COLANGELO, Francesco
Nacque a Napoli il 26 nov. 1769 da Michele, avvocato fiscale del tribunale della Regia Camera della Sommaria, e da Maria Giovanna Federici, di famiglia napoletana. Morto il padre nel 1780, entrò come novizio, nel monastero di S. Pietro ad Aram, in quel tempo casa dei canonici regolari lateranensi e si applicò agli studi con grande impegno, guadagnandosi l'ammirazione dei confratelli soprattutto per la sua prodigiosa memoria. Rimase tuttavia nell'istituto solo per pochi anni: nel 1783 preferì entrare nella Congregazione dei padri dell'Oratorio di S. Filippo, detti girolamini, che vantavano una illustre tradizione di cultura e disponevano di una ricchissima biblioteca. Qui, attingendo a piene mani dal patrimonio librario a sua disposizione, che curò personalmente e volle arricchito negli anni in cui ricoprì la carica di bibliotecario, si costruì una solida preparazione dottrinaria nelle scienze filosofiche e teologiche, e si dilettò nello studio dei classici latini (fra i quali prediligeva Tacito che aveva imparato quasi tutto a mente) e dei maggiori letterati italiani, specie meridionali.
La fama della sua cultura varcò i confini della congregazione e fece affollare la chiesa ove, secondo la regola di s. Filippo, egli predicava periodicamente con un eloquio semplice ma con solidi contenuti di dottrina, e riempire spesso la sua cameretta di letterati e uomini di cultura, quali D. Cotugno, N. Fergola, N. Vivenzio, che amavano prolungare il dialogo sui temi delle scienze sacre e profane. Anche fuori del Regno vantò amicizie con illustri personaggi e intrattenne una fitta corrispondenza letteraria con uomini dotti, quali il card. Gerdil, il Cesarotti, il Tiraboschi, lo Spedalieri, il domenicano francese G. Fabricy; ricevette dai pontefici attestati di elogio per le opere scritte in difesa della religione e nel 1803 fu ascritto all'Accademia di religione cattolica istituita a Roma sotto gli auspici di Pio VII.
In coerenza con l'ambiente culturale ove si formò negli anni decisivi delle sue scelte, il C. si attestò presto su posizioni di rigido conservatorismo e di difesa intransigente dei valori della tradizione: la Congregazione dell'Oratorio era infatti sede delle sedute settimanali della Accademia arcivescovile, riaperta nel 1780dal card. S. Filangieri con intenti apertamente antienciclopedistici, e lì si riunivano in dotti consessi i teologi e i moralisti più conservatori di Napoli, gli avversari irriducibili della letteratura "libertina" e delle nuove filosofie d'Oltralpe, considerate corruttrici della morale e sovvertitrici dell'ordine politico. Fino a che punto egli avesse recepito questi insegnamenti, irrobustendo la sua naturale avversione per le dottrine moderne, lo si vide presto in una delle sue prime opere a stampa Riflessioni storico-politiche su la Rivoluzione accaduta a Napoli (Napoli 1799), dedicata alla regina Carolina, in cui il C. prese una netta posizione di condanna nei confronti degli avvenimenti rivoluzionari ed espresse severi giudizi sulle idee giacobine e giansenistiche che circolavano nel Mezzogiorno.
La responsabilità diretta dei "disordini e delitti" avvenuti nel Napoletano è attribuita dal C. alla diffusione del "ruinoso sistema" insegnato dal Rousseau e propagandato nei libercoli del Longano, del Genovesi, del Filangieri, del Pagano. Sono essi - egli dice - i padri della rivoluzione, coloro che hanno permesso a "una masnada di briganti di sovvertire ogni ordine, assalire l'altare, oltraggiare il trono, contristare la natura, stritolare l'umanità..." (pp. 9 s.). Il dichiarato compiacimento per la restaurazione del governo borbonico, che "ha consentito il ritorno ai sani principi religiosi e politici", non nasconde tuttavia la preoccupazione del C. per la perdurante vitalità di quei principi di libertà ed eguaglianza che a suo parere - turbano alle radici l'ordine costituito.
