2 ed., XXXIII, s, a cura di G. C. Zimolo, pp. 80-83; Le Vite di Pio II di Giovanni Antonio Campano e Bartolomeo Platina, ibid., III, 2, a cura di G. C. Zimolo, p. 44); una trattaz. più ampia in O. Rinaldi, Annales eccles., X, Lucae 1753, pp. 223 s., 259 s., 323-44. Quanto alla bibl. oltre ad A. Gottlob, Des Nuntius Franz C. Antheil an der Entthronung des Königs Heinrich VI. und seine Verurtheilung bei der römischen Curie, in Deutsche Zeirschrift f. Geschichtswissenschaft, IV (1890), pp. 75-111, e C. L. Schofield, The Life and Reign of Edward the Fourth, King of England and of France, and Lord of Ireland, I, London 1923, pp. 71-215; cfr. G. Voigt, Enea Silvio de' Piccolomini als Papst Pius der Zweite und sein Zeitalter, III, Berlin 1863, p. 190; L. von Pastor, Storia dei Papi, II, Roma 1911, p. 71; G. B. Picotti, La Dieta di Mantova e la Politica de' Veneziani, Venezia 1912, p. 280; G. L. Lesage, La titulature des envoyés pontificaux sous Pie II (1458-1464), in Ecole française de Rome. Mélanges d'archéologie et d'histoire, LVIII (1941-46), pp. 219 s., 231; Gli uffici del dominio sforzesco (1450-1500), a cura di C. Santoro, Milano 1948, p. 6; E. F. Jacob, The Fifteenth Century, in The Oxford History of England, VI, Oxford 1961, pp. 518 ss. Un lungo consilium in difesa del C., firmato da Giovanni da Prato e Federico Capodilista, lettori nello Studio padovano, e da A. Roselli, grande amico dei vescovo, è conservato in Bibl. Apost. Vaticana, Reg. Lat. 377, cc. 85r-94v. La lettera del C. agli amici fiorentini scritta il 21 marzo 1463 è in copia presso la Bibl. universitaria di Genova, ms. A. IX. 28, cc. 142r-143r. Assai poco resta del breve periodo monastico del C.: il suo passaggio in S. Paolo fuori le Mura è registrato, tra l'altro, in due matricole dell'Archivio della Badia di S. Pietro di Perugia, CM 56, e. 69r, e dell'Archivio della Badia di S. Maria dei Monte di Cesena, Series monachorum, I, c. 94. La difesa del C. scritta dall'Aliotti, che l'Armellini e lo Scarmagli leggevano nell'archivio di S. Flora e Lucilla è in due manoscritti a Venezia, Bibl. naz. Mare., Mss. Lat., cl. XIV, 180 (= 4667), del sec. XVI, e a Firenze, Bibl. Medicea Laurenz., Redi 89 (123), cc. 77r-84r, del sec. XV.