Nominato nel 1815 vescovo di Sora da Ferdinando I, il C. ricusò la dignità; non poté tuttavia fare altrettanto nel 1820, quando, dopo pressanti sollecitazioni della Segreteria di Stato di Roma, si vide costretto ad accettare il vescovado di Castellammare e Lettere, al quale fu consacrato il 29 giugno del 1821 dal card. Pacca che, in ossequio alla sua fama di dottrina, lo dispensò dal consueto esame.
Immediatamente dopo venne scelto a far parte della commissione deputata per l'esecuzione del concordato del 1818 stipulato fra la S. Sede e il Regno delle Due Sicilie. Nel luglio 1824 fu eletto presidente della Pubblica Istruzione, carica nella quale operò tanto maldestramente da doverne essere esonerato nel 1831. Molto contestata fu la sua nomina, attribuita dai detrattori, non ai meriti personali ma alla sua amicizia col cav. Medici, il quale poi, vedendone le malefatte, se ne sarebbe vergognato al punto da negare di avervi avuto alcuna parte.
Obiettivamente la situazione della scuola napoletana era in quegli anni gravemente deteriorata, sia al livello della scuola media sia a quello universitario: raggiri, prepotenze, imbrogli, rilassatezze caratterizzavano la vita accademica a Napoli; i professori trascuravano l'insegnamento, la frequenza alle lezioni era bassissima specie nelle ore del mattino quando erano aperti gli studi privati, gli esami avvenivano in maniera irregolare, con interrogazioni collettive e risposte suggerite in anticipo.
Il C. non seppe o non volle porre rimedio a questa situazione; anzi, esautorando di ogni autorità il rettore e il Collegio dei decani e mostrandosi sollecito solo della condotta morale dei professori, dei quali indagò in maniera indiscreta la vita privata pubblicizzandone le mancanze in libelli ignominiosi, peggiorò le condizioni dell'università e più in generale della cultura napoletana. La vita accademica in quegli anni fu turbata da scandali finanziari nell'amministrazione e da liti squallide fra gli insegnanti, di cui è esempio eloquente il dissidio fra il C. e V. Flauti, professore emerito di matematica, che nel 1824 aveva fatto aprire la biblioteca universitaria e a cui il C. per gelosia ostacolò a lungo la consegna dei fondi librari del marchese Tacconi e sottrasse una gran quantità di libri, dirottandoli verso il seminario della sua diocesi di Castellammare.
Anche a Castellammare il C., per il suo carattere prepotente e violento, non si acquistò molte simpatie, nonostante avesse avuto sempre a cuore la sua Chiesa e si fosse adoperato per aprirvi un seminario, ottenendo nel 1823 dal comune la concessione del convento di S. Francesco dei frati minori riformati, da anni sollecitata come sede seminarile. Il malgoverno da lui esercitato quale presidente della Pubblica Istruzione non gli alienò il favore del re Ferdinando II, il quale nel 1833 lo nominò presidente della Commissione amministrativa della stamperia reale. Ciò spiacque ai liberali napoletani, i quali attribuivano all'ascendente che avevano sul re preti "reazionari" come il C. e il Cocle, arcivescovo di Patrasso, oltre che alla influenza della regina Maria Cristina di Savoia, il clima di devozionismo e di oscurantismo che caratterizzava la corte di Napoli.
Nello stesso anno 1833 vide la luce a Napoli la sua opera più pregevole, Istoria dei filosofi e matematici napoletani, in due volumi, nella quale il C. tracciava la storia della cultura napoletana dai pitagorici fino al sec. XVII.
Criterio informativo di tutta l'opera è che tale storia debba essere inserita nel più ampio discorso sullo sviluppo dello spirito umano. La storia letteraria dunque - egli afferma nella premessa programmatica - deve mostrare presso quali popoli e in quali tempi fiorirono le scienze e le arti, come trasmigrarono in altre nazioni e a quali vicende andarono soggette, quali furono le circostanze che ne produssero il decadimento e quali quelle che ne avvantaggiarono il progresso; deve accennare ai metodi adoperati dai dotti per il miglioramento delle scienze, alle accademie, alle scuole, alle dispute dottrinarie che si ebbero nelle varie epoche. Fra i filosofi napoletani, la simpatia del C. va a B. Telesio e T. Campanella, considerati "i primi ad innalzar la voce contro la mal'intesa autorità di Aristotile", e G. B. Della Porta, che "precedette il Galileo nella scelta del metodo onde interrogar la natura".
In questa opera confluirono i frutti dei suoi lunghi anni di studio e alcuni dei suoi lavori precedentemente stampati, quali il Racconto istorico della vita di G. B. Della Porta,filosofo napoletano (Napoli 1813), Il Galileo proposto per guida alla gioventù studiosa (ibid. 1815), Saggio di alcune considerazioni sull'opera di G. B. Vico intitolata Scienza nuova (ibid. 1822).
Ammalatosi di polmonite, il C. fu trasferito da Castellammare nel liceo del S. Salvatore a Napoli, ove morì il 15 gennaio 1836.
Fra le sue opere vanno ancora ricordate: Omelia di s. Giovanni Crisostomo intitolata Che Cristo sia Dio, trad. dal greco con note e un saggio storico sulla vita del santo, Napoli 1793; L'irreligiosa libertà di pensare nemica del progresso delle scienze, ibid. 1804; Vita di J. Sannazzaro poeta e cavaliere napolitano, ibid. 1817; Opuscoli scientifici di Filatete,I saggio di applicazione di alcune teorie geometrico-fisiche alla difesa della religione, ibid. 1817; Apologia della religione cristiana, ibid. 1818; Raccolta di opere appartenenti alla storia letteraria,ossia quadro filosofico della letteratura italiana, ibid. 1816-18; Vita di A. Beccadelli detto il Panormita, ibid. 1820; Delle principali prevenzioni degli increduli in materia di religione, ibid. 1820; Vita di G. Pontano, ibid. 1826; Dissertatio super superstitione arteque magica…, Neapoli 1832; numerose omelie, lettere pastorali e orazioni funebri, fra cui merita di ricordare quelle pronunciate per la morte di Pio VII (1823) e per la morte di Ferdinando I (1825).
Fonti e Bibl.: Napoli, Bibl. d. Oratorio dei girolamini, Libro dei defunti, p. 75; C. A. De Rosa marchese di Villarosa, Memoria degli scrittori filippini o sieno della Congregazione dell'Oratorio di S. Filippo Neri, Napoli 1837, pp. 112-116; E. De Tipaldo, Biografia degli Ital. illustri, IV, Venezia 1837, p. 74; V. Flauti, Anecdota ad publicam eruditionem spectantia…, Neapoli 1837, pp. 75-144; B. Croce, Una raccoltina d'autografi, Trani 1891, pp. 1 ss.; C. De Nicola, Diario napoletano(1798-1825), Napoli 1906, III, p. 288; A. Zazo, L'ultimo periodo borbonico, in Storia dell'univers. di Napoli, Napoli 1924, pp. 539, 576; B. Croce, Maria Cristina di Savoia regina delle Due Sicilie, in Uomini e cose della vecchia Italia, II, Bari 1927, p. 286; F. De Sanctis, Memorie giovanili, a cura di N. Cortese, Napoli 1930, pp. 39, 94, 231; E. Codignola, Pedagogisti ed educatori, Milano 1939, p. 141; S. Rota Ghibaudi, La fortuna di Rousseau in Italia(1750-1815), Torino 1961, pp. 88, 277; G. Celoro Parascandolo, Castellammare di Stabia, Napoli 1965, p. 113; R. De Cesare. La fine di un Regno, Roma 1975, p. 277